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CHRISTOPHER non ricordava se stesse dormendo o fosse sveglio. Si guardò le gambe. Non capiva perché fossero tanto corte. Né perché indossasse un camice da ospedale. O perché si trovasse in una stanza d’ospedale. Si guardò le mani, aspettandosi di vedere quelle rugose di una vecchia. Quelle della signora Keizer. E invece no.

«Perché ho le mani da bambino?» si domandò a voce alta.

Dopo tutto, dal giorno dello spettacolo di Natale, avrebbe giurato di essere la signora Keizer. Per quale motivo, però, non lo sapeva. Le aveva solo toccato il braccio. Forse erano le medicine che gli avevano dato. Comunque, la vita di lei gli scorreva davanti agli occhi, sotto le palpebre, come un filmino.

Sono una bambina. Sono una studentessa con voti eccellenti. Andrò al college. Guarda quel ragazzo, là, in palestra. Come ti chiami? Joe Keizer? Io Lynn Wilkinson. Piacere. Sì, sono libera sabato sera. E anche il prossimo. Mi guardo le mani. Oh, mio Dio. Mi sta mettendo un anello di fidanzamento al dito. Ci teniamo per mano, in chiesa. Non sono più Lynn Wilkinson. Sono la signora Keizer, adesso.

Christopher si tirò su a sedere. Guardò verso la finestra e vide il riflesso di un bambino. Quando chiudeva gli occhi, però, il riflesso lasciava il posto al filmino della signora Keizer.

Joe! Joe! Sono incinta! È una bambina! Chiamiamola Stephanie, come mia madre. Okay. Bene. Kathleen, come la tua. Kathy Keizer, vieni subito qui! Aspetta che tuo padre veda quello che hai fatto. Joe, smettila. Sta gelando. Lasciala entrare in cucina. D’accordo, allora. Joe, smettila! Mi stai facendo male. Joe, ti prego. Nostra figlia è un’adolescente. Sta per diplomarsi. Sta per sposarsi. Non sarà più Kathy Keizer. D’ora in poi sarà la signora Collins. Joe, è incinta! Joe, avremo un nipotino! Bradford Wesley Collins III! Che nome regale. Joe, che c’è che non va?! Joe! Joe! Svegliati! Joe!

Christopher aprì gli occhi e vide la bella donna che usciva dal bagno. Come si chiamava? Oh, sì. Era la signora Reese. Giusto, Kate Reese.

«Riesci a sentirmi, Christopher?» chiese lei.

Girò il cuscino dal lato fresco, per farlo stare meglio, Christopher chiuse gli occhi, e il suo viso preoccupato fu sostituito dai ricordi della signora Keizer. Che scorrevano tremolando come una vecchia pellicola a ogni battito di ciglia.

No, Brady. Il nonno è morto. Lo so. Manca anche a me. Eravamo sposati da quaranta… quaranta… Dio, quant’era? Quarant’anni e un po’. Ce l’ho sulla punta della lingua. Dio, perché non riesco a ricordarmelo? Non mi sento bene. Non so più dove ho messo il mio… il mio nome. Perché dice che mi chiamo Lynn Keizer? Da quando? Non ricordo di essermi sposata. No, si sbaglia. Non mi chiamo Keizer. Io… mi chiamo… mi chiamo… Lynn… non me lo ricordo. Lei chi è? Kathleen chi? Chi è quel bambino con lei? Non è mio nipote. Io non lo conosco. Infermiera! Qualcuno mi ha rubato i ricordi! E il nome! Non ditemi di calmarmi! Non sapete che cosa sta succedendo? Non capite? La morte sta arrivando. La morte è qui. Moriremo il giorno di Natale!

La signora Reese gli accostò una cannuccia alle labbra, per farlo bere. Avvertì il sapore di succo di mela ghiacciato. Il più buono che avesse mai assaggiato. Lo adorava, anche più dei Froot Loops. Ma alle anziane non piacciono quei cereali. Quindi non era un’anziana, giusto? Era un bambino, con delle mani da bambino.

«Bravo, tesoro. Come ti senti, Christopher?»

Si chiamava Christopher. Giusto. La signora Reese non era un’infermiera. Era la sua mamma. Erano in ospedale, insieme. Il dottore aveva una cartella in mano. Pensava che il problema fosse la febbre, ma lui sapeva che non si trattava di questo. Aveva avuto l’Alzheimer per un paio di giorni. Tutto qui.

«Come stai, figliolo?» gli chiese.

«Bene.»

«Davvero, Christopher?» volle sapere sua madre.

Voleva dirle la verità. Voleva dirle che sentiva ancora il dolore dell’anziana. La sua malattia gli devastava le articolazioni. Non sapeva se sarebbe stato in grado di camminare. Quanto a stare in piedi… Ma non poteva, con il dottore presente.

Che si stava grattando il braccio.

«Sì, mamma, sto bene.»

Il medico gli posò lo stetoscopio sul petto. Il metallo freddo gli toccò la pelle, trasferendo a lui il prurito. Tutto ciò che aveva appreso alla facoltà di medicina passò nella mente di Christopher. Il dottore pensò che a scuoterlo fosse stata la temperatura dello stetoscopio. Lo scrollò e glielo posò di nuovo sul torace.

Non capisco. I polmoni sono a posto. Il battito è regolare. Ho fatto tutti i test e i valori sono nella norma. Non ha febbre, stando al termometro, ma questo ragazzino sembra… in fin di vita.

Christopher si sforzò di sorridere. Non potevano sapere quanto stesse male. Essere malati significava prendere farmaci, prendere farmaci significava cedere al sonno e con il sonno arrivava la signora che sibilava. Ma il prurito era così prepotente da farlo impazzire. Non sapendo dove metterlo, fece un respiro profondo e lo spedì nei polmoni.

«Bel respiro, piccolo», gli disse il medico, gentile.

Il prurito si diffuse nelle membra di Christopher, portando con sé tutte le persone che il dottore aveva visitato quel giorno. Con le loro febbri e le emicranie. Sentì la lama che penetrava nel collo del signor Henderson. Cinquant’anni di matrimonio gettati via in una coltellata.

Ti ho preparato mille cene, con questo coltello!

L’influenza era ovunque, ma non si trattava di questo. Era la signora che sibilava. Ne era certo. Sua madre gli diede un altro sorso di succo di mela freddo. Aveva il sapore del sangue del signor Henderson, che colava sul tavolo della cucina. Gli venne voglia di vomitare, ma non poteva. Non lo avrebbero mai lasciato uscire. E lui doveva andarsene.

«Delizioso, mamma. Grazie.»

Avvertiva la presenza della signora che sibilava nella stanza. Che osservava tutti. Che giocava con loro quasi fossero marionette manovrate da fili. Fili, come quelli delle persone-cassetta. Come quelli del Balloon Derby. Sta cominciando a penetrare nella mente delle persone, per usare i loro occhi. L’occhio gigante sta diventando sempre più grande. Il male è dentro al dottore, adesso. Si sta grattando il palmo. Quello in cui teneva i libri di testo all’università.

«Signora Reese, dal punto di vista fisico suo figlio non ha niente.»

«Dottore, gli senta la fronte…»

«Il termometro dice trentasette.»

«Vuol dire che non funziona…»

«Gli abbiamo misurato la febbre con tre termometri diversi. Non possono essere tutti rotti. Non ha la febbre.»

«Si potrebbe cucinare un uovo sulla sua fronte.»

«Signora Reese, suo figlio non ha febbre.»

Christopher sentì sua madre diventare sempre più ostile. Ma mantenne una voce controllata.

«E il sangue dal naso?»

«Non è emofiliaco, signora Reese.»

«Ma non smette di sanguinare…»

«Abbiamo fatto gli esami. Non è emofiliaco.»

«Allora che cos’ha?»

«Non lo sappiamo.»

La rabbia della donna stava aumentando. Come quella di tutti.

«Non lo sapete? Lo avete bucato e infastidito per tutto il giorno… e non lo sapete, cazzo!»

«Signora Reese, la prego, si calmi.»

«No che non mi calmo, merda. Fategli degli altri test.»

«Già fatto. Sangue. PET. Elettroencefalogramma.»

La signora che sibila sta…

La signora che sibila sta… diventando più forte.

«Fategliene altri, cazzo!»

«Li abbiamo fatti tutti e non ha niente, signora Reese!»

«MA LO GUARDI!»

Indicò il bambino, e Christopher si vide attraverso i suoi occhi. Pallido come un fantasma. Il naso incrostato di sangue. Voleva dirle che la signora che sibilava adesso era lì, e che faceva in modo che le persone si odiassero. Ma non ebbe il coraggio, perché…

«Signora Reese, c’è un passato di disturbi mentali in famiglia?»

… avrebbe corso il rischio di passare per folle.

«C’è una storia di disturbi mentali in famiglia?» ripeté il dottore.

La stanza si fece silenziosa. Il bambino guardò sua madre, seduta e immobile. Non rispose. Il medico sembrò grato per quel momento di tranquillità. Fece per dire qualcosa, la voce esitante, quasi passasse in punta di piedi da una sillaba all’altra.

«Signora Reese, glielo chiedo perché ho assistito tante volte al manifestarsi di malattie psicosomatiche, nell’infanzia. Quando non riesco a trovare una causa medica, di solito il motivo è che ce n’è una psichiatrica.»

Christopher guardò la madre. Il suo viso era privo di espressione ma, mentre le teneva la mano, vide un lampo di quel suo filmino privato. Era in ginocchio. Che puliva la vasca. Con le mani arrossate dal Clorox. Il sangue di suo marito non se ne voleva andare. Così lei si trasferiva. E poi continuava a farlo.

«Mio figlio non è pazzo», disse.

«Signora Reese, mi ha detto lei che si è scorticato il collo, a scuola. L’autolesionismo è uno dei segnali…»

«Ha avuto un incubo. Succede, ai bambini.»

Il dottore tenne a freno la lingua. Per un attimo.

Lui pensa… lui pensa… che io abbia qualcosa di grave. Ha visto la schizofrenia nei bambini. Si può manifestare anche a un’età inferiore alla mia. Lui… lui… lavora per la signora che sibila. Ma non lo sa.

«Signora Reese, sto cercando di aiutare suo figlio. Non di fargli del male. Potrei far venire subito lo psichiatra infantile, che farebbe una rapida valutazione. Se dovesse escludere il disturbo mentale, ripeterò i test medici. Affare fatto?»

Il silenzio rimase sospeso sulla stanza. Dieci secondi che parvero un’ora. Ma alla fine Kate Reese annuì. Il dottore ricambiò e fece una rapida telefonata al collega. Quando riattaccò, provò a dare una svolta ottimistica alla situazione.

«Lo so che in questo momento vede tutto nero, signora Reese, ma guardi il lato positivo. Suo figlio non ha nulla, fisicamente.»

Si grattò il palmo e sorrise.

«Grazie a Dio.»