37.
Aspettavo questo momento. Ho detto a mia moglie di stare in infradito apposta e farsi venire i piedi freddi così me li mette tra le gambe e glieli posso scaldare. Lei si è messa a ridere e ha tenuto le pantofole con i calzettoni grossi tutta la sera, ma ce li ha freddi lo stesso. Mi sfiora l’alluce con le dita, mi tocca i polpacci. Sento il freddo a contatto con la mia pelle calda. Sono felice. Continua a toccarmi, arriva alle cosce e con le mani mi accarezza la schiena. Le salterei addosso, ma dall’altra parte del muro ci sono Alessandra e Ramona, di sicuro ancora sveglie per la gioia di essere stati di nuovo tutti insieme, a cena, dopo anni che non lo facevamo. Domani sera torno in galera e mi faccio accompagnare, anche se non mi piace che mi vedano entrare là dentro. Vengono regolarmente a trovarmi, tutte e tre, eppure non mi piace lo stesso che mi vedano entrare. Voglio arrivare un po’ prima, così il Direttore è contento e dà parere favorevole alla concessione delle misure alternative alla detenzione. Ho imparato a parlare in carcere, ho imparato un sacco di cose che non sapevo. Prima di essere arrestato non avevo mai letto niente, – giusto la pagina dei morti su “L’Unione Sarda” quando capitava – adesso invece non vedo l’ora che Farris sia di turno, così mi porta vecchi numeri di “Famiglia Cristiana”. Mia moglie è rimasta sorpresa, stamattina, quando sono voluto passare in edicola dopo che eravamo andati in pasticceria.
“Voglio comprare Famiglia Cristiana” le ho detto.
“Famiglia Cristiana?”
“Eh, mi piace leggere Famiglia Cristiana.”
Si è messa a ridere e mi ha dato un bacio. Se non avessi la certezza di tornare da lei e dalle mie figlie, mi ammazzerei: non potrei vivere senza di loro.
Continua ad accarezzarmi la schiena e mi rilasso. Chiudo gli occhi, ma non ho per niente sonno. Sono felice e voglio stare sveglio, non mi voglio perdere neanche un momento, avrò tempo in carcere per dormire.
“Sicuro che non vuoi tornare a fare quello che facevi, quando esci?” mi chiede mia moglie.
Prima di entrare in carcere ero muratore. Sempre in nero, sempre a giornate. Guadagnavo bene, non ci mancava niente, anche perché non sono un tipo spendaccione. Io al bar, ad esempio, non è che ci vado tanto. Anzi, non ci vado per niente, non mi è mai piaciuto. E dire che quando smettevamo di lavorare molti miei colleghi si fermavano, sembrava che la giornata non finiva bene se non passavano da Giancarlo a bersi una birra. Io no, io non vedevo l’ora di tornare a casa.
“Vediamo, il Direttore ha detto che mi vuole far fare un corso di falegnameria…”
“E lavoro se ne trova?”
“No, – rispondo. Mi metto a ridere. – lavoro non se ne trova da nessuna parte, però mi hanno preso in simpatia, te l’ho detto, e magari riescono a farmi entrare da qualche parte”.
“Speriamo. – dice – Ho sentito che l’Ikea vuole aprire a Cagliari, li fa chiudere tutti i falegnami se apre davvero”.
A me questi discorsi nemmeno mi va di affrontarli. Lavoro non ce n’è, mia moglie è disoccupata, Alessandra e Ramona le chiamano come cameriere o bariste, quando capita – anche le pulizie fanno, non sono ragazze che si tirano indietro – ma a me non mi interessa. Voglio dire, mi piacerebbe essere ricco, non avere preoccupazioni, ma l’importante è volersi bene. Da mangiare comunque non ci è mai mancato, quando uscirò definitivamente troveremo una soluzione: muratore, falegname, giardiniere, non fa differenza, mi arrangio in ogni modo.
“Come stai là dentro?” mi chiede mia moglie.
Abbiamo fatto un patto: non parliamo di carcere quando ci sono Alessandra e Ramona. Preferisco evitare. Non perché mi vergogni di quello che ho fatto, ma perché il carcere è un posto che non auguro a nessuno e non ci sono storie belle da raccontare. Io voglio che loro siano felici, che mi vogliano bene e soprattutto che siano orgogliose del loro padre. Ho quasi ammazzato una persona, ma l’ho fatto per Alessandra, non perché sono un criminale. Ne sono consapevoli: appena mi vedono, è tutto un bacio e un abbraccio. E dire che Ramona quando aveva dodici o tredici anni faceva finta di non vedermi. Chissà cosa le era preso, sembrava che si vergognasse di me. Adesso che è cresciuta sta tornando come quando era bambina, almeno per l’affetto: si attacca e non mi lascia più.
“E come vuoi che stia? Sto meglio qua, ecco.”
“Il tuo compagno?”
“Daniele? Sta bene, sta.”
“Ma ti racconta mai qualcosa?”
Conoscevo la storia di Daniele Masala prima di conoscere lui personalmente. Come tutti, avevo sentito della strage al telegiornale e in quei giorni, anche qui a Maracalagonis, non si parlava d’altro. Mi ricordo di mio cognato che diceva di avere conosciuto il suocero al vivaio di Ugo Martis, oppure Giampiero, il vecchio barbiere, che raccontava di essere stato a scuola con la suocera. All’epoca non mi interessava tanto, – ok, uno è impazzito e ha ammazzato tutti – sono storie che non mi hanno mai appassionato. Mia moglie, ma anche Alessandra, stanno sempre dietro a vedere Quarto Grado, Chi l’ha visto? e tutte quelle altre trasmissioni che parlano di gente scomparsa, omicidi, stragi. Io no, io mi annoiavo a seguirle. Adesso in carcere le guardo, anche perché altrimenti cosa faccio? Prima arrivavo a casa ed ero stanco dal lavoro, mangiavo e mi addormentavo sul divano, qualunque cosa ci fosse in televisione. Adesso in carcere sono bello riposato e, dopo che ho finito “Famiglia Cristiana”, provo a dormire, ma non ho mai sonno, per cui guardo tutti i programmi che danno.
“Parla poco, cosa ti credi?”
“Boh, e tu non sei curioso?”
Adesso mi accarezza la pancia e con le dita sfiora l’elastico delle mutande. Dalla camera della ragazze non si sentono voci, ma arriva la luce del cellulare.
Quando sono arrivato al carcere di Minduledda, mi hanno portato subito dal Direttore. A Uta mi ero sempre comportato bene, non capivo cosa volesse da me. Per sentito dire, sapevo che i direttori vogliono farsi conoscere dai detenuti che reputano problematici, giusto per mettere le cose in chiaro. Ero un po’ preoccupato, non avevo idea di cosa pensare. Invece il dottor Lutzu, così si chiama, appena sono entrato si è alzato, mi ha stretto la mano, mi ha fatto un sacco di cerimonie.
“Ci deve fare un favore, signor Angius.”
Io non è che sia molto favorevole allo scambio di favori con direttori, guardie e simili. Ti promettono tanto, certo, e di solito mantengono anche le promesse, ma in cambio di che cosa? Solo che quando sei un detenuto non è che puoi rifiutarti.
“Abbiamo pensato di metterla in cella assieme a Daniele Masala, saprà certamente chi è.”
Insomma, dal momento che il mio curriculum diceva che ero una brava persona, finita in carcere per caso – il caso di aver quasi ammazzato di botte un coglione che se lo meritava – e che difficilmente avrei creato problemi, potevo ottenere permessi premio, visite speciali – mia moglie e le mie figlie assieme, invece che una alla volta – bastava sorvegliare Daniele Masala e raccontare al dottor Lutzu o agli altri dirigenti se c’era qualcosa che non andava.
“In particolare, signor Angius, ci tengo a dirle che qua a Minduledda nessun detenuto si è mai tolto la vita e mi piace pensare che ciò avvenga perché noi abbiamo un occhio di riguardo per la vostra sicurezza.”
In pratica mi chiedeva di controllare Daniele Masala, raccontare se mi parlava di suicidio e tentare di salvargli la vita se avesse provato ad ammazzarsi. Non ce n’è mai stato bisogno: certo, Daniele non è felice, ma da qui a suicidarsi ce ne passa. Sto bene con lui, ci vado d’accordo e mi godo i permessi supplementari.
“Curioso di che cosa?” dico a mia moglie.
“Eh, quello ha ammazzato tutti, non ti racconta niente?”
No, non racconta niente e soprattutto non chiede niente. Del perché sto dentro gliel’ho raccontato io, lui non si è mai interessato. Mi rispetta, ecco tutto, ma non per quello che ho fatto. In carcere ci sono gerarchie precise, date dai reati compiuti e dai rapporti di forza spendibili all’esterno. Io, per quanto riguarda questi ultimi, non godo della protezione di nessuno. Ma tutti sanno che sono in galera perché ho storpiato a calci e pugni un cretino e che sono pronto a farlo di nuovo, se qualcuno mi dovesse rompere i coglioni. Molti mi ignorano, altri mi temono, e forse c’entra anche il rapporto privilegiato che ho con il Direttore. Daniele invece mi stima per come sono: a lui non importa quello che ho fatto.
“Cosa vuoi che mi racconti?”
“Perché ha fatto quello che ha fatto, per esempio… nessuno ne dice più nulla.”
“Ma chi ne dovrebbe parlare?”
“In televisione, dico. Ne hanno parlato solo quando è successa la cosa, poi più niente. Guarda invece Avetrana, oppure Cogne o Amanda Knox, Garlasco, ancora ne parlano, il piccolo Loris…”
Le stringo la mano e le do un bacio, poi tendo un orecchio verso la camera delle ragazze. Silenzio. E niente luce del cellulare.
“Meglio così, dai, guarda che la storia di Daniele non è interessante per niente.”
In effetti io ancora non mi rendo conto di essere in cella con uno che ha ammazzato addirittura tre persone. Se penso a Daniele, mi viene in mente tutto tranne che un pericoloso assassino. È magrolino, basso, con la testa incassata nelle spalle. Dà l’idea di essere uno un po’ sfigato, ecco, altro che assassino.
“Sarà, – dice mia moglie – però mi piacerebbe saperne di più, lo sai che sono curiosa”.
“Ti faccio una promessa, – le dico – appena torno dentro mi faccio raccontare per filo e per segno quello che ha fatto, così poi te lo racconto io a te”.
I piedi di mia moglie adesso sono caldi, mi stringe le gambe ma non sento più la differenza di temperatura con la mia pelle. La stringo, l’avvicino a me e la bacio. Ricambia. Mi manca tanto, voglio che mi baci ancora, basta parlare di Daniele.