Il mattino dopo Soneri trovò sul tavolo i risultati dell’autopsia. Niente che il medico legale non gli avesse già anticipato, salvo il fatto che James aveva le mucose del naso ormai fuori uso dallo sniffo di cocaina. Finì di leggere, quindi alzò il telefono e compose il numero interno di Musumeci. Dopo qualche istante l’ispettore entrò nell’ufficio. Il commissario lo squadrò notando l’aria stanca e la giacca stazzonata.
«Un’altra notte brava?» domandò.
L’altro alzò le spalle con l’aria di compiacersi per la fatica sostenuta.
«Ricordi che occorre dare un’occhiata all’appartamento di Malvisi? Bisognerà farci un giro. Portati anche uno della Scientifica, forse ce ne sarà bisogno» ordinò Soneri. E vedendo che l’ispettore restava impalato in mezzo alla stanza poco entusiasta aggiunse: «Non trovi che sia doveroso?».
«C’è ancora qualcosa da chiarire?» domandò Musumeci.
Il commissario rivolse la stessa domanda a se stesso. Aveva la sgradevole sensazione di essere l’unico a cui interessava la vicenda.
«Non lo sapremo fino a che non andremo fino in fondo» disse.
L’ispettore annuì. Dopotutto, un giro in borgo Salnitrara gli avrebbe permesso di schiodarsi dalla questura, farsi una passeggiata guardando le ragazze e sedersi in un bar per completare il risveglio.
Il commissario attese un po’ fumando, fino a quando un agente gli recapitò la circolare del prefetto che imponeva l’uso della mascherina negli uffici. A quel punto si alzò stizzito e uscì. Camminando si ricordò che avrebbe dovuto fare visita a Ferrari. Oltrepassò di nuovo il ponte di Mezzo fermandosi a osservare la famiglia di nutrie che pascolava nel greto del torrente e imboccò via Bixio. L’uomo abitava in fondo alla strada, quasi a ridosso di Barriera San Francesco, in una delle case a stecca con le persiane e il cornicione ingentilito da sculture floreali. Salì al primo piano dove lo accolse una signora sui sessanta con una lunga veste e uno chignon a treccia da istitutrice. Dietro di lei sbucò dalla cucina Ferrari.
«Mia sorella Artenice» la presentò senza che la donna aprisse bocca.
Dentro c’era odore di minestrone e quel sentore di stantio che emana da mobili di noce, muffe d’umidità e residui di naftalina tra vecchi cappotti. Tutto pareva d’annata: le porte laccate di bianco coi vetri a quadrettini, le maniglie dalla cromatura ormai opaca, le pareti stinte con aloni scuri sopra i grossi termosifoni di ghisa. Più che una casa, dava l’idea di una tana, un luogo esclusivo celato al mondo dove si era conservata immobile un’umbratile modestia da primo dopoguerra.
Artenice lo fece accomodare e gli offrì il caffè. Anche il vassoio di peltro era opaco e le tazzine di maiolica mostravano venature come mani di vecchi.
La cucina era stretta e lunga. Da una parte c’era la tavola addossata alla parete, dall’altra i fornelli, il lavello e i pensili. Soneri si sentì a disagio in quella situazione senza scopo. Il silenzio dei due fratelli rendeva ancora più assurdo l’appuntamento. A un certo punto Artenice si eclissò e il commissario restò solo con Ferrari.
«Allora? Cosa voleva dirmi?» si decise alla fine Soneri.
L’uomo esitò per alcuni istanti: «Anche lei ritiene questo caso completamente risolto?».
«Cosa significa? Intende ritrattare?»
Ferrari scosse la testa: «No. Volevo che lei capisse per intero».
«Perché non l’ha spiegato al magistrato?»
«Non servirebbe. L’indagine è un’altra cosa.»
«Io faccio indagini, solo quelle» precisò il commissario.
«Lo so, lo so… Ma fin dal momento in cui si è interessato a me su quella panchina, ho pensato che lei non fosse solo un funzionario di polizia.»
«Però lo sono. Chi altro potrei essere? Non siamo nemmeno amici. Non ci conoscevamo prima di quell’incontro.»
«Sì, è vero. Potrei sembrarle un pazzo, ma le assicuro che sono lucidissimo.»
«Non mi ha ancora detto perché mi ha voluto qui.»
«Perché penso che stiate sbagliando tutto.»
«È un modo per dirmi che ha mentito?»
«Non intendo riferirmi a quello: confermo tutto.»
«Un’inchiesta è un procedimento molto semplice: c’è un morto e si deve scoprire chi l’ha ucciso, ecco tutto. Questo è il mio mestiere.»
«Semmai questo è il mestiere dell’ingenuo scrittore di gialli. Lei sa bene che non è tutto.»
«Se allude al fatto che un crimine è qualcosa di molto più complesso, allora sì, credo che lei abbia ragione. Ma io sono un poliziotto. E i poliziotti sono ingenui per dovere.»
Ferrari sorrise: «Non intendo sovvertire il suo modus operandi. Ciò che voglio dire è che per buona parte dei casi vi sembra di fare giustizia, ma vi illudete. Spesso scambiate la vittima per l’assassino. Mancate di quella provvidenziale dose di scetticismo che vi distoglierebbe dall’apparenza per mostrarvi una realtà differente».
«A noi spetta la valutazione dei fatti. Nel suo caso, lei che ha trafitto quindici volte Malvisi. Solo questo appare oggettivo per la legge.»
«Oh! Certo! Io sono senza dubbio colpevole» ammise l’uomo in tono retorico. «Questa è l’evidenza. Ma crede che si risolva tutto così?»
«Probabilmente no» ammise il commissario. «Ma il resto non mi compete.»
«È qui che sbaglia. Si sente davvero un inquirente, trascurando il resto?»
«So stare entro i confini che mi sono assegnati, ma nulla mi impedisce di essere compassionevole.»
«Questo è il primo passo per uscire dai confini: essere partecipi di una passione, capire l’altro, anche chi uccide. È a questa parte di lei che voglio parlare.»
«Mi ha fatto venire qui per questo?»
«Le pare poco? Nessun altro si è fermato quella mattina in Cittadella. Lei, invece, ha condiviso la mia situazione e l’ha fatto. Ecco perché ho desiderato vederla.»
«È del tutto inusuale, o forse persino inopportuno, che un commissario parli di queste cose con un assassino» precisò Soneri.
«Lasci perdere! Non cambierà niente della vicenda giudiziaria. Volevo solo che lei capisse. Che volgesse lo sguardo anche verso quel magma ribollente che porta a questi esiti. Se lo osservassimo attentamente, ci accorgeremmo che siamo un po’ tutti, chi più chi meno, degli assassini. E contemporaneamente delle vittime. È questo miscuglio imperscrutabile di bene e di male a confonderci. E per questo la legge ha bisogno di distinguere. Ma la sua rigidezza formale non si adatta alla molteplicità dell’umano. I fatti sono pieni di diavoli e angeli che se le danno di santa ragione.»
«Lei, quindi, si assolve? Anche se hanno prevalso i diavoli.»
Ferrari rimase perplesso. Poi sul suo viso ricomparve la consueta espressione serena.
«Sì» rispose l’uomo. «Potrò sembrarle cinico, ma non provo sensi di colpa. O almeno non quelli che può considerare un commissario.»
«Sinceramente» disse Soneri «la sua serenità mi sorprende. Per molti versi mi è oscura.»
«Si ostina a guardare le cose da ingenuo» osservò deluso Ferrari.
«Al contrario» ribatté Soneri, «le sto guardando dal punto di vista umano.»
L’uomo sembrò colpito e tacque, abbassando lo sguardo sul pavimento. Il commissario lo fissò e ne dedusse che fosse afflitto. Per la prima volta lo scopriva turbato. Quando entrambi tornarono a rialzare lo sguardo, comparve Artenice, come al solito muta e per questo vagamente inquietante. Seguì una pausa di silenzio interrotta dal suono del telefonino del commissario.
«Dottore, a casa di Malvisi c’è una donna» esordì Musumeci.
«E chi è?» domandò Soneri.
«Tal Eva Chomsky, una polacca.»
«Ti ha detto cosa ci fa lì?»
Sentì l’ispettore camminare per appartarsi.
«Dottore, a me questa dà l’idea di una zoccola» sussurrò poi.
«Considerando quanto te ne intendi tu, direi che è quasi certo» disse Soneri.
«Stava dormendo quando siamo arrivati. Anche questo mi pare eloquente.»
«Prendi le generalità e fatti spiegare che rapporti aveva con Malvisi, anche se ce li immaginiamo. Arrivo tra poco.»
«Devo andare» spiegò il commissario rivolto a Ferrari.
«Spero ritorni a trovarmi» rispose l’altro restando seduto dov’era.
Fu Artenice ad accompagnarlo alla porta. Sulla soglia la donna gli puntò addosso uno sguardo severo e al tempo stesso addolorato. Durò pochissimo. «Mio fratello è un uomo buono» mormorò. Furono le uniche parole che disse in quell’incontro. Soneri stava per replicare, ma lei chiuse velocemente l’uscio.
Scelse di passare dal Lungoparma. La casa di Ferrari gli aveva provocato un senso d’asfissia e appena uscito sentì il bisogno di respirare in uno spazio ampio come quella fenditura che il torrente si apriva tra le case della città. Nelle notti chiare di primavera, le luci dei ponti, le finestre illuminate e lo sguardo perso dentro l’oscurità brulicante, conferiva a Parma una vaga aria francese. Prima della greve mole mussoliniana di Teatro Due, svoltò in borgo Salnitrara, ne percorse il breve tratto in discesa e salì al piano. La porta dell’appartamento era aperta su un disordine da trasloco. Dentro, lungo il corridoio, erano impilati plichi di fianco alle porte che immettevano in un paio di camere e nel salotto. C’era odore di chiuso, di polvere e di fumo. Una casa modesta e triste che pareva sopravvissuta a una dignitosa esistenza, ma ora si mostrava spoglia e sbiadita come un vecchio affresco. Sui pochi mobili erano ammassati oggetti di tutti i tipi, e per terra altra cianfrusaglia appoggiata sul pavimento o dentro scatoloni di cartone. Soneri non capiva se era il frutto della perquisizione di Musumeci o se tutto fosse già così da sempre. Eva Chomsky era seduta in cucina di fronte all’ispettore, mentre l’agente della Scientifica, un professorino taciturno ed efficiente che accompagnava sempre Nanetti, trafficava in una delle stanze.
La ragazza possedeva una di quelle bellezze appariscenti e un po’ perfide che funzionano da esche nei night. Indossava una vestaglia lunga sotto la quale si intuivano le sue forme generose e osservava Musumeci con uno sguardo indispettito e altezzoso di sfida. Quando entrò Soneri, si girò verso di lui con una smorfia delle sue labbra carnose tra la delusione e il disprezzo. Quindi accavallò le gambe lasciando uno spiraglio da cui si scorgevano le sue cosce lisce e affusolate da ballerina.
Il commissario sfilò una sedia da sotto il tavolo e si sedette.
«In che rapporti era con Giacomo Malvisi?» chiese poi con calma.
«Ancora?» esclamò la ragazza spazientita. E prima di rispondere afferrò il pacchetto delle sigarette, accendendosene una.
«Sono sua amica» rispose infine con l’accento lievemente stridulo dell’Est.
«Abita qui?»
«Non vede?» rispose mostrando se stessa in vestaglia.
«Voglio dire stabilmente» precisò Soneri calmo.
«Vengo spesso. James è amico.»
«Dove lavora?»
«Hoba hoba bar: faccio cameriera dietro banco.»
«È un locale nell’area commerciale ex Salamini, vicino alla tangenziale in direzione di San Lazzaro» intervenne Musumeci lasciando intendere che lo conosceva piuttosto bene.
«Saprà cos’è successo al suo amico…»
«Detto tutto lui» fece la ragazza indicando l’ispettore senza tradire la minima emozione.
«Quando l’ha visto l’ultima volta?»
Eva attese qualche istante prima di rispondere. «Due giorni. Lui passato pomeriggio verso le tre. Io lavoro notte e mattina dormo.»
«Era fidanzata con James?»
La ragazza si girò verso il commissario e alzò leggermente le spalle stupita da quella domanda.
«Io detto: lui amico» rispose infine.
Musumeci lanciò un’occhiata d’intesa a Soneri, invitandolo a lasciar perdere.
«Malvisi le ha mai parlato di minacce?»
Eva alzò lo sguardo verso il soffitto soffiando in alto il fumo senza girarsi. Il commissario ne scrutava il profilo in controluce, con la lunga coda di capelli neri che le penzolava dietro la nuca, e pensava che una donna così potesse avere un ascendente enorme su uno come Malvisi. Forse sulla maggioranza degli uomini a giudicare da come la guardava Musumeci.
«Tutti i posti uno come James poteva avere nemici» disse infine la ragazza.
«Per debiti? O per cos’altro?»
«Lui piaceva belle cose, bella vita» rispose genericamente lei. «Bella vita costa.»
«Si era ridotto male, l’avrà capito…»
«Lui sapeva come fare. Tante volte morto, tante volte ancora vivo.»
«Questa volta non credo» borbottò il commissario sottovoce. «Dove trovava i soldi?»
La ragazza alzò di nuovo le spalle: «Mai chiesto io. Mio mestiere dice non chiedere».
«Era un cliente dell’Hoba hoba?»
«Veniva spesso. Credo suo preferito, ma non solo.»
Soneri scambiò uno sguardo con Musumeci. Si capiva che la cameriera sapeva molto di più, ma non avrebbe aperto bocca. A quel punto entrò l’agente della Scientifica col suo fare che ne aveva del fratino. Eva lo squadrò con disprezzo. A lei dovevano piacere gli spacconi coi soldi tipo Malvisi.
«Io ho finito» disse a bassa voce.
«Anche noi» rispose il commissario.
«Frugato dentro mie cose» ringhiò Eva.
«Continueremo, se non vorrà raccontarci di Malvisi» le tenne testa l’ispettore alzandosi in piedi di fronte a lei con un sorriso di sfida.
Lei lo scrutò e gli rivolse a sua volta un sorriso identico.
Appena furono in strada Musumeci disse: «Ci vuole decisione, con quella».
«Ho capito che tu te ne intendi. L’hai già vista?»
«No, ma conosco il locale: è un posto per nottambuli dove girano coca e prostitute.»
«E tu ci vai a passare del tempo?»
«Un paio di addii al celibato, ma il più delle volte ci sono stato per controlli» minimizzò l’ispettore.
«E hai noleggiato una tipo Eva?»
«Dottore, con tutto il rispetto, mica ho bisogno di noleggiare. Anche se quella è un gran pezzo di…»
Soneri scosse la testa facendo cenno d’aver capito.
«Ma cosa stiamo a interrogare» riprese l’ispettore, «’sto caso è morto, no?»
«Lo faccio per te, Musumeci» rispose Soneri. «Preferiresti incontrare uno spacciatore tatuato e puzzolente? Qui ti lustri gli occhi. E non sono ancora convinto che tu non abbia delibato.»
«Ha notato come accavallava le gambe?»
«Mica sono di legno» rispose il commissario. «Ma ricordati che quella è il tipo “trappola”: appena degusti scatta la molla e non ne esci più.»