5.
Erano gentili e riservati, quello sì, soprattutto riservati. Se ci penso, sono contenta che se ne siano andati prima che il figlio facesse quello che ha fatto. Non avrebbero retto un dolore così grande, che cosa brutta. Dicono sempre che sopportare la perdita di un figlio sia impossibile, ma non deve essere facile nemmeno sapere che tuo figlio è un mostro. Come fai a difenderlo? Io... grazie al cielo, i miei figli sono brave persone, ormai sono grandi, non mi hanno mai dato nemmeno un dispiacere. La auguro a tutti una famiglia come la mia.
Lui lo conoscevo solo di vista, buongiorno e buonasera, niente di più. Non l’avrei mai detto, certo, non era un ragazzo che sembrava cattivo. Con lei, la madre intendo, eravamo diventate amiche quando il marito si era ammalato: se fosse vissuta di più, poverina, ci saremmo frequentate ancora. Non erano di Sinnai e, a dire il vero, nemmeno io sono di Sinnai, solo che ci abito da quando mi sono sposata. A settembre sarebbero quarant’anni di matrimonio, quarant’anni che vivo qua, e ormai faccio parte di questo paese. La palazzina dove abito, e dove abitavano anche loro, è nuova, e comunque non è che ci sono da tanto, io. Prima con mio marito e i miei figli abitavamo in una casa grande, con giardino e tutto quanto, una casa singola. Solo che poi non è che ci siano tante agevolazioni per noi pensionati e allora abbiamo deciso di venderla, comprare un appartamento e con i soldi aiutare anche i figli, che ne hanno sempre bisogno. Marcello, mio figlio piccolo, voleva aprire un negozio di frutta e verdura con l’ex fidanzata, gli serviva qualcosa per iniziare, poi alla fine si sono lasciati e meno male che adesso ha trovato lavoro da Euronics, reparto Grandi Elettrodomestici. I problemi non mancavano neanche a noi, no di certo, ma ne siamo usciti a testa alta. Debiti, tutte quelle cose, volevano anche pignorarci questo appartamento. L’abbiamo intestato a mia sorella, per fortuna, e quando è morto mio marito è venuta a vivere con me. Poi è morta anche lei e mi sono ritrovata da sola, i figli lontani, i nipoti che mi vogliono bene, nonna di qua nonna di là, però non è che vengono a trovarmi tanto spesso.
È normale fare amicizia con i vicini, io sono loquace, mi piace conoscere persone nuove. Penso che c’entri il lavoro che facevamo, con mio marito: avevamo un negozio di materiale elettrico, fornitissimo, e con i clienti bisognava saperci fare. Mica come adesso, che le lampadine le compri al supermercato e non sai nemmeno se funzionano. Io le provavo una a una, non è che poi uno andava a casa, la guastava e tornava indietro per farsela cambiare. Adesso non lo fa più nessuno. I miei figli, uno abita ad Assemini, Marcello, quello che lavora da Euronics; poi c’è Gianluigi che lavora a Venezia, gestisce un bar con la moglie, una rumena. All’inizio non ero troppo convinta, invece adesso, se devo essere sincera, la preferisco anche all’altra, la nuova fidanzata di Marcello. Non mi interessa se è rumena, è educata ed è questo l’importante, e poi è anche una bella ragazza. L’altra invece ha un po’ troppo la puzza sotto il naso, per i miei gusti. Fa la commessa da Scarpe & Scarpe, si dà un sacco di arie. Nemmeno la capisco bene quando parla, capisco meglio quella rumena, Sonia si chiama.
Secondo me siamo diventate amiche proprio per la questione dei figli. Lei non è che si apriva tanto – stava molto ad ascoltare, quello sì – ma io certe cose le capisco anche se non me le dicono. Soffriva perché la figlia abitava a Firenze, ma soprattutto perché il figlio non passava quasi mai a trovarla, anche se stava qua a Sinnai. Lo sentivo salire le scale ogni due settimane, sempre di domenica, verso le sei e mezzo, prima di cena. Non è che io mi metta a spiare chi va e chi viene, ma questo condominio è fatto così: si sente tutto. Avevamo anche parlato di fare causa all’impresa, con l’amministratore, perché i muri non sono insonorizzati come ci avevano detto, ma poi non se n’è fatto più niente. Alla fine sono tutti d’accordo, imprese e amministratori, non ne vale la pena: quelli costruiscono male, tutto a risparmio, e quegli altri li difendono. Gli unici che ci rimettono siamo noi.
Quasi quasi si vedeva più quella che stava a Firenze di quello che abitava a qualche centinaio di metri di distanza. Secondo me non è una cosa giusta, ecco, finché uno è lontano per lavoro è un conto, ma se sta vicino allora bisogna che un figlio si occupi dei genitori. Cosa non hanno passato, con la malattia del marito, solo il Signore lo sa! Io lo ringrazio tutti i giorni di aver preso mio marito e mia sorella con un infarto, meno male, così non hanno sofferto. Forse è egoismo dirlo, però anche i parenti soffrono di meno se uno muore di infarto. Cioè, si soffre uguale, io a mio marito e a mia sorella ci penso sempre e mi mancano, però almeno non li ho visti ridotti come uno straccio. Devo essere sincera: anche io vorrei morire così, magari nel sonno, con il cuore che si ferma e la mattina dopo non mi sveglio.
Lei praticamente l’ho trovata io e non è stata una cosa bella, non me l’aspettavo. Durante la malattia del marito siamo entrate in confidenza, le sbrigavo molte commissioni. Se andavo in farmacia per me, mi facevo dare anche le loro di medicine; lo stesso dal dottore, se passavo a ritirare le mie ricette, mi facevo dare anche le loro. Le compravo anche la frutta e la verdura, magari non molta, che la schiena è quella che è e a tirare il carrello mi stanco subito, ma se posso aiutare io non me lo faccio dire due volte. E poi mi dispiaceva vederla così, con il marito che entrava e usciva dall’ospedale – alla fine è morto all’hospice, nemmeno a casa – e il figlio che non si degnava di aiutarla. Lo portavano all’ospedale i volontari della Misericordia, che vergogna! E dire che il figlio aveva anche una bella macchina, una Fiat, credo, ma non sono molto esperta. E non contiamo quello che ha fatto dopo, per l’amor del cielo, non è così che ci si comporta! La figlia invece veniva ogni volta che poteva, povera ragazza, anche se aveva – ha ancora – famiglia e figli a Firenze e non è facile; io lo so perché vedo Gianluigi, mio figlio, che è a Venezia.
Lei non si lamentava, si capiva che era triste, ma non le usciva mai una parola fuori posto, non parlava mai male del figlio. A dire il vero non ne parlava nemmeno bene, ecco, l’argomento non è che lo affrontava spesso. Un giorno, poverina, abbiamo dovuto cambiare assieme la lampadina del soggiorno. Il marito non mi ricordo se era già all’hospice, oppure allettato in camera, comunque la lampadina si era fulminata. Io, con il lavoro che facevamo con mio marito, sono capace a fare queste cose, solo che non sono più una ragazzina. Il sacrificio che abbiamo fatto... cose da non crederci. Abbiamo cercato una scala in cantina, mi sono arrampicata, ho tolto la plafoniera, – una fatica tirare via quei ganci, ho anche un principio di artrite – poi ho preso la lampadina vecchia e sono andata dai cinesi a comprarne una uguale. Ora che ci ripenso, il marito era a letto, ecco perché ero andata io dai cinesi, lei non poteva uscire. Comunque, tutto un lavoro che un giovane ci avrebbe messo dieci minuti, noi ci abbiamo impiegato mezza giornata. Alla fine mi ha ricompensato con un pezzo di salame di cioccolato. Io non volevo niente, mi fa male tutto quello zucchero, non ne potrei nemmeno mangiare per via della glicemia, del colesterolo, però alla fine l’ho preso. Buono era buono, ma preferisco altri dolci e comunque non l’aveva fatto lei, era comprato, ce l’hanno al Conad, anche in quello piccolo.
Dicevo che l’ho trovata io. Quei giorni dopo la morte del marito ero sempre da lei, lo capivo che ne aveva bisogno. Andavo di mattina presto, lei mi apriva in vestaglia e le preparavo il caffè. Avevo paura, ecco, con quello che si sente: la vedevo triste e depressa, volevo farle compagnia. Chiacchieravamo un po’, lei soprattutto ascoltava, le chiedevo se aveva bisogno di qualcosa, poi andavo via. Tornavo di pomeriggio, ma non sempre, non mi piace essere invadente.
Una mattina ho suonato e non mi rispondeva. Suonavo, suonavo e niente. Allora ho provato a chiamarla al telefono di casa, poi anche al cellulare, ancora niente. Ero preoccupata. Mi sono ricordata che un giorno ci eravamo scambiate il numero di telefono dei figli, lei all’inizio era contraria, ma l’avevo convinta, non si sa mai. A pensarci adesso sono contenta, ho fatto proprio bene.
“Pronto.”
“Pronto, buongiorno, sono la vicina di casa di sua madre.”
Io al figlio gli davo del lei, mi metteva in soggezione. Adesso mi viene un po’ di paura a pensare che ho parlato con un assassino.
“Mi dica.”
“Sua madre non mi apre.”
“In che senso?”
“Suono il campanello e non apre la porta.”
“Forse è uscita.”
“No, faccio io le commissioni per lei.”
“E allora starà dormendo.”
“No, sono le nove ormai, di solito ci vediamo prima delle otto.”
Non poteva tornare a casa, aveva troppo da fare al lavoro. Mi suggerì di provare più tardi. Io ero offesa, ecco, poi mi è passato tutto, certo, però in quel momento ci ero rimasta male. Alle undici e mezzo suonai di nuovo il campanello: nessuna risposta. Richiamai il figlio e mi disse che sarebbe arrivato per l’una e mezzo. Lo stavo aspettando in balcone e uscii subito fuori; mi guardava come se fossi matta, io. Solo il Signore sa quanto facevo bene a preoccuparmi.
Era ancora a letto, ferma, immobile. Il dottore mi ha poi detto che era morta durante la notte, infarto anche lei, come mio marito e mia sorella, e che non aveva sofferto. Ecco, lo ripeto, io sono contenta che se ne sia andata così, prima che il figlio facesse quello che ha fatto. A me non stava simpatico, per come si era comportato con i genitori, con il padre malato soprattutto, e per come mi aveva trattato quando lo avevo chiamato perché ero preoccupata per la madre. Insomma, era strano, ma da qui a dire che avrebbe ammazzato tutti, quello no. Sono cose troppo brutte, non dovrebbero mai succedere, cose che uno nemmeno si immagina.
Io, se posso, gli dedico sempre una preghiera.