38.

Apro il cassetto di Matteo e prendo la penna e un foglio. Io non scrivo mai, mentre lui li usa per segnare le parole che non conosce – lo fa quando legge “Famiglia Cristiana” – e poi mi chiede il significato. Dice che non lo vuole sapere subito perché prima vuole provare a capire e solo dopo confronta ciò che gli dico con quello che aveva pensato. Nemesi, sicumera, alterco: peccato, da domani le dovrà cercare nel vocabolario.

Avevo pensato di scrivergli due righe di saluto, un biglietto, non mi va di lasciarlo così, ma ora che ho il foglio davanti non so da dove iniziare. Cosa dovrei dirgli? D’altronde siamo capitati assieme, ma non è che abbiamo tanto da spartire. Lui ha un’esistenza, là fuori, e il carcere è solo un incidente: quando sarà vecchio, con le figlie ormai grandi e i nipoti sulle ginocchia, si ricorderà di questi giorni come di un periodo lontano nel tempo, una piccola parentesi nella sua vita. Per me invece il carcere è tutto, adesso, e non ho nessuna speranza di uscire. Ma, anche se ce l’avessi, dove potrei andare?

Mi alzo dalla sedia e guardo fuori dalla finestrella. Non vedo nessuno, né sento rumori. Nonostante facciano i gradassi e si atteggino a grandi criminali, la maggior parte dei detenuti rispetta le regole. E poi è sabato, oggi, molti hanno avuto la giornata libera e quando rientrano sono contenti: hanno visto la famiglia, sono andati a puttane, si sono drogati in pace. Tornano felici e cercano di farsi durare la felicità il più a lungo possibile. Io non ho legato con nessuno di loro, a parte che con Matteo, e anche con gli agenti cerco di non avere rapporti che vadano oltre i saluti.

Farris è un gran chiacchierone, quando passa si trattiene qua davanti e ci racconta la sua vita, ma io non dico niente. Matteo sì, credo che siano diventati amici, – se è amicizia un sentimento che nasce in galera – perché in qualche modo bisogna pur farci passare il tempo: Farris parla dei figli e Matteo gli risponde raccontando delle figlie, poi passano alle mogli, ai problemi che hanno, ridono e si salutano, fino al prossimo passaggio della guardia. Io di solito me ne sto a letto e quei discorsi mi fanno solo venire tristezza. Farris prova a coinvolgermi, ma io alla fine di cosa posso parlare? Sorrido, annuisco e resto sdraiato sulla brandina.

Torno alla sedia e mi accendo una sigaretta. Sono le undici, non sono mai puntuali con le luci.

“Caro Matteo – scrivo – grazie per tutto quello che hai fatto per me”.

Ma poi, è così necessario scrivere qualcosa? Prendo la penna e cancello, passando e ripassando l’inchiostro sul foglio: non vorrei che restasse traccia delle mie parole. Strappo il foglio a pezzetti, poi li butto nel cestino.

Mi alzo, controllo il lenzuolo: senza sfilarlo dalla brandina, lo tengo stretto con la mano sinistra mentre con quella destra faccio più forza che posso. Resiste.

“Masala, tutto a posto?”

È Farris che mi guarda dalla finestrella.

“Preparo il letto” dico io.

Ho il cuore in gola, come se mi avesse beccato a rubare.

“Sonno?”

“Abbastanza.”

“Tra un po’ spengo, – spiega – lo sai che il sabato teniamo acceso un po’ di più, così chi rientra alle ventidue ha tempo di sistemarsi”.

“Sì, grazie.”

“Angius torna domani?”

Lo sa benissimo, ma me lo chiede lo stesso.

“Sì, domani sera. Alle ventidue deve essere al portone.”

“Chissà come è contento...”

“Non vedeva l’ora” dico io.

Non voglio essere scortese, non con Farris.

“Vedrai, se riesce a farsi inserire come falegname, fa altri tre o quattro mesi, sei al massimo, poi non lo vediamo più.”

“Sarebbe bello per lui, per come si comporta si merita questo e altro.”

“E tu non ci pensi a fare qualcosa? Un corso? Piseddu in biblioteca è sempre da solo, dice che non ce la fa.”

“Potrei chiederlo?”

Immagino i discorsi che farà, appena mi troveranno. Dirà che non se l’aspettava, dato che un momento prima di ammazzarmi stavo pensando di diventare bibliotecario.

“Tu falla… la domandina falla sempre, non ti costa niente. E poi ti comporti bene, né io né i colleghi abbiamo qualcosa da dire. Secondo me te l’accettano e, comunque, te lo ripeto, tu la domandina falla.”

“Ci penso, davvero.”

“Io lo dico per te, altrimenti ti annoi. Ora sei capitato bene con Angius, ma stare sempre in cella non ti fa bene, e poi metti che ti arriva un marocchino, oppure uno insopportabile, bisogna che ci pensi.”

“È vero, lo so, ci penso.”

“Dai, mi raccomando.”

Sta un attimo zitto e ne approfitto per salutarlo.

Accendo una sigaretta e la fumo seduto sul letto. Anche Matteo fuma, meno male, so che dalla direzione cercano di non mischiare mai fumatori e non fumatori, altrimenti sono risse. Me l’ha detto, prima di uscire, che mi avrebbe portato una decina di confezioni di tabacco. Le fumerà lui, oppure le regalerà, è sempre attento a farsi voler bene.

Sento Farris che passeggia in corridoio e parla con qualcuno, non riesco a capire cosa dice. Sta finendo il giro, tra un attimo spegnerà le luci grandi. Mi chino sul lavandino, apro l’acqua e prendo lo spazzolino. Non vorrei che guardasse dentro, mi vedesse seduto e si sentisse in dovere di parlare ancora.

Luci spente.

Silenzio.

Chiudo l’acqua, mi asciugo le mani e mi risiedo sul letto.

Sfilo il lenzuolo, lo arrotolo seguendo la parte più lunga e faccio un cappio da un lato. Mi alzo e annodo l’altro lato alla grata.

Accendo una sigaretta e la fumo lentamente.

Fuori non si sente nessuno, si vedono solo le luci piccole, quelle che non spengono mai.

Salgo sul tavolino.

Infilo la testa dentro il cappio.

Salto giù.