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«CHRISTOPHER?» fece una voce. «Christopher?»

Il bambino sentiva freddo. Aveva addosso una coperta. Era sottile e ruvida, come quelle dell’ospedale.

«Christopher, riesci a sentirci?»

Aprì gli occhi. Ma gli facevano male, come uscendo dal cinema al termine dello spettacolo pomeridiano. Li strizzò e vide delle sagome, persone adulte. C’era un dottore. Non distingueva il suo viso, ma lo stetoscopio era un cubetto di ghiaccio sul suo petto.

«Sta riprendendo colore», dichiarò il medico. «Mi senti, Christopher?»

Il bambino strizzò gli occhi di nuovo e scorse sua madre. La luce la rendeva una sagoma sfocata. Gli aveva messo la sua mano liscia sulla fronte. Come quando stava male.

«Sono qui, tesoro», gli disse, e le si ruppe la voce.

Lui provò a dire qualcosa, ma le parole gli rimasero bloccate nella gola asciutta. Ogni volta che provava a deglutire era come se si strofinasse le tonsille con la carta vetrata.

«Amore, se ci senti, dimena l’alluce.»

Christopher non avrebbe saputo dire se lo stesse dimenando o meno. Non aveva molta sensibilità nelle dita dei piedi. Avvertiva ancora freddo. Ma probabilmente li accontentò.

«Eccellente», sentenziò il dottore. «Riesci a muovere le mani?»

Le mosse. Erano un po’ intorpidite. Sentiva ovunque quel formicolio che gli prendeva il braccio quando urtava il nervo del gomito.

«Christopher.» Un’altra voce maschile. «Puoi parlare?»

Alzò gli occhi, sempre strizzandoli, e vide lo sceriffo. Se lo ricordava dal giorno in cui sua madre gli aveva chiesto di tenerlo d’occhio, mentre lei andava al colloquio a Shady Pines. Era un uomo forte e alto.

«Sei in grado di parlare?» gli chiese ancora.

Aveva la gola secca. Pensò a quando gli veniva la faringite, e prendeva quella medicina che aveva uno strano sapore di ciliegia. Deglutì, e si sforzò di pronunciare una parola. Niente, il dolore era troppo forte.

Fece no con la testa.

«Nessun problema, figliolo. Ma devo rivolgerti qualche domanda. Muovi la testa per rispondere, intesi?»

Annuì.

«Molto bene. Ti hanno trovato all’estremità settentrionale del bosco di Mission Street. Ti ci aveva portato qualcuno?»

Gli adulti erano sulle spine. Aspettavano di sentire la sua riposta. Christopher passò al setaccio la sua memoria, ma era solo uno spazio vuoto. Non ricordava nulla. Eppure, non pensava affatto di essere stato portato là da qualcuno. Se lo sarebbe ricordato, altrimenti. Dopo un momento, scosse il capo. No. E tutti ripresero fiato.

«Ti eri perso, allora?» continuò lo sceriffo.

Annuì. Sì, si era perso.

Il medico sostituì le mani carnose e ruvide allo stetoscopio freddo. Controllò membra e articolazioni, e poi la pressione. Strinse il manicotto con il velcro attorno al braccio ossuto. Christopher aveva paura che gli chiedessero di fare pipì in un bicchiere. Si vergognava sempre tanto, quando doveva farlo.

«Mentre eri nel bosco… qualcuno ti ha fatto del male?»

Fece no con la testa. Il dottore premette il pulsante e la macchina misurapressione emise un rumore stridente, stritolandogli il braccio. In seguito, il medico tolse il manicotto strappando il velcro con un r-r-r-ip, e scribacchiò qualche appunto. Il bambino sentì la penna sulla carta.

Swish swish swish.

«Hai sentito il rumore delle automobili? È così che hai trovato la strada per uscire dal bosco?»

Christopher guardò il taccuino del medico. E cominciò ad avvertire una sensazione spiacevole. Una pressione dentro la testa. Una lieve emicrania che di solito passava quando mamma gli dava l’aspirina, che sapeva di gesso e di arancia. Questa volta però era diverso. Era come se avesse mal di testa per tutti e due.

«Dentro al bosco… hai sentito le auto? Sono state le macchine a farti ritrovare la strada?»

Christopher si svegliò di scatto. Fece no. Scese il silenzio.

«Non sei tu che hai trovato la strada? Qualcuno ti ha aiutato a uscire?»

Annuì. Sì.

«Chi ti ha aiutato, Christopher?» chiese lo sceriffo.

Gli diede blocco e penna, affinché scrivesse un nome. Lui deglutì, dolorosamente. E disse qualcosa in un sussurro, appena udibile.

«L’uomo gentile.»