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«Come vede sono la persona giusta» esordì il commissario.

Erano seduti l’uno di fronte all’altro nell’ufficio della Mobile. L’uomo l’aveva seguito remissivo senza porre obiezioni, e quando furono davanti alla questura, indicando l’edificio con un rapido gesto, aveva sussurrato: «Prima o poi ci sarei venuto da solo qui».

Il piantone all’ingresso di borgo della Posta li aveva fatti passare, riconoscendo Soneri. Una volta nel corridoio, nel viavai di agenti e funzionari, tutto era sembrato un incontro di routine. Fin dal primo momento in cui il commissario si era presentato, l’uomo era apparso deluso.

«Dunque anche lei l’ha fatto per dovere» borbottò. «Perché era la persona giusta.»

«Non mi pare importante in questo momento» replicò il commissario. «A meno che non stia giocando» aggiunse lievemente minaccioso.

«Invece lo è. Sarà l’indifferenza a sopraffarci. Poco per volta ci allontaneremo l’uno dall’altro fino a divenire ostili e a uccidere per paura.»

Il commissario continuava a dibattersi incerto tra l’interpretare le parole dell’uomo come una confessione o come il delirio di un visionario.

«E lei di chi ha avuto paura?» domandò.

«Il mio caso è diverso» si schermì l’altro. «La mia è stata…» s’interruppe per cercare la definizione esatta. «È stata parecchie cose insieme. Direi una profonda indignazione.»

Soneri lo osservò senza replicare. Sconcertato, si rifugiò nella prassi, come se si trattasse di un interrogatorio vero, cosa di cui dubitava.

«Cominciamo dal suo nome» tagliò corto senza convinzione.

«Roberto Ferrari» rispose. «È un nome così comune da essere banale, non trova?»

Il commissario fece cenno di lasciar perdere.

«Età? Luogo di nascita?» continuò con tono distratto divagando tra le informazioni anagrafiche.

«Ho sessantotto anni e sono parmigiano del sasso» precisò con un certo orgoglio.

Soneri sentì finalmente qualcosa di familiare in quella definizione che significava essere nati e vissuti in città. Il sasso voleva dire il selciato, non la terra e l’erba di chi viene al mondo tra le vacche.

«Borgo Montassù» aggiunse dopo una pausa. «Anni fa mi divertivo a far credere che fosse un paese di montagna.»

«La gente crede a tutto, se la sai raccontare» replicò quasi sottovoce Soneri. «Se lo sta facendo anche con me l’avverto che non la passerà liscia» ribadì.

Ferrari s’impettì rizzandosi di colpo contro lo schienale. Il caldo torrido degli uffici della Mobile l’aveva eccitato come un ramarro.

«Non riuscirei mai a convincere uno scettico come lei.»

«Fa parte del mio mestiere non dare nulla per scontato. Ho ascoltato più imbonitori io del tirassegno alla fiera.»

«Crede che anch’io lo sia?»

«Non lo so, ma sarei falso se dicessi che non lo sospetto.»

«Cosa le fa pensare che finga?»

«Ogni circostanza inconsueta genera incredulità. L’ho provata fin dal primo momento che l’ho notata su quella panchina.»

«E ciò le fa supporre che io sia un pazzo, un visionario o un millantatore?»

«No, però mi fa essere guardingo.»

«Cosa dovrei fare per convincerla?»

«Quello che fanno tutti quelli seduti nel posto in cui si trova lei ora: raccontare. O se preferisce, confessare.»

Ferrari tirò un gran sospiro: «Non so da dove cominciare».

Il commissario sentì crescere l’irritazione dentro di sé, ma cercò di contenersi. Ciò che lo innervosiva non era tanto quel tergiversare ozioso, ma la sorprendente serenità dell’uomo.

«Ha detto che ha ucciso» tagliò corto. «Cominci da qui: chi ha ammazzato?»

«Si chiama Giacomo Malvisi, ma lo chiamavano James.»

«E perché l’ha ammazzato?»

L’altro non rispose subito. Si prese una lunga pausa.

«L’ho ritenuto un atto di giustizia.»

Soneri scosse la testa: «Dipende a che giustizia ci si riferisce».

«Ci ho pensato mille volte, ma alla fine l’indignazione, la rabbia… È stata una rivolta.»

«Rivolta? E contro chi?»

Ferrari alzò un braccio di scatto.

«I reati non sono solo quelli che perseguite voi. I vostri sono una minima parte e almeno hanno una punizione a norma di legge. Ma gli altri? Quelli per cui non c’è un articolo, un comma o un paragrafo che possa esprimere una condanna?»

L’uomo si era definitivamente animato, irrequieto da parere un pulcino appena infranto il guscio.

«Se ha ucciso qualcuno siamo tra quella minima parte» stabilì Soneri.

«Voglio dire che non c’è nessuna legge che tuteli dai soprusi, dalle prepotenze, dall’approfittare del prossimo. Si può essere dei delinquenti senza aver mai commesso un reato» riprese Ferrari.

«Certo, il mondo è pieno di rispettabili criminali. Delinquenti a norma di legge» ammise il commissario.

L’altro gli stava di fronte fremente ma muto. Soneri attese un tempo sufficiente a perdere la pazienza, ma ancora una volta si contenne. Il suo tono persino più pacato del solito, sorprese anche lui: «Ho cambiato idea: non sono la persona giusta se desiderava chiacchierare con qualcuno».

Di nuovo l’altro si impettì. Questa volta con indignazione, rizzando la testa fieramente: il pulcino si era trasformato di colpo in un gallo da combattimento.

«Non la sto prendendo in giro» reagì con puntiglio.

«Le panchine sono lì apposta per fare flanella, e se non ci si distende può essere che qualcuno si sieda vicino e attacchi bottone» sibilò Soneri sentendosi uno stupido ad aver dato corda a quel tizio. Per fortuna Juvara era fuori e i colleghi non avrebbero saputo niente, altrimenti sarebbe partita una di quelle romanze a presa di culo che tutti avrebbero cantato per mesi su e giù per il palazzo della questura.

«Lo trovate in via Carmignani 8» buttò lì freddamente l’uomo.

Quell’indirizzo ridestò l’attenzione del commissario. Forse non si trattava di un mitomane, benché la sua espressione serafica rendesse tutto cedevole e fluttuante tra realtà e fantasia. Conosceva molto bene quella via nel popolare quartiere Montanara, alla periferia sud di Parma. Ci era cresciuto in quella specie di confine tra case e campi, dove chi scendeva al capolinea dei bus restava qualche secondo a chiedersi se quello fosse l’ultimo lembo di campagna o il primo avamposto di città. Lungo le vie crescevano condomini di edilizia economica coi cortili pieni di bambini accanto a case coloniche inghiottite dall’avanzare dei piani regolatori. Le accompagnavano, in via d’estinzione, scampoli di filari, arginature di gelsi e portici dove persisteva l’odore di stallatico.

«Cosa dovremmo trovare?» domandò senza capire, ridestandosi da quel momentaneo torpore di ricordi.

«Il corpo di Malvisi.» Soneri fissò l’uomo. Un attimo prima avrebbe voluto cacciarlo, ora tornava a provare curiosità. Posò la mano sulla cornetta per telefonare, ma all’ultimo esitò. Lo colse di nuovo lo stupore.

«Via Carmignani 8, al pianterreno. C’è una targa sul cancello di una palazzina a due piani e un viottolo con un’entrata privata» spiegò Ferrari imperturbabile.

Il commissario si decise infine a sollevare il telefono, fissando l’uomo con sguardo diffidente. Allo stupore si abbinava una buona dose di incredulità. Poi compose il numero di Musumeci.

«Fai un giro in via Carmignani 8. Dovrebbe esserci una targa con un nome: Giacomo Malvisi. Ha lo studio al piano terra.»

«Cosa devo fare?» domandò l’ispettore.

«Qui c’è uno che dice di averlo ammazzato.»

Musumeci emise un mugugno che avrebbe voluto essere un’esclamazione. «C’è qualcuno là? Chi l’ha trovato?»

«Non c’è nessuno. Dovrebbe essere morto nel suo ufficio» rispose Soneri cercando conferme con lo sguardo da Ferrari.

«Se è chiuso e devo portarmi il fabbro, ci vorrà un’autorizzazione» ipotizzò l’ispettore.

Il commissario coprì il ricevitore con la mano e si rivolse di nuovo a Ferrari: «È sicuro che sia lì? Se mi fa passare dei guai glieli ricambio a prezzo d’usura» avvertì.

L’uomo annuì, per nulla spaventato.

«Portati il fabbro ed entra, pare sia lì davvero.»

Quando riattaccò si mise comodo sulla poltrona e osservò di nuovo Ferrari con severità: «Fra poco saprò se lei dice il vero o mi prende per il culo» affermò perentorio.

«Le pare che verrei fin qui per raccontarle una balla?»

Soneri lo studiò ancora sospettoso, senza capire. Prese il sigaro che aveva lasciato spegnere nel portacenere e l’accese. Ferrari lo guardava con la solita flemma.

«Mi considera così stupido?» chiese l’uomo. «Matto, forse?»

Il commissario tirò una boccata e solo dopo si rese conto di infrangere la legge.

«Le dà fastidio?» si scusò mostrando il Toscano.

L’altro sorrise e fece cenno di no. Allora Soneri si alzò e aprì la finestra che dava sul cortile interno. Rimase nello spiraglio, soffiando il fumo fuori mentre l’aria fredda lo investiva.

«Lei ama i compromessi» sorrise Ferrari accennando alla finestra semiaperta. «Anche per un commissario la legge si può accomodare.»

«Nel suo caso pare l’abbia infranta del tutto.»

«Sono un tipo radicale, io» disse l’uomo. «Non mi piacciono le mezze misure. O sto da una parte o dall’altra. È tutto più semplice, senza equivoci. Una cosa può essere bianca o nera. Di grigi ce n’è troppi. È per questo che ci si fraintende. Tutto diventa opinabile, incerto, sfocato, incomprensibile.»

«Mi sembrano ragionamenti da adolescente» giudicò Soneri. «Non le ha suggerito niente l’età?»

«Crede di offendermi? Al contrario. Avessimo tutti il nitore di pensiero degli adolescenti.»

Soneri tirò un’ultima boccata, quindi chiuse la finestra e posò di nuovo il sigaro sul portacenere lasciandolo in un’agonia di braci.

«Come l’avrebbe ammazzato?» domandò poi riprendendo il filo di quella bizzarra confessione.

«Con una specie di coltello» rispose Ferrari.

«Una specie? Era un coltello o cos’altro?»

«Forse un tagliacarte appuntito.»

«Se l’era portato dietro?»

Ferrari scosse la testa: «L’ho trovato sulla scrivania di James».

«Deduco che lo conoscesse bene se lo chiama in quel modo.»

«Purtroppo» dichiarò l’altro con aria grave.

«Avete avuto una discussione?»

«Una delle tante.»

L’uomo sembrava imperturbabile. Rispondeva col tono di un testimone offeso anziché come un reo confesso. Soneri ne aveva visti tanti e mai si era imbattuto in un tipo così freddo, tranquillo e sereno. Pareva persino compiaciuto.

«E quindi perché l’avrebbe ammazzato?» domandò.

«Non è ancora convinto, vero?» sorrise Ferrari. «Ce ne mette il suo collega» aggiunse dopo qualche istante alludendo a Musumeci.

Il commissario alzò le spalle rassegnato. Una rabbia impotente gli ronzava dentro, ne percepiva la leggera pressione tra le tempie. Si sentiva stupido per essersi infilato in quella storia. Se Musumeci non avesse trovato niente, sarebbe diventato davvero lo zimbello della questura. Ma a quel punto non poteva più tornare indietro. Era vittima del suo stupore. A causa di esso era finito dentro a quella che aveva l’aria di una trappola. Ferrari gli appariva l’esca, con tutte le sue stranezze.

«Non ha risposto. Perché l’ha fatto?» ribadì con rabbia Soneri spazientito.

«Soldi. Banale, vero? È tutto banale, come il mio nome.»

«Le ha fregato i risparmi? Affari?»

«Affari non ne faccio» si schermì Ferrari. «Certo, i risparmi. Mi sono fidato e non avrei dovuto.»

Il commissario si sentì deluso. Da una storia bizzarra come quella si sarebbe aspettato qualcosa di sorprendente, com’era stato sorprendente svegliare un tizio su una panchina e trovarsi di fronte un assassino.

«In realtà non è per i soldi» riprese l’uomo ridestando la curiosità di Soneri. «Non dico che non c’entrino, ma è tutto il resto. Sa com’è… I vecchi muoiono sempre per una malattia, ma solo perché l’età le ha spianato la strada. È quella a far precipitare tutto. S’immagini anni di raggiri, furberie… Non c’è niente di peggio che tradire la fiducia di chi ti aiuta. È molto più grave che rubare. Il ladro ti priva di qualcosa ma non ti getta addosso lo scherno e l’umiliazione. E invece il tradimento presuppone la peggiore umiliazione: quella di farti sentire inetto.»

«Per quello parla di rivolta?»

«Lo sa che anche l’uomo più determinato non resiste alla tortura? Non creda a chi racconta che c’è riuscito e magari passa per eroe: se non ha ceduto è perché è morto prima.»

«Lei, invece, ha ceduto…»

«Puoi essere il più mite sulla terra ma non puoi restare a lungo indifferente alle offese. Anche perché non si muore per quelle.»

Di tanto in tanto un agente bussava ed entrava nell’ufficio porgendo carte da firmare. Ormai tutti sapevano di quell’uomo nella stanza del commissario da quasi mezz’ora. Per questo Soneri provava fastidio, persino un po’ di vergogna. Immaginava il chiacchiericcio alla macchinetta del caffè, i sogghigni, le insinuazioni. Li sentiva già: “Hai saputo del capo della Mobile? S’è fatto prendere per il culo mezza giornata…”. Poi tutto quell’impasto lievitato nei corridoi sarebbe salito come un rampicante fino agli uffici del questore. Nemmeno avrebbe potuto denunciare Ferrari perché a quel punto la storia sarebbe schizzata fuori intera di botto come il tappo dello spumante.

«Sembra un padre fuori dalla sala parto» disse a un certo punto Ferrari osservandolo.

Il commissario posò gli avambracci sulla scrivania e si piegò in avanti. Era come se gli avessero sferrato un pugno al fegato. Un ex pugile che aveva arrestato per rapina, gli aveva detto che era il punto più doloroso dopo la mascella, quello che ti taglia il fiato.

«Non sta bene? C’è quell’influenza terribile in giro» chiese premuroso Ferrari.

Soneri si rialzò cercando di dissimulare. Fece un cenno con la mano per dire che era tutto a posto, anche se mentiva. Gli era crollato addosso all’improvviso tutto uno scaffale di memoria che da anni cercava di sistemare in equilibrio senza mai riuscirvi. Si rivedeva all’ospedale in un’attesa che si era protratta per ore di silenzio angosciante. Pensava che sarebbero tornati a casa in tre, lui Ada e una culla. Invece gli era toccato di uscire da solo in compagnia delle sue lacrime.

«Non sarà facile aprire quella porta» lo riscosse la voce di Ferrari, mentre Soneri pensava che purtroppo una porta si era aperta sul suo passato e quel che aveva scorto gli faceva ancora molto male.

«L’aveva fatta mettere blindata perché erano troppi quelli che non gli volevano bene» continuò l’uomo.

Il commissario, ancora un po’ stordito, alzò le spalle. «Ho tempo» sussurrò. «Anche lei, mi pare. È in pensione, vero?»

«Da non molto. E comunque ho continuato a lavorare.»

«Qual è il suo mestiere?»

«Quello che facevo o quello in cui mi sentivo me stesso?»

Soneri batté la scrivania col palmo lasciando ricadere la mano come per dire che ci rinunciava. La tortuosità della mente dell’uomo lo irritava sempre più.

«Prima di andare in pensione ho tenuto la contabilità per un ente religioso, ma la mia vocazione è la fotografia.»

«È sposato?»

«Le pare che se fossi sposato avrei fatto quello che ho fatto?»

«Niente di più facile. Spesso gli assassini non fanno nemmeno tanta strada: uccidono la moglie, che è più a portata di mano» disse il commissario.

«Con una moglie e magari dei figli non l’avrei fatto, ma quando uno è solo non è responsabile che per se stesso.»

«Se è vero quel che mi ha raccontato, dovrà scordarsi la macchina fotografica.»

«Ormai…» strinse le spalle Ferrari. «Non mi va più di viaggiare. Il mondo è diventato pericoloso. Ci sono terroristi e bande di sequestratori ovunque.»

L’uomo accavallò le gambe, intrecciò le dita delle mani e con esse si aggrappò al ginocchio sollevato. Guardò fuori con aria impaziente, come se aspettasse lui una risposta anziché il commissario.

«Devono usare per forza la fiamma» disse poi. «Quella porta non si apre senza fiamma.»

In quel momento squillò il cellulare di Soneri.

«L’abbiamo trovato» lo investì la voce un po’ ansimante di Musumeci.

«Non muoverti di lì, ti mando una pattuglia» raccomandò il commissario. «C’è un’arma intorno al cadavere?»

«Non mi pare» rispose l’ispettore. «A occhio l’hanno accoltellato, ho notato molto sangue sotto il corpo.»

Per la seconda volta si udirono campane a morto.

«Commissario» intervenne Ferrari con ironia intuendo la conversazione, «cosa le ho detto? C’è in giro una terribile influenza che si porta via vecchi e giovani.»