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MARY Katherine aprì gli occhi. Guardò fuori, verso il tramonto, e provò una nausea terribile. Era la vigilia di Natale. Ma non sarebbe andata da zia Gerri a mangiare la sua zuppa di funghi. Non sarebbe andata in chiesa ad ascoltare la messa di mezzanotte di padre Tom. Aveva spinto l’auto a centonovanta all’ora. E in quel momento cruciale, quando il cervo si era buttato in mezzo alla strada di fronte a lei, non aveva pensato ad altro che a salvarsi. Per tenersi lontana dall’inferno, aveva girato il volante ed era andata a sbattere contro l’auto dove viaggiavano Christopher e sua madre.

Sei egoista, Mary Katherine. Sei così egoista.

La voce le divorava lo stomaco, mentre i ricordi tornavano come un’alluvione. L’impatto terribile. Le lamiere che si squarciavano, l’esplosione di vetri. Le pinze che aprivano le auto come barattoli di zuppa. I paramedici che estraevano Christopher e la signora Reese dai rottami. Erano delle persone così carine. Brava gente.

Sei andata addosso a un bambino per evitare l’inferno, Mary Katherine.

Mary Katherine avrebbe dato qualunque cosa per sostituirsi a lui. Ma non le era successo niente che una giornata di sonno non avrebbe potuto sistemare. Aveva la cintura e l’airbag. Stava bene. Avrebbe voluto che l’airbag la uccidesse. O che la cintura la strangolasse. Avrebbe meritato di morire in quell’incidente.

Meriti tutto quello che ti sta succedendo, Mary Katherine.

Alla fine, si costrinse ad abbassare gli occhi sul suo corpo. Vide la camicia da notte da ospedale. Il monitor dei parametri vitali agganciato all’indice. Il monitor cardiaco che faceva bip, bip bip. Quando l’avevano portata in ospedale, un’esausta infermiera Tammy le aveva detto di non preoccuparsi. E di riposare. Perché si sarebbe ripresa. Il dottore avrebbe potuto dimetterla subito.

Se non fosse stato per il bambino.

La porta si aprì.

«Mary Katherine?»

Sua madre entrò nella stanza. Corse da lei, in lacrime, e l’abbracciò, e la lasciò andare, e l’abbracciò ancora e ancora.

«Mamma, mi dispiace.»

Mary Katherine non poteva capire che sua madre non era in collera con la figlia diciassettenne perché era troppo sollevata al pensiero che quella figlia diciassettenne – che ricordava di aver allattato e cresciuto – non fosse morta in quell’incidente. Non poteva sapere che, per quanto un figlio si senta cresciuto, per i suoi genitori sarà sempre più piccolo.

«Grazie a Dio stai bene», disse. «Sia lodato Gesù.»

La ragazza guardò entrare suo padre. La mascella, serrata per la collera, dopo ore aveva cominciato a scrocchiare. Collera per la sua disobbedienza. Per la sua sconsideratezza. Per l’ammontare dei conti dell’ospedale e del premio dell’assicurazione, e della retta della Notre Dame, per cui adesso si sarebbero ritrovati indebitati fino al collo.

«Papà», disse. «Mi dispiace tanto.»

Era muto, come una statua. E non la guardava. Se ne stava lì, a grattarsi la testa. Da bambina, credeva che si fosse grattato via i capelli, come la gomma in cima a una matita. Aspettò che parlasse ma, quando non lo fece, gli chiese l’unica cosa di cui le importasse, in quel momento.

«Come sta Christopher?»

«È in coma», le rispose. «Rischia di morire, Mary Katherine.»

La colpa che aveva sentito fino a quel momento era stata solo una prova, che l’aveva condotta fin lì. La ragazza diventò rossa per la vergogna. Gli occhi le si colmarono di lacrime, le tremò la voce.

«Mi dispiace, papà. È tutta colpa mi…»

«Che cosa diavolo ci facevi per strada alle due del mattino?» la interruppe lui.

La voce di suo padre suonò diversa alle sue orecchie. Non l’aveva mai visto così infuriato. Lei rimase in silenzio. Guardò sua madre.

«Non guardare lei. Guarda me. Che cosa ci facevi in giro, Mary Katherine?»

Lei guardò suo padre negli occhi. Era terrorizzata.

«Sono andata in chiesa.»

Nell’istante in cui quelle parole uscirono dalle sue labbra, le si rivoltò lo stomaco. Non stava mentendo. Era andata sul serio in chiesa. Ma solo dopo aver acquistato tre test di gravidanza. Solo dopo aver fatto pipì su tre stick. Solo dopo aver letto tre risultati positivi. Padre. Figlio. Spirito Santo.

«Sei andata a pregare?» le domandò sua madre, mentre il suo sguardo si faceva più dolce.

«Sì, mamma», disse Mary Katherine.

«Per cosa?» volle sapere suo padre.

«Come?» Mary Katherine prese tempo.

Lui la fissò. Sempre più in collera.

«Sapevi che la tua famiglia stasera sarebbe andata alla messa di mezzanotte, ma hai dovuto prendere la macchina di nascosto nel cuore della notte per andare a pregare in chiesa?»

«Sì, papà.»

«PER CHE COSA?»

Mary Katherine era un cervo abbagliato dai fari di un’auto.

«Ecco…»

«VOLEVI. PREGARE. PER. CHE. COSA?» ripeté lui.

La ragazza guardò la madre.

«Tesoro, per favore. Per che cosa stavi pregando?» le chiese anche lei.

«Mammina…» disse, e d’un tratto le parve di avere dieci anni di meno. «Non so come sia successo. Devo aver fatto qualcosa di male, ma non so cosa. Forse l’ho pensato, perché pensarlo equivale a farlo, ma non sapevo che funzionasse anche così. Mamma, te lo giuro.»

«Dimmi solo per che cosa stavi pregando, cara. Qualunque cosa sia, troveremo una soluzione, insieme.»

Mary Katherine sentì arrivare le lacrime. Suo padre le afferrò la mano.

«SMETTILA DI PRENDERE TEMPO E RISPONDI A QUESTA CAZZO DI DOMANDA!» gridò. «PER CHE COSA STAVI PREGANDO?!»

«Papà, sono incinta.»

Con la verità arrivò il pianto. Sua madre la strinse a sé, mentre si abbandonava ai singhiozzi. Per un attimo, Mary Katherine pensò che forse sarebbe andato tutto bene. Sua madre l’amava ancora. Poteva ancora entrare al Notre Dame. E trovare un ottimo lavoro, grazie al quale avrebbe ripagato suo padre e aiutato Christopher con la sua riabilitazione. Lo promise ai suo genitori. Perché sua madre l’aveva perdonata. Perché, anche quando non meritava niente, aveva ricevuto amore.

«Da quanto tu e Doug fate sesso?»

«Non lo facciamo.»

«Cosa? Quindi vai a letto con qualcun altro?»

«No, papà.»

«Allora, chi è il padre?» chiese lui.

Mary Katherine rimase in silenzio. Sua madre le teneva la mano, dolcemente.

«Chi è il padre, tesoro?» le domandò a sua volta.

«Non lo so, mamma.»

«Non lo sai? Quanti ce ne sono stati?» intervenne il padre.

«Nessuno.»

«Di che cosa stai parlando?»

«Non ho mai fatto sesso.»

«Allora come fai a essere incinta?»

Mary Katherine non riuscì a guardarlo negli occhi. La confusione stava trattenendo la rabbia, come dita che cercavano di fermare una diga.

«Non lo so. Sto provando a dirvelo. Non so che cosa stia succedendo.»

«Dimmi chi è il padre!»

Mary Katherine si voltò verso sua madre.

«Non c’è un padre… è questo che sto cercando di dirvi. Non capisco come abbia fatto. Ti prego, aiutami, mamma.»

«Va tutto bene, tesoro. Non devi proteggere nessuno. Dicci soltanto chi è lui», la invitò sua madre, gentile.

«Mamma… non c’è nessun padre. La mia è un’immacolata concezione.»

Mary Katherine girò la faccia proprio mentre arrivava lo schiaffo del padre.

«Smettila con questa blasfemia! Con chi sei andata a letto?»

«Con nessuno, papà!» gridò lei, piangendo.

«Chi è il padre?»

«Sono vergine.»

«MARY KATHERINE!? DICCI IL NOME DEL FOTTUTISSIMO PADRE DEL BAMBINO!»

La ragazza si preparò, ma lui non la toccò più. Si limitò a un’occhiata di disprezzo assoluto, prima di uscire nel corridoio, fumante di rabbia. Mary Katherine cadde tra le braccia di sua madre e pianse così forte che le ci vollero alcuni secondi per accorgersi di una terribile verità.

Lei non ricambiava l’abbraccio.

«Mamma?» chiese. «Potrai mai perdonarmi?»

Cercò il suo sostegno. Ma lei non riusciva neppure a guardarla.

«Solo Dio può farlo.»

Avrebbe potuto sopportare le sberle di suo padre per tutto il giorno. Ma non avrebbe retto nemmeno per un secondo alla delusione di sua madre. Pochi istanti dopo, lui tornò con un medico che la ragazza non riconobbe.

«Ciao, Mary Katherine. Sono il dottor Green», si presentò. «Adesso ti somministriamo un leggero sedativo.»

Diede un’occhiata all’infermiera, che cominciò a pulirle il braccio con un batuffolo di cotone e del disinfettante.

«Serve solo per rendere più facile il trasferimento», continuò il medico.

«Quale trasferimento? Torno a casa?»

«No. Rimarrai qui per un po’.»

«Papà, che cosa sta succedendo?»

Suo padre non volle nemmeno guardarla.

«Mamma?»

Lei rimase in silenzio. Alla ragazza ci volle un altro momento per capire che tutti loro la credevano matta. Cominciò a opporsi, ma entro pochi secondi accorsero degli inservienti.

«Ti prego, mamma. Non lasciarglielo fare.»

«Ti daremo l’aiuto che ti serve, tesoro», disse sua madre.

«Mamma, è un’immacolata concezione. Me lo insegni da tutta la vita.»

Gli inservienti la afferrarono. Lei si dondolò all’indietro, per liberarsi, ma la loro presa era troppo forte.

«NO!» strillò. «VI PREGO!»

Il dottore tirò fuori una siringa.

«NON STO MENTENDO! GIURO SULLA MIA ANIMA! VI PREGO! STA SUCCEDENDO QUALCOSA DI TERRIBILE!»

Il dottore le infilò l’ago nel braccio. Dopo pochi secondi, le sue membra divennero molli, a causa del sedativo. E, appena prima di cadere in un sonno profondo, guardò sua madre.

«Mamma», disse calma. «Ti prego, non lasciare che mi prendano.»

La vide voltarsi, mentre quegli uomini la trascinavano fuori dalla stanza.

«Hai bisogno di aiuto, Mary Katherine», disse il dottore. «È ora.»