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La prima sensazione di Soneri fu di sollievo. Per qualche minuto scacciò il sospetto di essere vittima di una beffa e che Ferrari fosse uno dei tanti mitomani che giravano in città. Ma immediatamente dopo si ritrovò a fare i conti con quella persistente incredulità che aveva accompagnato la vicenda fin dal primo momento. Insomma, non era un’inchiesta come un’altra e forse non la sarebbe mai diventata.

Appena riagganciato il telefono, fissò Ferrari per alcuni istanti e si sentì in dovere di chiedergli scusa. Tuttavia non lo fece. Fu invece l’altro a parlare dando prova di aver capito.

«Non le ho raccontato balle» affermò tranquillo.

Il commissario annuì alzandosi. Mise in bocca il sigaro spento e s’infilò il montgomery. Quando ebbe allacciato anche l’ultimo alamaro, disse: «Non si muova da qui».

«Conosco la procedura. Dovrete interrogarmi, no?» ammise con naturalezza Ferrari. Sembrava fosse lì per svolgere un lavoro.

Soneri lo fissò per qualche istante dallo stipite, sempre più sorpreso. Allora fu l’altro a congedarlo. «Non la invidio, uscire con questo tempo… Le toccherà stare in piedi al freddo. Gli avevano tolto il gas a James: non pagava le bollette da mesi» aggiunse.

Il commissario richiuse la porta con sollievo e s’incamminò verso l’Alfa Romeo Giulietta di servizio parcheggiata in cortile. Guidò fino a Barriera Repubblica e svoltò in viale San Michele, passò davanti allo stadio Tardini dove file di tifosi ai botteghini compravano i biglietti per la partita: si ricordò che era in programma lo scontro con la Juventus, la squadra più odiata. Sfiorò la Cittadella in cui poco prima aveva incontrato Ferrari e s’immise sul Lungoparma. Al ponte Dattaro girò a destra e oltrepassò il torrente inoltrandosi in un’altra città: l’ex dormitorio dei poveri, il luogo d’incontro tra gli immigrati del Sud e i derelitti del boom economico ammassati nelle case tutte uguali costruite coi fondi Gescal. Era la caput mundi, la finis terrae giacimento della forza lavoro che ogni giorno si dirigeva coatta a cuocere nei forni delle vetrerie o accanto a crogioli di ghisa fusa. Chi ci abitava, salendo sul bus al capolinea, diceva “andiamo in centro”, nella candida consapevolezza d’essere periferia, abitanti della marginalità lontana dai marmi dell’Antelami e dai colori del Correggio, dimenticati persino dai santi.

Parcheggiò in via Carmignani e si sforzò di non guardare troppo attorno. Il cancelletto di accesso allo studio era aperto e già una piccola folla di curiosi si era radunata sul marciapiede. Soneri percorse un viottolo che costeggiava una palazzina di due piani. Era l’ultima a essere stata costruita nella via. Ricordava ancora che al suo posto c’era un prato incolto da cui provenivano enormi ratti capaci di intimidire anche i più selvaggi tra i ragazzi sottoproletari che abitavano i capannoni convertiti a case di via Navetta. La porta d’ingresso era spalancata e dentro faceva quasi più freddo che fuori: la prima conferma del racconto di Ferrari. Musumeci gli venne incontro con aria grave.

«Di qua» disse scortando Soneri oltre una porta che immetteva in una stanza abbastanza grande dov’erano piazzati una scrivania colma di scartoffie, un computer e un’imponente poltrona girevole. Il resto era composto da scaffali di legno, un tavolo con due sedie e un divano. Il cadavere era proprio ai piedi del tavolo, in parte sotto di esso, come se l’uomo avesse cercato disperatamente un rifugio.

«Hai dato un’occhiata?» domandò il commissario accennando al morto.

L’ispettore assentì. «La pancia è piena di asole più di un doppiopetto.»

«Profonde? Tutte mortali?»

«Non lo so, ma c’è molto sangue. La lama deve avere fatto strazio.»

«L’avete trovata?»

«Macché! L’avrà gettata da qualche parte una volta fatto il lavoro.»

«Un tagliacarte, ha detto» spiegò il commissario ispezionando la scrivania.

In quel momento comparve Nanetti, il capo della Scientifica, con accanto due agenti già in tuta bianca.

«Puntuali a complicare il mio lavoro?» esordì. «Mi raccomando, toccate ovunque, calpestate, fate come a casa vostra.»

«Per chi ci hai presi? Per metronotte?» replicò Soneri.

«Magari! Quelli hanno più rispetto.»

I due in tuta si erano già messi al lavoro. Il commissario fece per uscire dando un’ultima occhiata al cadavere. James, malgrado avesse sui quarant’anni, sembrava più vecchio. Era quasi calvo, salvo qualche ricciolo biondo sulla nuca, visibilmente sovrappeso e con la pelle grinzosa, forse bruciata da troppe lampade. Da come andava vestito, dava l’idea di uno che si ostina a voler passare per un ragazzo. Ai piedi aveva stivaletti da cowboy col tacco e sotto la giacca sportiva indossava una camicia a colori vivaci con disegni di cavalli in corsa.

Una volta fuori il commissario si rivolse a Musumeci.

«Che idea ti sei fatto?»

«Un lavoro brutale di uno che aveva in corpo tanto odio. Ma è solo un’impressione» si cautelò subito dopo.

«Spesso le prime impressioni sono quelle giuste» disse Soneri.

Sul viso dell’ispettore comparve un lieve sorriso. Nutriva una certa soggezione professionale per il commissario e ogni sua approvazione lo rallegrava.

Nel frattempo la folla sul marciapiede si era infittita e uno degli agenti della pattuglia aveva tirato la fettuccia bianco-rossa per contenerla. Soneri scrutò quelle facce incuriosite da lontano, nel tentativo di riconoscere qualcuno. Poi un’ambulanza fece irruzione nella via e si fermò poco più avanti. Molti se ne andarono a godersi uno spettacolo più attraente.

«Ha sentito? Siamo di nuovo alle prese con ’sto covid?» cambiò discorso Musumeci. «Sembra che il questore voglia obbligare tutti a indossare la mascherina.»

«Chiederò l’esonero, lavoro col sigaro in bocca, mi aiuta a riflettere.»

«Hanno tutti la strizza.»

Il commissario assentì mentre il capannello di curiosi si stava riformando. Guardò meglio e gli parve di scorgere dei visi familiari, solo più invecchiati. Fece un breve conto: erano almeno quindici anni che non tornava in quello che era stato il suo quartiere.

«Ha detto che uno ha già confessato?» domandò Musumeci.

«È venuto lui. O meglio, l’ho trovato…» Soneri s’interruppe colto dall’imbarazzo. «È una cosa complicata. In tanti anni…»

L’ispettore lo scrutò incuriosito senza capire, ma decise di lasciare perdere perché in quel momento comparve il magistrato Margherita Falchieri. Il commissario si sentì sollevato: con lei c’era un’intesa collaudata e almeno non avrebbe dovuto inciampare in equivoci e incomprensioni. Avanzò decisa facendosi largo tra i curiosi e i suoi tacchi risuonarono sulle mattonelle del viottolo.

«Ci vuole un delitto per rivederla» lo salutò con un sottofondo di bonario rimprovero.

«Il palazzo di giustizia è un posto poco raccomandabile» si scusò Soneri.

La donna sorrise fissandolo, come a confermare di aver capito. Il commissario la guardò entrare osservando la sua figura minuta ma a suo modo carismatica. Ogni volta che compariva, tutto intorno a lei si metteva in movimento per uno strano magnetismo. Soneri attese sul terrazzino davanti alla porta blindata che mostrava la cicatrice della fiamma ossidrica. Dopo un quarto d’ora ricomparve la Falchieri.

«Che cattiveria!» esclamò schifata. «Una vera macelleria. Ma forse proprio per questo mi sembra un caso semplice.»

«Semplicissimo» disse il commissario. «Già risolto.»

La Falchieri lo interrogò con lo sguardo: «È una delle sue stranezze? Dovrebbe sapere che non sono brava con l’enigmistica».

«Dico davvero» riprese Soneri. «Risolto prima di trovare il cadavere.»

«Un caso unico» constatò la donna sorridendo incredula. Poi si fece seria: «Fa freddo, è meglio che veniamo al dunque».

«Ci siamo già. Quel che ho detto è vero. Poche ore fa un tizio è venuto da me e ha confessato. È stato lui a far trovare il cadavere.»

La Falchieri si appoggiò alla ringhiera pensosa. Non sembrava convinta.

«Nemmeno io ci credevo all’inizio» proseguì il commissario. «Ho mandato qui Musumeci e l’abbiamo trovato» aggiunse indicando l’interno. «Oltretutto, le sue informazioni paiono perfettamente calzanti.»

«E chi è questo tipo?»

«Si chiama Ferrari, ha sessantotto anni e non ha l’aria di un assassino.»

«Si è presentato in questura per confessare?»

«Non proprio» rispose Soneri inciampando nell’imbarazzo. «È tutto più complicato.»

La donna sbuffò infilando il braccio nel manico della borsetta che teneva in mano predisponendosi ad ascoltare.

«Sentiamo» disse. «Certe volte ho l’impressione che o lei va a cercare le stranezze o loro vengono apposta a sbatterle addosso.»

«Stamattina passavo dalla Cittadella e mi sono imbattuto in uno che dormiva su una panchina. L’ho scrollato temendo che si assiderasse e da lì è cominciato tutto.»

«Non sono le stranezze a venirle addosso, penso che lei abbia un’immaginazione così potente da trasformare i suoi pensieri in realtà.»

«Il fatto è che quello ha cominciato con una tiritera sulla mancanza di attenzione per il prossimo, sulle offese che non sono punite dal codice e via cantando. Quando stavo convincendomi che fosse un mitomane, paf! Mi butta lì che ha ucciso un uomo.»

«Paf! Così!» ripeté la Falchieri come per fargli il verso.

«Proprio» replicò serio il commissario. «So che è strano, e anch’io stavo per mandarlo a quel paese, ma poi lui mi fa: “È in via Carmignani 8”, con tanto di nome, cognome e persino nomignolo.»

«Se non fosse lei, anch’io sarei tentata di mandarla a quel paese.»

«Appunto. Mi sembrava una mano di poker e io ho chiesto di vedere. Be’, Ferrari aveva in mano sul serio le carte vincenti. Il cadavere c’era davvero e quella che mi sembrava la più grossa panzana è diventata una grana» concluse Soneri calcando il tono sulla rima.

«E bravo il nostro poeta!» esclamò la Falchieri. «Però ha ragione. Per quanto il suo racconto assomigli al delirio di un ubriaco, c’è un cadavere, questo è oggettivo. La prima cosa da fare è accertare che quell’uomo sia davvero quello… Com’è che si chiama?»

«Malvisi.»

«Ecco, lui. Accertiamolo. Ci sono anche troppe bizzarrie in questa storia. Nanetti mi ha detto che addosso non aveva documenti, ma mi pare facile verificare: basterà aprire qualche cassetto. Dov’è adesso ’sto…»

«Ferrari» suggerì il commissario. «È in questura, nel mio ufficio. Gli ho detto che mi aspetti lì.»

«Cos’è? Gli ha dato un appuntamento come per andare al cinema?»

«Stia tranquilla, non si muoverà.»

«L’ha fatto piantonare?»

«Non proprio, ma sarà lì quando torno.»

«Lei mi sorprende sempre. Almeno non mi annoia mai.»

«Questo mi sembra un gran merito. La noia è la cosa peggiore che ci possa capitare.»

La piemme sorrise di nuovo e assunse quell’aria trasognata che mostrava spesso. Soneri intuiva che in quei momenti la sua mente volava lontano sfuggendo all’incombere dei fatti, come capitava a lui. Forse era quella la loro dote migliore.

Soneri affidò le incombenze del caso a Musumeci e s’incamminò verso l’auto. Ancora una volta evitò di guardarsi troppo attorno per scongiurare l’assalto dei ricordi. Un quarto d’ora dopo parcheggiò nel cortile della questura ed entrò in ufficio. Fu a quel punto che vide Ferrari seduto sulla stessa sedia e di fronte a lui una donna che riconobbe immediatamente.