4.

Ci ho pensato tante volte, per maledirlo, ma non sono mai riuscito a ricordare chi mi abbia dato il suo numero. Avevo attivato una promozione natalizia sul cellulare: si chiamava Christmas Card, pagavi diecimila lire e potevi mandare cento messaggi al giorno ad altri numeri Vodafone. Io avevo Wind, una vecchia scheda di mia sorella, e mi ero comprato una SIM Vodafone solo per usufruire di quella promozione. Era l’unico metodo che usavo per parlare con le ragazze, anche perché ero troppo timido per tentare approcci diretti. E poi non conoscevo nessuno a Sinnai e nemmeno a Cagliari, e non è che potevo andare da una ragazza e dirle: “Ciao, posso parlare con te?”

Ho sempre invidiato quelli spigliati, sicuri di sé, quelli che si avvicinano a una persona e sanno come comportarsi e cosa dire. Io no.

Ero sempre in casa, anzi, sempre in camera, e non facevo altro che stare attaccato al computer, ascoltare musica e mandare messaggi, appunto. Tiravo nel mucchio, mi sarei accontentato di qualunque cosa pur di uscire da quella stanza. Mia moglie è una che avrebbe fatto meglio a non rispondere. Invece lo ha fatto, io ho risposto a lei, lei di nuovo a me, ed è finita che ci siamo incontrati veramente, anche se di vista ci conoscevamo già.

Io e la mia famiglia ci eravamo trasferiti da Portoscuso a Sinnai alla fine della prima superiore e per me non è stato facile. Sradicato, ecco come mi sono sentito. Cioè, all’epoca non ci pensavo troppo, ero solo triste, molto triste, ma non mettevo in relazione la tristezza con il trasferimento. Portoscuso e Sinnai sono distanti nemmeno cento chilometri, è sempre Sardegna, ma a quell’età sono tanti anche cinquecento metri, se non sai come percorrerli. Là lasciavo un gruppo di amici con cui ero cresciuto, persone che frequentavo fin da bambino. Abbandonavo il mio mondo per essere sbattuto in un posto che non conoscevo. I miei genitori lo hanno fatto con le migliori intenzioni e hanno sempre giustificato la scelta con una spiegazione semplice, banale e in fondo autoassolutoria. Mio padre era impiegato alla centrale elettrica e, in quanto tale, aveva diritto alla casa: un appartamento piccolo e umido. Mi ricordo le macchie verdi agli angoli del soffitto, nonostante mia madre le pulisse spesso, eppure era casa mia. Quando è andato in pensione, assieme a mia madre hanno deciso di avvicinarsi a Cagliari, – loro due sono di Quartu Sant’Elena – così io e mia sorella saremmo potuti andare all’università senza dover spendere in alloggi per fuori sede. Tutto giusto, in linea teorica. Peccato che mia sorella sia scappata appena ha potuto, andando a studiare a Firenze, e io all’università non abbia quasi fatto in tempo a metterci piede. Ma non è colpa loro: lo hanno fatto davvero con le migliori intenzioni, sarebbe meschino incolparli di qualcosa. Eppure io, solo io, so come ci si sente a quindici anni, a diciotto, a venti, sempre solo in cameretta, musica e computer, computer e musica, aspettando come unico sollievo le promozioni del cellulare, quella estiva e quella natalizia.

Non è che fossi recluso, comunque. Andavo a scuola, conoscevo qualcuno, facevo amicizia, frequentavo altri ragazzini, ma mi sembravano solo intervalli tra un momento di solitudine e l’altro. Avrei voluto un gruppo di amici come quello che avevo a Portoscuso, festeggiare insieme i compleanni, uscire il venerdì sera, divertirmi. Invece niente. A scuola ho conosciuto uno della mia età e lui, come me, non usciva il sabato, non andava a ballare, non aveva la ragazza. Eravamo molto simili, credevo. Ma non era così. Lui era di Sinnai, io no. Lui, se avesse voluto, avrebbe trovato compagnia. Gli bastava uscire di casa, come me a Portoscuso, per trovare qualcuno con cui fermarsi a parlare. Io, se fossi uscito dalla mia camera e sceso giù in strada, non avrei trovato nessuno. Era inserito, erano tutti inseriti, io no. Ero da solo. Le uscite mi sembravano un miracolo. Ogni tanto cercavo di mettermi d’accordo con i compagni di scuola per vederci la sera, però era una fatica. Intanto abitavo a Sinnai e loro erano di Cagliari. Sono quattordici chilometri, ma il sabato sera senza motorino è come stare sulla Terra e voler andare a bere qualcosa su Marte. Dovevo coinvolgere mio padre, lui mi accompagnava, ma era uno sbattimento. E poi mi rimproverava, come faceva lui, senza arrabbiarsi, senza urlare, ma facendomi sentire in colpa. Hai bevuto, sento odore di sigaretta, ricordati che hai un principio d’asma… Una volta che avevo bevuto un po’ di più sono tornato dal Poetto a casa a piedi. Non è tanto, saranno dieci chilometri, ma non avevo voglia di disturbarlo. A Portoscuso era tutto più facile. Mi affacciavo alla finestra e parlavo con qualcuno. Non stavo mai da solo e se ci stavo la scelta era mia. A Sinnai no, a Sinnai non potevo decidere niente. È vero che ci eravamo avvicinati a Cagliari, ma io ero distante lo stesso da tutti.

Forse gli stessi problemi li avrei avuti anche stando a Portoscuso, continuando a frequentare gli amici con cui ero cresciuto. Li ho persi di vista tutti. All’epoca Facebook non c’era, internet era poco diffuso, tenere i contatti non è stato facile. I primi anni tornavo a Portoscuso dai miei amici una volta all’anno: andavo a festeggiare con loro il capodanno, poi più nemmeno quello. Persi di vista. Qualcuno l’ho ritrovato su Facebook, ma mia moglie non mi lasciava mai il computer e lo smartphone era troppo lento, non ci entravo mai. Quando mi sono iscritto, la prima persona che ho cercato è stata Marianna Massaiu. In prima superiore le avevo chiesto di fidanzarsi con me e lei aveva risposto nel peggior modo possibile. Non glielo avevo chiesto direttamente, figuriamoci, non ne avevo il coraggio. Avevo mandato un mio amico a parlare con lei.

“Daniele ha detto se vuoi uscire con lui.”

“Daniele chi?”

“Daniele Masala.”

Lei aveva fatto il gesto del vomito. Il mio amico me l’aveva riferito per bene. Due dita verso la bocca, la lingua fuori, gli occhi strabici. Il rumore. Ho sempre pensato a quel gesto ogni volta che mi capitava di fantasticare su una ragazza. Solo il cellulare mi ha permesso di superare quel disagio. Nessuna avrebbe mimato il vomito a leggere un mio messaggio. O forse sì, ma io non l’avrei vista.

Non credo che la mia futura moglie abbia finto di vomitare mentre scambiava messaggi con me. Da subito era stato chiaro che ci conoscevamo: mai parlato assieme, ma avevamo capito bene chi c’era dall’altra parte dello schermo. È strano, ogni giorno prendevo la corriera e incontravo moltissime persone, eppure poche mi restavano in mente. Notavo le ragazze particolarmente carine, oppure quelle brutte, strane, appariscenti: la mia futura moglie non apparteneva né alle une né alle altre.

I primi messaggi che ci siamo scambiati erano qualcosa tipo: Tu sei quello che si siede vicino all’obliteratrice, con gli auricolari?

E tu invece sei quella che si siede nei posti a quattro, nella corriera dell’una e un quarto?

Molto poco romantico come inizio di una storia d’amore, ma ormai ho capito che ognuno si accontenta dell’amore che gli capita. La prima volta che ci siamo visti dopo che avevamo iniziato a messaggiare, io stavo morendo dalla vergogna. Forse anche lei, ma non me l’ha mai detto. L’ho salutata, non sono nemmeno sicuro che mi sia uscita la voce. Ricordo lo sguardo delle amiche, la curiosità, la voglia di capire da dove nascesse quel saluto. Abbiamo continuato a mandarci messaggi, ero felice quando me ne arrivava uno. Toglievo la suoneria dal cellulare, eliminavo la vibrazione, lo voltavo per non vedere il display illuminarsi: mi piaceva girarlo a sorpresa e leggere: 1 messaggio ricevuto.

Se solo l’avessi sbattuto a terra, quel cazzo di telefono, invece di starci attaccato come un disperato!