MARY Katherine era colpevole. Non era una novità. Lo era sin dalla prima lezione di catechismo, con la signora Radcliffe, dalla quale ormai erano passati dieci anni. Questa volta però l’aveva fatta grossa. Non riusciva a credere di aver perso il controllo della situazione fino a quel punto. La legge parlava chiaro, i ragazzi non potevano mettersi alla guida da soli, dopo la mezzanotte. Erano le 23:53, ed era ad almeno dieci minuti da casa. Come accidenti aveva potuto permettere che accadesse una cosa del genere?
«Hai appena preso la patente! Sei proprio stupida!» si rimproverò.
Quanto aveva impiegato a ottenerla? Se l’era forse dimenticato?! Aveva dovuto supplicare sua madre di parlarne a suo padre. Poi, quando finalmente mamma aveva trovato il coraggio di scolarsi un po’ di vino bianco (un paio di cartoni) per affrontare l’argomento, si erano dovute impegnare tutte e due per settimane intere, per fargli accettare l’idea del foglio rosa. Se gli altri ragazzi avevano preso una sola lezione di guida, Mary Katherine ne aveva dovute prendere due. Quando gli altri avevano già la possibilità di guidare lungo McLaughlin Run Road o fino al centro commerciale, o persino imboccare la Route 19, che cavolo, Mary Katherine era ancora confinata nel parcheggio della chiesa. E non in un parcheggio ampio come quello di Holy Ascension. No! In quello di St. Joseph! Ma dai!
Quando quella troietta di Debbie «Me lo sono fatto» Dunham e il noto ubriacone Michele Gorman già andavano in centro a Pittsburgh, Mary Katherine entrava e usciva dal vialetto di casa sua.
«Ehi, Vergine Maria», la sfotteva Debbie nello spogliatoio, «mi daresti un passaggio dall’imbocco del mio vialetto alla porta di casa?»
Mary Katherine era abituata ai soprannomi. «Più sei devota, più lo sono i nomignoli che ti affibbiano», amava ripetere sua madre, quando lei non riusciva a trattenere le lacrime seguendo il consiglio di non badare alle offese. Debbie Dunham però era la più cattiva. Tra Cristiani e leoni, lei faceva il tifo per questi ultimi. Così, quando Mary Katherine era passata dalla scuola media cattolica alle superiori pubbliche, aveva avuto più di qualche difficoltà. In fin dei conti, essere credente non era la strada più semplice in quel mondo di scelte multiple.
La cosa positiva del senso di colpa cattolico, tuttavia, era il fatto che funzionasse in entrambi i sensi: la sua condotta perfetta, la media alta, i crediti extra quando il suo punteggio ammontava già a novantanove, e il duemilaventi ottenuto al test di ammissione all’università avevano avuto la meglio su suo padre. Persino lui aveva dovuto riconoscere di avere la figlia più responsabile che un uomo avrebbe mai potuto sperare di avere. E le aveva concesso di fare l’esame di guida. L’aveva superato! Gesù, grazie. E, quando le era arrivata la patente per posta, aveva dovuto riconoscere che la sua foto era davvero meravigliosa. Si era sentita in colpa, perché la vanità è un peccato. Ma le era passato in fretta. Perché aveva diciassette anni. E aveva la patente. Era all’ultimo anno. Avrebbe fatto domanda al Notre Dame. E la vita le offriva infinite possibilità di libertà.
Doveva essere a casa entro mezzanotte.
Se non voleva rovinare tutto quanto.
23:54 diceva l’orologio sul cruscotto.
«Dio, maledizione!» imprecò, poi si fece subito il segno della croce.
«Accidenti», si corresse, sperando fosse sufficiente.
Mentalmente, ripercorse l’errore che aveva commesso. Si era incontrata con Doug al cinema, alle ventuno e trenta. Il direttore aveva detto che il film sarebbe durato due ore. Quindi, aveva calcolato che sarebbe uscita alle ventitré e trenta. Alle ventitré e ventisette, se avesse saltato i titoli di coda, cosa che la faceva sentire in colpa perché le persone che contribuivano alla realizzazione di un film lavoravano duramente. In entrambi i casi, avrebbe avuto tutto il tempo di tornare, no? Però, c’era stata un sacco di pubblicità. E il trailer di Bad Cat in 3D (come se qualcuno ne avesse sentito il bisogno!). Quando finalmente era cominciato il film, si era scordata che cosa fossero andati a vedere. Lei avrebbe scelto la nuova commedia romantica firmata Disney. Ma oh, no, Doug doveva vedere il suo disaster movie.
Quell’idiota.
Perché ai ragazzi più svegli piacciono i film più stupidi? Doug prendeva tutte A dall’asilo. Avrebbe tenuto il discorso di commiato il giorno del diploma, e sarebbe stato ammesso in qualunque college a cui avesse inoltrato domanda… anche nei più antichi e prestigiosi. Ma aveva dovuto vedere la quasi distruzione del mondo per l’ennesima volta.
«E comunque, Doug», disse ad alta voce, a se stessa, esercitandosi in un bisticcio che non sarebbe mai avvenuto, «sappi che non mi piace quando metti le Junior Mints nel popcorn. Non credo affatto che il sapore migliori!»
23:55.
Dannazione!
Mary Katherine valutò le sue opzioni. Magari poteva superare il limite di velocità, ma se avesse preso una multa la punizione sarebbe durata addirittura di più. Avrebbe potuto ignorare un paio di stop, ma quello era anche peggio. L’unico piano sensato era prendere la Route 19, ma suo padre le aveva proibito di guidare sulla superstrada. Onora il padre e la madre… riusciva a seguirlo più o meno tutti i giorni, ma questa era un’emergenza. O prendeva la Route 19 per due minuti, o rischiava di arrivare in ritardo.
Imboccò la superstrada.
Il traffico viaggiava velocissimo. Il cuore le batteva all’impazzata, mentre tutte le auto sfrecciavano alla sua sinistra e lei osservava il limite di settanta chilometri orari. Non poteva correre il rischio di beccarsi una contravvenzione. No, zero. Soprattutto su quella strada. Suo padre le avrebbe tolto la patente, per una cosa del genere. E non avrebbe mai più guidato la Volvo di mamma.
«Dio», pregò, «se mi fai arrivare a casa entro mezzanotte, prometto di mettere più soldi nel cestino delle offerte, domenica.»
Dopo che ebbe pronunciato quelle parole, qualcosa la prese. Un vecchio senso di colpa. Una vecchia paura. La prima volta che quel pensiero le aveva attraversato la mente era stata dopo che lei e Doug avevano parcheggiato vicino alla scuola elementare di Mill Grove, a Natale dell’anno prima. Si stavano baciando con la lingua, e all’improvviso lui le aveva messo una mano sul seno sinistro, sopra il maglione peloso che le aveva regalato la nonna. Era durato solo un secondo, e si era giustificato dicendo che gli era scivolata la mano. Ma lei non si era lasciata ingannare. Era rimasta sconvolta dal comportamento del ragazzo. Anche se, a dire il vero, a turbarla era stata soprattutto la sua reazione.
Perché le era piaciuto.
A Doug non l’avrebbe mai detto. Ma quella sera, quando era tornata a casa, aveva continuato a rivivere quel momento nella sua mente. Aveva immaginato le sue mani sotto la camicia, sopra il reggiseno. E poi sotto. E poi si era immaginata nuda. Si era sentita così in colpa, da aver creduto sul serio di poter rimanere incinta per via di quella mano sul suo maglione peloso. Sapeva che era un’assurdità. Sapeva che una gravidanza poteva capitare solo con un rapporto sessuale. Frequentava il corso di educazione alla salute. I suoi genitori non erano così follemente cattolici. Ma non era riuscita a scrollarsi di dosso quella sensazione di paura. Così, aveva promesso a Dio che, se le avesse risparmiato l’umiliazione di una gravidanza, avrebbe confessato i suoi peccati e avrebbe messo nel cestino delle offerte tutti i soldi che aveva guadagnato facendo la babysitter. L’indomani, le era venuto il ciclo. E per il sollievo si era messa a piangere. Quella settimana si era confessata con padre Tom e aveva donato tutti i suoi risparmi a Dio.
Quell’esperienza, però, l’aveva segnata. Dopotutto, un peccato pensato è un peccato. Così insegnava loro la signora Radcliffe, a catechismo. Quindi, che cosa le sarebbe successo se fosse morta prima di essersi recata al confessionale per purificare la sua anima? La risposta la conosceva, e la terrorizzava.
Pertanto, doveva studiare un sistema di avvertimento. Qualcosa che le dicesse con sicurezza che quello che aveva fatto era talmente peccaminoso da condannarla all’inferno. Ci aveva pensato per settimane, senza trovare una soluzione. E poi, quando aveva cominciato a guidare da sola, aveva superato un cervo sulla strada, e le era venuto in mente.
Un incidente con un cervo.
«Dio», aveva detto, «se devo andare all’inferno, fammi investire un cervo.»
Si rendeva conto che suonava folle, ma l’accordo le aveva fatto passare subito la paura. Aveva giurato a se stessa di non farne parola con nessuno. Nemmeno con sua madre. Né con la signora Radcliffe. O con padre Tom. E neanche con Doug. Era un accordo segreto tra lei e il Creatore.
«Dio, se investo un cervo, saprò di aver peccato contro di Te in modo così orribile da indurTi a rinunciare a me. Così, avrò modo di rimediare. Mi dispiace di avergli permesso di toccare il mio maglione (non mi ha mai sfiorato il seno!), mi dispiace davvero.»
23.57
Continuò a ripeterlo. Lo ripeté tante di quelle volte che divenne un rumore di sottofondo. Come le partite di baseball che suo padre ascoltava alla radio, nel suo studio, mentre costruiva i suoi modellini di navi, o come l’aspirapolvere di sua madre che manteneva i tappetini immacolati. Ogni volta che vedeva un cervo al margine della strada, rallentava e pregava che restasse dov’era.
23:58
Lasciò la superstrada e imboccò McLaughlin Run Road. La luna era opaca, scura. Mary Katherine tenne gli occhi bene aperti. C’erano un sacco di cervi da quelle parti, soprattutto da quando il signor Collins aveva cominciato ad abbattere parte del bosco di Mission Street per il suo nuovo complesso edilizio. Quindi doveva stare particolarmente attenta.
23:59
Il cuore correva, e sentì una stretta allo stomaco. Era a due minuti da casa. Se non avesse accelerato, sarebbe arrivata in ritardo. Ma, se l’avesse fatto, magari un cervo sarebbe balzato di fronte alla sua auto. L’unica alternativa era ignorare lo stop in cima alla collina. Da là poteva vedere i cervi fino a cinquanta metri. I boschi erano ben distanti dalla strada. Quindi sì, poteva ignorare lo stop senza correre rischi.
00:00
Mezzanotte. Doveva prendere una decisione. Ignorare lo stop e arrivare puntuale, o seguire le regole, fare tardi e finire in punizione.
«Dio, ti supplico, dimmelo Tu che cosa fare», pregò, con la sua voce più umile e fervente.
La sensazione l’assalì all’istante.
Toccò i freni.
E si fermò allo stop.
Se non l’avesse fatto, non avrebbe guardato al di là della collina. E non avrebbe visto quel bambino che usciva dal bosco. Coperto di terra, denutrito. Quel visetto che era sui manifesti affissi in tutta la città. Se non si fosse fermata, non lo avrebbe visto.
E lo avrebbe ucciso, investendolo con la sua auto.