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QUALCOSA lo stava osservando.

Non appena si chiuse dietro la porta della casa sull’albero, lo sentì. Un grande occhio. Che lo soffocava come una coperta. Che osservava e si spostava. Cercava qualcosa.

Una preda.

Sapeva di aver corso un rischio tremendo venendo nel mondo immaginario da solo. Aveva promesso all’uomo gentile di non farlo, ma non aveva avuto scelta. Lui era imprigionato da qualche parte. O forse era già morto. Doveva trovare delle informazioni. Una prova. Un indizio. Qualunque cosa. Ma non aveva idea di cosa lo aspettasse al di là di quella porta.

Non venire mai qui dentro senza di me. E mai di notte.

Si voltò verso la finestra e vide il sole basso nel cielo. Non aveva molto tempo, prima che facesse buio. Ora o mai più, si disse. Appoggiò l’orecchio alla porta. All’inizio gli sembrò tutto okay. Poi udì un rumore lieve.

sCratch. sCratch. sCratch.

Veniva da sotto l’albero.

sCratch. sCratch. sCratch.

Guardò di nuovo verso la finestra. Vide dei cervi che strisciavano nella radura, lasciandosi dietro delle tracce nella neve bianca. Andavano verso l’albero e grattavano con gli zoccoli.

sCratch. sCratch. sCratch.

«Ricorda, Christopher», lo aveva messo in guardia l’uomo gentile. «I cervi lavorano per lei.»

Stavano annusando la base dell’albero, alla ricerca di qualcosa. Di cibo, forse. Di lui. Gli restava soltanto un’ora di luce. Doveva trovare il modo di aggirarli. Vide un maschio masticare una foglia staccata dal ramo basso. Proprio accanto a qualcosa che attirò la sua attenzione.

Il sacchetto bianco di plastica.

Christopher era talmente abituato a vederlo, dalla parte reale, che non vi badò. Ma c’era qualcosa di diverso, di là. Il sacchetto era più in basso del solito. Come un pesce che fa incurvare la canna da pesca. Evidentemente pesava.

Perché… perché…

Dentro c’è qualcosa.

Il suo cuore saltò un battito. L’uomo gentile doveva avergli lasciato qualcosa. Ne era sicuro. Che cos’era? Una mappa? Un indizio? Doveva sapere. Aspettò che i cervi avessero soddisfatto la fame (o la curiosità) e lasciassero la radura.

E poi, lentamente, aprì la porta.

Scese veloce la scaletta di assicelle. Dentini da latte inchiodati al tronco. Gli scarponcini atterrarono sul terreno friabile, e in punta di piedi raggiunse il sacchetto. Vi infilò una mano, e tirò fuori quello che gli aveva lasciato il suo amico.

Un biglietto di Natale.

Davanti c’era Babbo Natale che sgridava Rudolf, la renna dal naso rosso, che trainava la slitta nella neve.

COSA SIGNIFICA CHE HAI DIMENTICATO GLI OCCHIALI?!

Snap.

Si voltò. I cervi erano tornati. Il maschio con le corna ramificate lo stava fissando, ma aveva le orecchie ritte come se fosse in ascolto per avvertire la presenza di un predatore. Il vento gli sferzò i capelli, e poi morì come un uccello in volo. Trattenne il fiato, aspettando una reazione da parte degli animali. Che però non ci fu.

Perché loro non mi vedono.

Abbassò di nuovo lo sguardo sul biglietto d’auguri. Su Babbo Natale che urlava a Rudolph.

COSA SIGNIFICA CHE HAI DIMENTICATO GLI OCCHIALI?!

Era questo l’indizio. Christopher guardò la casa e vide che il suo corpo era ancora là. Per i cervi, lui era ancora nella casetta, dalla parte reale. Era solo un bambino che giocava per i fatti suoi.

Là dentro, invece, era invisibile.

«Più tempo trascorrerai nel mondo immaginario, più diventerai potente», gli aveva detto l’uomo gentile. «Ma questa potenza avrà un prezzo.»

Aspettò che i cervi passassero oltre e poi, senza far rumore, aprì il biglietto. Sperava di trovare un messaggio dall’amico, ma trovò solo il messaggio prestampato…

QUANDO NON VEDI LA LUCE…

SEGUI IL TUO NASO!

Christopher si incamminò.

Lasciò la radura e si addentrò nel bosco. Trovò il sentiero, sgombro e liscio. Lo seguì fino a raggiungere il tronco cavo vicino al ponticello. E lì vide l’uomo che vi stava dentro, come un maiale avvolto in una coperta. Stava dormendo. Gli occhi guizzavano sotto le palpebre. Piagnucolava come un bambino.

«Ti prego, fallo smettere. Io non lo sto aiutando.»

Christopher si guardò intorno, per vedere se la signora che sibilava fosse nei paraggi. Ma non vide nessuno. Così, in silenzio, indietreggiò dall’uomo nel tronco e cominciò a correre. Uscì dal bosco, gli scarponcini che facevano cic ciac sul sentiero sporco di fango, finché non raggiunse il vicolo cieco davanti a casa.

Scrutò la strada, cercando un indizio. Nella luce ormai debole del tardo pomeriggio, la sua via aveva la tonalità dei vecchi negativi della foto di suo padre. Era il suo quartiere. Ma la sinistra era a destra. E la destra era a sinistra. E il sole era una lampadina che si lascia dietro una traccia, dopo che l’hai guardata a lungo.

Stava guardando il mondo dall’altro lato di uno specchio a senso unico.

Vide Mary Katherine che correva nel giardino dietro casa. Era in preda al panico.

«CHRISTOPHER!» gridava. «DOVE SEI?»

Mary Katherine sta… guardando i cervi.

Mary Katherine non sa… che i cervi stanno osservando lei.

La ragazza entrò di corsa nel bosco, superando gli animali. Cristopher si voltò verso la strada e vide l’uomo con la divisa da Girl Scout. Era un sonnambulo, e girava e girava come acqua che scende in uno scarico. Si contorceva, piagnucolava.

«Ti prego, fallo smettere. Io non lo sto aiutando.»

Christopher non sapeva dove andare, cosa fare. Si stava facendo buio. Mary Katherine l’avrebbe trovato. Il tempo a suo disposizione si stava esaurendo. Aprì di nuovo il biglietto.

QUANDO NON VEDI LA LUCE…

SEGUI IL TUO NASO!

Alzò gli occhi e vide le nuvole che si muovevano in cielo. Per un attimo gli tornò in mente un bel volto fatto di nubi. Sentì il vento nei capelli. E, al di sotto del vento, appena percepibile, si sentiva il profumo dei sandwich con il formaggio alla piastra.

QUANDO NON VEDI LA LUCE…

SEGUI IL TUO NASO!

Veniva dalla casetta di legno sull’altro lato della strada.

Christopher si voltò in quella direzione e vide l’anziana in soffitta. Camminò fino al vialetto. Cauto come un topo. Non sapeva se ad attenderlo ci fosse un indizio, o una trappola, oppure la signora che sibilava, ma l’istinto faceva muovere i suoi piedi. Aprì la porta d’ingresso. La famiglia era a tavola per la cena, nonostante fosse ancora presto, dalla parte reale. Sentì il profumo della minestra di pomodori e dei sandwich al formaggio lasciati ad abbrustolire in padella.

«Credi che mamma ne voglia un po’?» chiese la moglie.

Le parole inondarono la sua mente. Barcollò. Il prurito era molto più forte, dalla parte immaginaria. Come carta vetrata avvolta intorno al trapano del dentista.

Comprese all’istante: il marito odiava la madre della moglie. Voleva che morisse, così avrebbero potuto avere di nuovo una vita. Non era cattivo. Ma si domandava che cosa sarebbe successo se avesse solo finto di portare da mangiare alla «cosa in soffitta». Non l’avrebbe mai fatto, naturalmente. Ogni tanto, però, mentre guardava una partita degli Steelers, si chiedeva quanto avrebbe impiegato la suocera a morire di fame, concedendo loro un po’ di pace.

«Pensi che mamma ne voglia un po’?» ripeté la moglie, frustrata.

«Sicuramente avrà fame», disse il marito. «Vuoi che le porti su qualcosa?»

«No. Lo faccio io, così come faccio tutto il resto in questa casa», sbuffò la moglie.

Mi sono offerto. Che cosa cazzo vuoi da me? chiese il marito, in silenzio.

Dio, perché non mi chiede semplicemente di farlo con lui? pensò lei.

La moglie andò in cucina. Christopher salì in soffitta, senza far rumore. L’anziana era girata verso la finestra, seduta su una sedia di vimini. Dondolava avanti e indietro, avanti e indietro. Come un metronomo sopra un pianoforte. Guardava le nuvole, fuori. Grugniva, frustrata, mentre litigava con un fascio di cartoncini che teneva tra le mani.

Erano biglietti di Natale.

Seppure sgomento, Christopher non se ne andò. Era un altro messaggio dall’uomo gentile, sicuramente. Andò verso la donna. Il biglietto in cima era vecchio e ingiallito. I colori e l’inchiostro erano sbiaditi.

TROPPO SPESSO SOTTOVALUTIAMO IL POTERE

DI UN TOCCO…

Toccò la spalla dell’anziana. Accadde tutto in un istante: chiuse gli occhi e avvertì l’ictus che si era portato via metà del suo cervello, togliendole quasi completamente la capacità di parlare. Vide che era stata giovane, un tempo. E bella. Le guardò le mani, ora menomate dall’artrite. Frastagliate come i rami dell’albero al centro della radura. Gliele afferrò, e le tenne strette. Il calore del suo corpo sembrò passare a lei.

La lasciò andare. E l’anziana mosse le dita quasi fossero ali di farfalle che si stavano svegliando e uscivano dal bozzolo. D’un tratto si ricordò che sapeva suonare il pianoforte e del bel ragazzo nel salotto di sua madre che si complimentava con lei per la scelta del brano. Blue Moon. Dopo, durante la loro luna di miele, avevano trovato un piano in quel grande hotel alle Cascate del Niagara, e gliel’aveva suonato ancora. Adesso sorrise. Le dita erano abbastanza rilassate da girare la pagina del biglietto.

UN ABBRACCIO, UN SORRISO, UNA PAROLA GENTILE,

POSSONO STRAVOLGERE UNA VITA.

Sotto, Christopher lesse un messaggio personale.

Su, va’ da tua madre. Subito.

Ha bisogno di te.

In quel momento, la figlia dell’anziana entrò nella stanza con il formaggio alla piastra e la minestra, su un vassoio.

«Ricordi quando tuo padre ti regalò questo biglietto?» chiese la madre, sorridendo.

«Sì, mamma. Ne abbiamo parlato proprio ieri. Non ti ricordi?»

«Suonai il pianoforte per lui. Il tuo papà era un ragazzo bellissimo. Andammo a nuotare nell’Ohio, insieme.»

Con delicatezza, la donna le tolse il biglietto dalle mani.

«Ehi, mamma», disse, piacevolmente sorpresa, «mi sembra che le tue mani stiano molto meglio. E scandisci le parole in modo molto più chiaro. Come ti senti?»

«C’è qualcuno in questa stanza», disse l’anziana.

«Okay, mamma. Non agitarti, adesso.»

«Su, va’ da tua madre. Subito! Ha bisogno di te!» gridò la donna.

«Mamma, ti prego, calmati», la supplicò la figlia.

«Va’ da tua madre! Ha bisogno di te! Adesso! Subito!» ripeté la donna, strillando.

«Gary! Aiuto!» urlò la moglie al marito, al piano di sotto.

Se il primo biglietto gli aveva suggerito di seguire il suo naso, il messaggio del secondo era inconfondibile. Doveva andare da sua madre, a Shady Pines. Mentre il marito correva di sopra, in soffitta, Christopher uscì indietreggiando dalla stanza e, dopo poco, infilò la porta d’ingresso.

Guardò il suo quartiere, e a stento trattenne un urlo quando le vide. D’un tratto, le strade erano piene di persone. Tutte immobili come cassette delle lettere. Lungo i margini dei cortili. Una donna in abito blu. Un uomo con un cappello giallo. Di un giallo sbagliato. Nauseante.

Avevano gli occhi cuciti.

Alcuni con delle cerniere.

Altri con del filo.

Proprio come i ragazzini nel suo incubo.

Le persone-cassette tenevano tutte in mano un cordino. Tutte. Un filo che portava alla persona successiva, e via così. Per tutta la via, fin dove Christopher riusciva a spingere lo sguardo. Da dove venivano? Dove andavano?

Non venire mai qui dentro senza di me. E mai la notte.

Christopher alzò gli occhi al cielo. Il sole era sceso sull’orizzonte. Era basso, come il sacchetto bianco di plastica appeso al ramo. Aveva forse quarantacinque minuti prima che tramontasse. Doveva arrivare da sua madre, ma non poteva arrivarci correndo. Non sapeva guidare l’auto. Gli serviva un mezzo di trasporto. Esaminò il quartiere, e i suoi occhi alla fine si posarono su…

Su una bicicletta.

Di quelle a tre velocità. Che di solito avevano un cestino davanti. Ma questa era più vecchia, arrugginita. E stava tutta sola nel bel mezzo di un vialetto.

Alla casa all’angolo.

Corse verso la bici. Passò accanto a una coppia che stava in mezzo alla strada. Dormivano, come due manichini, e si baciavano, il sangue che colava dalle bocche. E sussurravano.

«Ti prego, fallo smettere. Noi non lo stiamo aiutando.»

Christopher afferrò la bicicletta, ma si fermò quando vide la targhetta sul manubrio.

D. OLSON

La casa all’angolo è…

La casa all’angolo è…

Quella in cui viveva David Olson.

Deglutì a fatica. Sapeva che poteva trattarsi di una trappola. Forse era un messaggio. La signora che sibilava forse lo stava aspettando per tendergli un’imboscata. Ma l’istinto gli gridava di andare dalla mamma, a Shady Pines, prima del tramonto.

Cominciò a pedalare. Risalì la via, veloce, inserendo la prima marcia. Quando iniziò a scendere, mise in seconda, poi in terza. Il ritmo aumentava, guadagnava velocità. Era diretto verso la superstrada. Le gambe diventavano più forti a ogni rotazione, e mentre filava lungo la via vedeva sempre più persone-cassette lungo i bordi della carreggiata. Bambine gemelle, un asiatico di una certa età, e una donna mediorientale che sembrava pelle e ossa per via della fame.

Avevano occhi e bocche cuciti.

Camminavano come sonnambuli. Almeno per ora.

La notte, il mondo immaginario si sveglia. E a quel punto diventa davvero spaventoso.

Christopher pedalava. E la velocità aumentava. All’inizio non se ne rese conto. Pensava soltanto al fatto che di lì a poco avrebbe fatto buio, e a sua madre che aveva bisogno di lui, alla casa di riposo. Ma d’un tratto rivolse uno sguardo alla strada, che a quel ritmo era una macchia confusa, e non capì. La collina non era tanto ripida. La bicicletta non era proprio leggera. Ma non era mai andato così veloce in tutta la sua vita. Imboccò la Route 19. Le auto sfrecciavano lungo la superstrada, nella parte reale.

E lui viaggiava accanto a esse.

Il marciapiede scorreva a una velocità accecante. L’aria gelida gli entrava negli occhi, facendoglieli lacrimare. Sentiva una potenza attraversargli le gambe. Davanti a lui c’era una vecchia Mustang piena di adolescenti. La raggiunse. E poi l’affiancò. Infine la superò, muovendo le gambe come se tutto il loro sangue scorresse nelle sue vene. Lasciò la superstrada e scese lungo la via che portava a Shady Pines. Il sole stava inseguendo l’orizzonte, e altre persone-cassette orlavano la strada.

Quasi formassero un guardrail.

Non ho molto tempo.

Nascose la bicicletta un po’ più in giù e percorse l’ultimo tratto di corsa. Guardò attraverso la finestra, per essere sicuro che non fosse una trappola. E poi si introdusse non visto nell’edificio, aprendo la porta con un…

Crrrreak.

In punta di piedi, superò il lungo corridoio. Arrivò nel salotto. Un’infermiera stava suonando il pianoforte in un angolo. La canzone era Blue Moon. Diversi anziani giocavano a scacchi e a dama.

«Li ho trovati, signor Olson», disse una voce femminile.

Christopher la conosceva. Era quella di mamma. Si girò. E la vide salire dalle scale che portavano nel seminterrato, con una scatola.

«Erano nel magazzino, esattamente dove aveva detto lei», spiegò sua madre all’anziano.

Christopher la guardò andare verso Ambrose Olson, che era seduto su una sedia a dondolo nel salotto. Gli diede una vecchia scatola da scarpe. L’anziano aprì il coperchio e tirò fuori un mazzetto di cartoncini, o così gli parve, fermato da un vecchio spago bianco.

Biglietti di Natale.

Una brezza fredda spazzò la casa di riposo. Christopher udì qualche anziana ospite che si lamentava con le infermiere della temperatura, avvolgendosi negli scialli. Vide Ambrose tirar fuori dalla busta il primo biglietto. Davanti c’era un’immagine di Babbo Natale che urlava a Rudolph, la renna dal naso rosso.

COSA SIGNIFICA CHE HAI DIMENTICATO GLI OCCHIALI?!

La stanza divenne immobile. Christopher guardò Ambrose aprire il biglietto ingiallito, dai colori sbiaditi. Lo stesso che aveva trovato nel sacchetto bianco di plastica.

QUANDO NON VEDI LA LUCE…

SEGUI IL TUO NASO!

E un messaggio personale, scarabocchiato…

Mi dispiace se ogni tanto ti faccio paura.

Non lo faccio apposta.

Buon Natale.

Ti voglio bene, David.

PS: Grazie del guantone da baseball. Ma grazie soprattutto dei libri.

Non era l’uomo gentile a dargli degli indizi.

QUANDO NON VEDI LA LUCE…

SEGUI IL TUO NASO!

Era David Olson.

«Che cos’è?» chiese una voce. «Ha sentito qualcosa?»

Christopher lanciò un’occhiata lungo il corridoio, mentre la signora che sibilava entrava nel salotto. David Olson le avvolgeva le spalle come una stola di visone. Era il suo cucciolo. Un piccolo demone con una finestrella al posto dei due incisivi mancanti. Era terrificante.

Mi dispiace se ogni tanto ti faccio paura.

Non lo faccio apposta.

«Che bella calligrafia», commentò sua madre.

Buon Natale.

Ti voglio bene, David.

PS: Grazie del guantone da baseball. Ma grazie soprattutto dei libri.

«Grazie», disse Ambrose, richiudendo il biglietto. «David amava leggere.»

Christopher sentì il cuore che cominciava a martellargli nel petto. Spostò il peso da un piede all’altro. Il pavimento scricchiolò appena. La signora che sibilava si voltò.

«Che cosa c’è? Chi c’è?» chiese in un sussurro.

Guardò Christopher, che si pietrificò come un cervo davanti ai fari di un’auto.

COSA SIGNIFICA CHE HAI DIMENTICATO GLI OCCHIALI?!

Lo guardava, ma non riusciva a vederlo.

Con gli occhi, la signora che sibilava percorse l’intera stanza. Annusò l’aria. Percepì qualcosa.

«Sei qui?» sussurrò. «Sei qui dentro, Christopher?»

Il bambino cominciò a indietreggiare, per uscire dal salotto. A piccoli passi, uno dopo l’altro. Non devo respirare. Non devo permetterle di sentirmi.

«Di’ qualcosa. Non ti farò niente», sussurrò.

Christopher guardò fuori. Il sole stava tramontando. Aveva pochissimo tempo, prima che facesse buio. Le persone-cassette orlavano entrambi i lati della strada, adesso. La signora che sibilava andò a mettersi accanto a sua madre.

«Stai guardando, Christopher?» chiese, calma.

Christopher sentì il sangue pulsargli nelle tempie. Sapeva che era una trappola. Mamma era l’esca. Si fermò nel corridoio, e si accovacciò. Pronto a saltarle addosso se le avesse fatto qualcosa. La vide sussurrarle qualcosa all’orecchio. E vide mamma che se lo grattava, distrattamente.

«Se non esci allo scoperto, tua madre morirà», sibilò.

Poi contrasse le labbra e soffiò sul collo di sua madre, che fu percorsa da un brivido e allungò una mano verso il termostato. Il cuore gli martellava nel petto.

«Pronto? Ora guarda questo, Christopher.»

La signora Collins piombò nella stanza, furiosa come una serpe.

«Suo figlio provoca delle ustioni sul braccio al mio, ma per lei non è sufficiente», urlò addosso a sua madre.

«Mi scusi, signora Collins, ma non so di cosa stia parlando.»

«Ha lasciato mia madre sola nella sua stanza. E lei è uscita di nuovo!»

«Mi dispiace. Dovevo aiutare il signor Olson. I volontari sono andati a casa. Siamo a corto di personale, questa sera», rispose Kate Reese, stancamente.

«Se avesse un dollaro per ognuna delle sue scuse, sarei io a lavorare per lei!»

«Perché non c’era lei a controllarla, signora Collins?» sbraitò Ambrose. «Quella è sua madre, dannazione.»

Christopher sentì crescere la rabbia nella stanza, sempre di più.

«Questo è solo l’inizio, Christopher…» La signora che sibilava sorrise. «Non si fermerà… continuerà… ancora e ancora… E adesso guarda questo!»

Improvvisamente la madre della signora Collins piombò nel salotto, sulla sua carrozzina.

«Mamma, grazie a Dio», esclamò la figlia.

L’anziana si alzò sulle gambe storte. Puntò gli occhi sul viso di Christopher.

«Oh, ciao. Sei qui. Puoi vedermi», urlò.

«Chi può vederti?» volle sapere la signora che sibilava.

«Il bambino. È proprio qui.» Indicò. «Tutti pensano che dica stupidaggini. Ma lui lo sa. Sa tutto.»

La signora che sibilava si chinò a sussurrarle qualche parola all’orecchio.

«Morirete tutti.»

«Moriremo tutti», ripeté l’anziana.

«È tutto a posto, signora», la tranquillizzò la madre di Christopher. «Si calmi.»

«La morte sta arrivando. La morte è qui. Moriremo tutti, il giorno di Natale!» strillò l’anziana.

«Mamma, torna in camera tua!» sbraitò la signora Collins. «Signora Reese, venga a darmi una mano!»

Ma l’anziana non voleva smettere. Continuava con la sua cantilena. Urlando con tutto il fiato che aveva in corpo.

«La morte sta arrivando. È qui. Moriremo il giorno di Natale!»

La signora che sibilava si spostò e si voltò verso Christopher. Sorrise.

«Sono sorpresa, non hai fatto il minimo rumore», disse. «Ma non è questo il motivo per cui ti ho mostrato queste cose. Dovevo trattenerti fin dopo il tramonto.»

Il sole sprofondò sotto l’orizzonte. David Olson scivolò giù dal collo della signora.

Christopher sentì la stanza diventare fredda attorno a lui. Il profumo di zucchero filato lasciò il posto all’odore del sangue. Si voltò verso la signora che sibilava, che sorrise.

«Perché la notte possiamo vederti, amico. Eccoti qui. Ma che bel bambino.»

E si mise a correre verso di lui.

«Non sei sulla straaaaaaada!» strillò.

Christopher corse verso la porta d’ingresso. La signora che sibilava gli saltò addosso proprio mentre apriva la porta, e i suoi occhi venivano colpiti dalla luce di una torcia.

«CHRISTOPHER! GRAZIE A DIO!» esclamò Mary Katherine, aprendo la porta della casa sull’albero.

La torcia del cellulare lo accecò per un momento. Christopher non sapeva dove si trovasse. Afferrò la ragazza per un braccio, pensando che fosse la signora che sibilava. Il calore della febbre passò dalla sua fronte ai polpastrelli.

«Ahi!» strillò Mary Katherine. «Smettila! Così mi bruci!»

Il bambino si guardò intorno e si rese conto di non essere più nella casa di riposo. Era di nuovo nella casa sull’albero. Non era la signora che sibilava che stava tentando di afferrarlo. Era Mary Katherine. Le lasciò andare il braccio. Lei si tolse il giaccone e arrotolò la manica del maglione. La pelle era rossa, e vi comparvero delle vescichette minuscole.

«Scusa», le disse Christopher.

«Dove diavolo sei stato?» gli chiese lei, arrabbiata e spaventata, mentre si massaggiava l’ustione.

«Non riuscivo a dormire, così ho pensato di venire qui a giocare.»

«Be’, ti saresti potuto cacciare in un mare di guai, lo sai?»

«Mi dispiace. Puoi perdonarmi?»

«Soltanto a Dio spetta il perdono. Ma lo farebbe, quindi sì, ti perdono. Andiamo. Ti riporto a casa. Dobbiamo occuparci del tuo naso.»

Christopher vi portò entrambe le mani, per asciugarselo, e vide il sangue, bagnato e rosso sui polpastrelli. Era paonazzo in viso, febbricitante. Gli facevano male le articolazioni. E il prurito lasciò il posto a un’emicrania accecante. Non si era mai sentito così male, in vita sua. Nemmeno con l’influenza. Pensò alla velocità che aveva raggiunto sulla superstrada. All’invisibilità. Alla lucidità che sopraggiungeva con il prurito. Se quei poteri lo facevano stare tanto male, dalla parte reale, non pensava di essere in grado di sopportare molto altro.

Prima che lo uccidessero.

Con delicatezza, Mary Katherine lo aiutò a scendere dalla casa sull’albero. Sentiva le articolazioni scricchiolare a ogni passo. Christopher alzò gli occhi al cielo. La luce non c’era più. Vide una stella cadente. Un altro sole. Un’altra anima.

Quando arrivò a terra, diede un’occhiata al sacchetto bianco di plastica appeso al ramo basso. D’istinto lo aprì, ma dentro non c’era niente. Nessun biglietto di Natale. Nessun messaggio nascosto. C’era soltanto quel prurito. Christopher pensò alla scia di briciole di pane che lo aveva condotto a Shady Pines, e all’ultima riga del messaggio di David.

PS: Grazie del guantone da baseball.

Si rammentò di tutte le volte che aveva sentito quell’odore di cuoio. Ogni tanto in camera sua. Ogni tanto sull’autobus. Più ci pensava, più si rendeva conto di quanto fosse stato presente. La stagione era finita da un pezzo. Non ricordava di aver visto dei bambini con dei guantoni. Solo palloni da football e armi giocattolo della Nerf. Eppure, l’odore di cuoio era nell’aria intorno a lui.

Scusa se ogni tanto ti spavento.

Non lo faccio apposta.

Christopher chiuse gli occhi. Lasciò che il prurito gli divorasse la mente. Vide la scia di briciole di pane che si allungava davanti a lui. Lo spazio tra le parole. I pensieri che giocavano a nascondino. E lo guidavano lungo il sentiero. Il primo biglietto che gli diceva SEGUI IL TUO NASO, e lo mandava dalla signora nella soffitta, il cui biglietto recava un altro messaggio: vai a trovare tua madre, adesso. Ha bisogno di te.

E poi c’era la bicicletta nel vialetto di David Olson, che gli aveva permesso di arrivare a Shady Pines nel preciso istante in cui la mamma aveva dato ad Ambrose il biglietto del fratellino. PS: Grazie del guantone da baseball. E l’ultimo pezzetto del puzzle…

Ma grazie soprattutto dei libri.

Il prurito si calmò. Christopher aprì gli occhi. Sentiva il sangue sgorgare copioso dal naso, ne sentiva il sapore sulle labbra. Ma non gli importava. Perché finalmente aveva afferrato quel pensiero che aveva giocato a nascondersi. David non era un demone. Era un bambino che gli faceva avere dei messaggi. E c’era soltanto un posto in cui un ragazzino avrebbe lasciato un biglietto destinato a un suo coetaneo. Anche se a separarli c’era mezzo secolo. L’unico posto in cui ogni bambino di Mill Grove andava a prendere dei libri da leggere.

La biblioteca della signora Henderson.

Mary Katherine spostò il raggio della torcia sul sentiero. Vide un paio di cervi pietrificati dalla luce.

«Oh, Dio. Odio i cervi», disse Mary Katherine, facendosi il segno della croce. «E adesso come usciamo da questo posto?»

Fu Christopher a condurla fuori dalla radura. In lontananza, si udivano le ruspe che sradicavano gli alberi. Il signor Collins aveva vinto la sua battaglia in tribunale. I lavori erano ripresi. Esattamente come aveva immaginato. A breve, avrebbe abbattuto quasi tutti gli alberi, marciando verso la casa sull’albero.

«Ma questa casa che cosa fa, esattamente?» aveva chiesto all’uomo gentile.

hai costruito un portale che dà accesso al mondo immaginario.

Non sapeva se il suo amico fosse stato catturato, o se stesse subendo torture.

Non sapeva se fosse vivo o morto.

Tutto quello che sapeva era che, finché non fosse stato ritrovato, non ci sarebbe stato nessuno a proteggere il mondo dalla signora che sibilava.

Tranne lui.