«GESÙ, aiutami.»
Mary Katherine era in ginocchio, lo sguardo rivolto all’unica finestra della sua cella imbottita. Aveva i piedi freddi, indossava una camicia da notte di cotone bianco. Era in ospedale.
No, sei in un istituto psichiatrico.
Mary Katherine si scrollò di dosso quella voce, che era con lei come un virus da quando i suoi genitori avevano permesso ai medici di trasferirla in psichiatria. Le avevano somministrato un sedativo, e si era svegliata in quella stanza dalle pareti imbottite. Bianche. Di tre metri per tre. Con una sola finestra. Stava morendo di fame.
Perché sei incinta. I tuoi genitori non ti hanno creduto.
Ti hanno lasciata qui, Mary Katherine.
Chiese a gran voce di portarle del cibo, e acqua. Il bambino nel suo ventre era affamato. Tirava calci allo stomaco. Ma non le rispose nessuno. Non arrivò nessuna infermiera. Nessun dottore. E tanto meno i suoi. Era sola.
«Gesù, ti prego, aiutami.»
Fissò la luna blu che splendeva attraverso la finestra. Poi si sollevò sulle punte dei piedi e diede un’occhiata alla città. C’erano degli incendi, all’orizzonte. Degli edifici in fiamme.
Stava accadendo qualcosa di terribile.
Sì, i tuoi genitori ti hanno messa in un manicomio, da cui non uscirai mai più.
La ragazza provò a respirare, nonostante il panico. Ricordò a se stessa che «istituto psichiatrico» significava protezione. Godeva di condizioni migliori della Vergine Maria nella stalla duemila anni prima, no? Avrebbe dovuto essere grata, giusto? Gesù l’aveva aiutata, no? L’amava, vero? Calmati, Mary Katherine. Calmati. Sei in una stanza di sicurezza.
Ti senti al sicuro?
Udì dei passi nel corridoio.
«Chi c’è?»
Aspettò una risposta. Che non arrivò. Il rumore si fece più forte.
«Ehi? Chi c’è?» gridò.
La persona si fermò appena fuori dalla spessa porta imbottita. Mary Katherine guardò il pomello. Che adesso girò. Pensò fosse il dottore. O l’infermiera con un’altra iniezione da farle nel braccio.
Voleva tanto mettersi a gridare. Poi, la porta si aprì.
Era sua madre.
Scoppiò in lacrime. Corse da lei, l’abbracciò. Nella sua mente, vide tutto quanto, perfettamente.
«Ho bisogno di mangiare, mamma. Il bambino ha tanta fame. Ma giuro che non ho mai fatto sesso. Non so come ho fatto a rimanere incinta. Grazie di essere venuta da me. Grazie dell’aiuto. Grazie di avermi salvata. Grazie del bene che ancora mi vuoi.»
Ma le parole uscirono come un farfuglio incomprensibile, tra i singhiozzi. Sua madre probabilmente la prese per una pazza delirante, perché la strinse come si fa con il lato fresco del cuscino.
«Dobbiamo andare adesso, Mary Katherine», annunciò tristemente.
Finalmente, la ragazza trovò il fiato per formulare una domanda chiara.
«Dove mamma?»
«In chiesa. È ora.»