6.

Se devo fare una classifica, metto mia moglie e mio suocero al primo posto, a pari merito, mentre mia suocera resterebbe dietro, parecchio distanziata. Quei due, padre e figlia, erano della stessa pasta. Cattivi, aggressivi, invidiosi, paranoici. Potevano morire di freddo, ma non ci pensavano: prima si guardavano attorno per vedere se i vicini avevano una coperta. E se non ce l’avevano, tranquilli che se la sarebbero goduta. Io non sono fatto così. Quando mi sono reso conto che il matrimonio e la mia vita stavano crollando, ho provato a diventare egoista, ma non ce l’ho fatta. Certo, fa un bell’effetto dirlo dopo che ho ammazzato tutti, però non mi ritengo una persona cattiva. Ho compiuto un gesto da persona cattiva, ma in generale sono buono. Nemmeno mia suocera era cattiva. Penso che per lei valga lo stesso discorso che vale per me: se avessimo sposato una persona diversa, saremmo stati diversi – e migliori – anche noi. Lei avrebbe potuto trovare un uomo tranquillo, umile, in pace con il mondo. Insieme avrebbero fatto una figlia, una brava ragazza, una persona a modo. E io l’avrei sposata, senza rovinarmi la vita.

Ma forse sono solo sciocchezze: lo stesso discorso si potrebbe fare per mia moglie, per mio suocero… Se anche loro avessero trovato una persona diversa, probabilmente non si sarebbero comportati così. È impossibile ragionare su ciò che avrebbe potuto essere e non è stato: l’unico punto fermo, in tutta questa storia, è che loro sono morti perché li ho ammazzati io.

Mia suocera era totalmente sottomessa al marito e alla figlia. Anche io lo ero, ma solo all’apparenza. Quello che è successo dimostra quanta fatica mi sia costata piegarmi ogni giorno. Mia suocera invece sembrava avere accettato insulti, prepotenze e angherie – una vita di merda, insomma – fino a diventare parte di quella stessa esistenza che la opprimeva. Venti, trenta, quarant’anni fa era la vittima di suo marito, poi pian piano si è adattata a ciò che il destino aveva pensato di offrirle e, come me, ne ha accettato i risvolti ma, diversamente da me, è arrivata persino ad apprezzarli. Era la sua vita e, se non poteva ribellarsi, tanto valeva accettarla. Io no. Io stavo zitto. Io subivo. Lei non l’ho mai sentita dissentire dal marito né dalla figlia. Eppure capivo – o immaginavo – che spesso non fosse d’accordo con loro. Se avessi avuto un po’ di coraggio, quando capitava che restavamo soli in casa, le avrei potuto chiedere come si sentiva.

“Le piace questa vita?” avrei detto.

Le davo del lei, come al marito, nonostante mi avessero chiesto più volte, all’inizio del fidanzamento, di dare loro del tu. In principio non ci riuscivo, per una sorta di rispetto misto a timidezza; negli ultimi anni invece mi piaceva dare del lei – se non fosse stato ridicolo avrei dato persino del voi – pur di mantenere le distanze.

“Mi fa schifo” avrebbe risposto.

“Ce ne andiamo?” avrei proposto.

Saremmo saliti in macchina e partiti, diretti verso il luogo più lontano che avessimo potuto raggiungere, e avremmo trascorso il viaggio a liberarci, almeno a parole, delle nostre esistenze.

“Mi dica la verità, – avrei detto – come fa a sopportare suo marito? E sua figlia? Come fa?”

“E tu come fai? – avrebbe risposto – Come fai?”

“Io non ce la faccio più.”

“Io non ce l’ho mai fatta.”

Accidenti, mi dispiace di averla ammazzata. Non ce l’aveva con me, non mi aveva fatto niente. Era succube del marito e della figlia e agiva in base a ciò che pensava fosse giusto per loro. Se l’avessi lasciata viva, a quest’ora sarebbe venuta in carcere a trovarmi e a ringraziarmi. Mi dispiace, vorrei non averlo fatto. Voglio morire anche per non avere avuto il coraggio di mantenerla in vita.

In una di quelle trasmissioni che mia moglie guardava su Sky c’era il racconto degli appartenenti a una setta. Ascoltavo, guardavo e riflettevo: parlavano di me, parlavano della famiglia in cui ero capitato. Ti fanno il lavaggio del cervello, nelle sette, ti indottrinano fino a farti credere che l’unico modo di pensare e di agire sia quello malato che ti inculcano loro. Nella famiglia in cui sono capitato succedeva lo stesso. La parola di mio suocero e quella di mia moglie erano legge. La mia non contava nulla, – non aveva mai contato nulla – mentre quella di mia suocera aveva qualche valore, ma solo perché conforme ai dettami dei due aguzzini.

Mi faceva arrabbiare, ma non glielo dicevo: vedevo in lei ciò che io non riuscivo a essere e ci soffrivo. L’avrei voluta emulare, perché capivo che, pur non essendo felice, piegarsi era l’unica strategia percorribile per sopravvivere. Allo stesso tempo, avrei voluto che passasse dalla mia parte, che la smettesse di acconsentire, che non si preoccupasse di ripetere con la sua voce concetti pensati in un’altra testa. In altre due teste, a essere precisi. Ero invidioso di lei, per la capacità che aveva di accettare ciò che le era capitato e per l’abilità che mostrava nel conformarsi a idee, opinioni e decisioni stabilite altrove. Allo stesso tempo mi incattivivo sempre più: Smettila, – pensavo – non farlo, mandiamoli a quel paese. Ribelliamoci.

Poi ho scoperto che la ribellione non era possibile, non la sua, almeno.

Quando l’ho vista china su quei fornelli improvvisati, senza che si fosse accorta di nulla, – aveva un principio di sordità, e forse anche questo l’ha aiutata a sopportare – ho dovuto fare quello che ho fatto. L’ho ammazzata. In quel momento credevo di non avere altra scelta, ma mi dispiace.

“Grazie” mi avrebbe detto se l’avessi lasciata vivere.

“Di niente” avrei risposto.

“Potrò vivere una vita normale, adesso.”

Quanto mi piacerebbe ascoltare queste parole. Sarei orgoglioso di ciò che ho fatto; avrebbe un senso: l’avrei aiutata, l’avrei salvata. Ma non è vero niente. Li ho ammazzati senza farlo apposta. Non ho pensato alle motivazioni, non ho riflettuto sulle ragioni. Ho agito d’istinto, spinto da anni di rabbia. Non mi sono ribellato per proteggermi né tanto meno per proteggere altri.

“Sai quante volte, mentre affettavo il prosciutto, ho pensato di ammazzarlo? – mi avrebbe confidato. Io avrei sorriso, invitandola a proseguire – E di notte, quando diceva tutte quelle stupidaggini prima di addormentarsi? Sai quante volte avrei voluto dirgli di stare zitto?”

“Lo so bene” avrei risposto.

Provavo gli stessi identici sentimenti, che a parlare fosse lui o mia moglie.

“Tutte le sciocchezze che diceva, sulla gente che lo fregava, su quelli che ce l’avevano con lui…”

“Era una tensione continua.”

“Ma non si poteva fare niente. Era convinto di avere ragione e non c’era argomento che poteva fargli cambiare idea.”

“Solo io ho trovato il modo per fargliela cambiare” avrei osato.

Lei mi avrebbe abbracciato e io sarei stato contento. Sarei entrato in carcere a testa alta, convinto di avere contribuito al benessere di qualcuno. E lei sarebbe venuta a trovarmi, dedicandomi quel poco di affetto che ora poteva.

Invece mia suocera tutte queste cose non me le ha mai dette né me le avrebbe dette mai. Lei annuiva e basta, anche se forse non era succube, ma d’accordo con loro. Sia come sia, io l’ho ammazzata e mi dispiace.