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Solo lasciandosi avviluppare dalla noia è possibile sperimentare il sussulto vitale dello stupore. Camminando nel parco Cittadella, Soneri rimuginava questo pensiero osservando la città dall’alto dei bastioni come dalla merlatura di un castello. Era lo stupore a rendergli ancora sopportabile il mestiere di poliziotto. Scaturiva dal praticare quella sorta di chirurgia della vita altrui che viola l’epidermide dell’apparenza irrompendo di colpo nell’intimo svelato nella nudità della morte. Benché niente lo annoiasse come la semplice contabilità dei cadaveri, la quale rinvigoriva in lui l’idea della vanità di ogni redenzione, tutte le volte che il dovere d’ufficio gli imponeva di procedere nella sdrucciolevole impresa di ricostruire una vita spezzata, si sorprendeva di quel sentimento misteriosamente sopravvissuto alla stanchezza ripetitiva. Forse perché la morte era di suo stupefacente, consistendo in un’aporia: annullando tutto, annullava anche il pensiero con cui la si immagina, dunque se stessa.

Quel groviglio di idee si presentava puntualmente all’apparire di un cadavere. Sorgeva immediato ancor prima di un sussulto di pena o moralità. Lo provò per qualche secondo anche quella mattina, quando si imbatté in un uomo steso su una panchina in una posa che pareva davvero quella di un cadavere. Era vestito con abiti piuttosto leggeri visti il clima e la nebbia che sgocciolava dagli alberi. Stette per un po’ a osservare quella specie di fagotto, insospettito da tanta immobilità. Poi decise di avvicinarsi, spinto più dalla curiosità che da un dovere professionale. Il tizio era appoggiato su un fianco, col viso rivolto allo schienale e il capo quasi del tutto coperto da un cappuccio. Sugli abiti si erano depositate piccole gocce che assomigliavano a sudore. Il commissario gli posò una mano sulla spalla e scrollò con brevi mosse rapide. L’uomo si destò girandosi pigramente sulla schiena tra i gemiti dei listelli di legno. Aprì gli occhi ma non mostrò né sorpresa né spavento. Al contrario, sorrise guardando davanti a sé.

«Sta bene?» chiese Soneri.

L’uomo si rizzò a sedere.

«Bene» si limitò a dire mentre la sua espressione divenne più seria. «Stavo congelando» aggiunse poi percorso da un brivido.

«Non è una gran trovata mettersi a dormire su una panchina in ottobre» considerò il commissario, ricordandosi in quel momento del suo ragionare di cadaveri.

«È la prima persona che si è interessata a me» balbettò trasognato l’uomo dando l’idea di parlare a se stesso.

«Non c’è un gran viavai» constatò Soneri.

«Oh, ne è passata di gente…»

«Quindi lei non dormiva.»

L’altro non rispose subito. Poi disse con tono ambiguo: «Avrei voluto».

«Meglio la sala d’aspetto della stazione» riprese il commissario supponendo fosse un barbone.

«Se è per quello ne avrei di posti!» replicò l’uomo alzando un braccio e lasciandolo poi ricadere sulle ginocchia.

«Allora è curioso che sia qui.»

«Nessuno si interessa più degli altri» proseguì l’uomo seguendo ancora il filo dei suoi pensieri come se non avesse sentito. «Viviamo in un mondo sordo» aggiunse sottovoce. E prima che Soneri intervenisse, proseguì: «Non è nemmeno sempre per cattiva volontà o indifferenza. Forse per imbarazzo. Credo che sia così. Molte volte è timidezza e imbarazzo. S’è creato come un velo fra le persone che le mostra sfocate e impedisce che si riconoscano».

«Direi che è diffidenza» tagliò corto il commissario.

L’altro non parve granché convinto.

«Resta da capire perché sfida l’assideramento in un parco» insistette.

L’uomo scrollò la testa senza rispondere. Poi girò lo sguardo e per la prima volta lo fissò in faccia.

«La prenda come una prova. Per gli altri e per me.»

«Che genere di prova?»

«Capire il valore di un uomo. Mi sono chiesto quanto tempo si può stare qui come un cadavere prima che qualcuno si decida a intervenire. Quanto si può resistere all’indifferenza, alla timidezza o all’imbarazzo altrui?»

Il commissario cominciò a pensare di avere a che fare con uno squilibrato. Ma al tempo stesso la situazione suscitava in lui quello stupore che sempre si accompagna all’inconsueto.

«E qual è la conclusione?»

«Be’, lei si è fermato.»

«Basta a riconciliarla con il genere umano?»

«Sono qui da tre ore» sogghignò l’uomo dando un’occhiata all’orologio.

«Troppe per assolvere il prossimo?»

«Oh, qualcuno deve aver chiamato l’ambulanza. Un infermiere è venuto a controllarmi, ma gli ho detto che non avevo bisogno. Comunque tutto ciò che è fatto per dovere non conta.»

L’uomo stava tremando.

«Sarà meglio trovarci un posto caldo» stabilì Soneri.

L’altro assentì.

«Abbiamo tutti bisogno di conferme, non trova?» riprese qualche istante dopo.

«E lei le cerca in questo modo?»

«È estremo, lo so. Ma è così che si possono misurare compassione e pietà. Solo riducendosi a un fagotto gettato in un angolo. Tutti soccorrerebbero un potente in difficoltà per poi trarne vantaggio, ma un fagotto in mezzo ai piedi chi lo aiuterebbe? Più facile che gli diano fuoco.»

«Qualcuno ha chiamato l’ambulanza… L’ha detto lei» obbiettò Soneri sempre più addentro a quella situazione surreale.

«La sto tediando?» intervenne l’uomo intercettando la perplessità del commissario.

«Tutt’altro» lo rassicurò quest’ultimo.

Stava pensando che gli erano sempre risultate simpatiche le persone eccentriche. Gli offrivano l’opportunità di guardare alle cose in una prospettiva sghemba e quasi sempre sorprendente. Anche quello era un modo per sfuggire alla noia.

L’uomo gli stava accanto silenzioso fissando davanti a sé la staccionata e la strada più in basso. Di colpo ricominciò a tremare con brevi scosse febbrili.

«Venga, c’è un bar qui di fronte» disse Soneri.

L’altro lo seguì docilmente. Scesero la rampa dei bastioni e varcarono l’entrata su un piccolo ponte che scavalcava il fossato del parco, una ex fortezza farnesiana. Pochi minuti dopo erano seduti in un bar di via Solferino. L’uomo sembrò rilassarsi ma continuò a restare in silenzio. Osservava svogliatamente l’incrocio con i viali e la fermata delle corriere in corrispondenza della vecchia barriera daziaria della città. Si capiva che qualcosa lo turbava e che quel qualcosa doveva avere a che fare con la strana trovata di sdraiarsi su una panchina al freddo. Soneri ordinò un calice di Malvasia rivolgendo poi un’occhiata interrogativa all’uomo.

«Cosa prende?»

L’altro sembrò non aver udito. Continuava a fissare l’andirivieni dell’incrocio senza dar l’idea di seguire niente in particolare. Il cameriere scambiò un cenno con il commissario prima di chiedere a sua volta: «Signore, desidera?».

L’uomo finalmente si girò e fece segno di no con la testa. Quando il cameriere se ne andò disse: «Ha notato che arrivano sempre per le ordinazioni nel momento in cui uno sta pensando una cosa importante o sta per dire qualcosa a cui tiene? Magari è proprio quella per cui eri lì, quella che non riuscivi a esprimere e finalmente…».

«Non credo che fosse il nostro caso. O mi sbaglio?» domandò il commissario.

«Ha ragione. Lei non è la persona giusta. Nemmeno la conosco» si giustificò. «Se sono qui è forse per il fatto che si è interessato a me. Mi sono sentito qualcuno vicino.»

«Certe volte è necessario, ma, come ha detto lei, forse non sono la persona giusta.»

«No, non lo è. Però capita che sia più facile confidarsi a un estraneo che a qualcuno con cui si ha familiarità. Non si corre il rischio di mostrarsi diversi da quello che si è sempre stati. È spiacevole infrangere l’immagine che si è fatto chi ci conosce.»

«Mi dà l’idea che abbia un bel peso sullo stomaco» azzardò Soneri.

Aveva parlato d’impulso non reggendo più l’ambiguità di quelle mezze frasi.

L’uomo assentì, poi provò a sconfiggere l’imbarazzo. «Non so come spiegare…» cominciò, ma fu subito interrotto dall’arrivo del cameriere con il calice di Malvasia per il commissario. A quel punto tornò a guardare fuori attraverso le vetrate del bar.

«Ha proprio ragione, i camerieri arrivano sempre a interrompere sul più bello, come la pubblicità nei film» stabilì il commissario. «Dunque, cosa voleva dirmi?»

L’altro era tornato a immergersi in un gregge di pensieri. Alzò le spalle senza girare lo sguardo. Soneri assaggiò la Malvasia. Si era dimenticato di chiedere che gliela servissero secca anziché dolce. Quella piccola contrarietà lo distrasse dalla conversazione. Osservò il bar semivuoto nell’ora morta del mattino, il traffico fuori, più quieto dopo la sfuriata delle otto, e la nebbia che continuava a rimanere sospesa alla stessa altezza, inamovibile da giorni.

Improvvisamente l’uomo si riscosse dall’apatia e si girò verso Soneri con un mezzo sorriso che poteva essere di disponibilità.

«Se ha qualcosa da dirmi lo faccia adesso, sto per andarmene» lo incalzò lievemente spazientito il commissario, alzandosi. In quel momento, da una chiesa poco distante si udirono i rintocchi lenti delle campane a morto.

Fu allora che l’altro disse con sorprendente serenità: «Ho ucciso un uomo».