Nel tardo pomeriggio arrivò una telefonata da Pasquariello, il capo delle volanti.
«Ha chiamato il titolare di un’azienda, un tizio gli ha proposto un affare dubbio e, quando lui ha mangiato la foglia, quello s’è dato.»
«Credi che fosse il truffatore?»
«La descrizione fisica corrisponde.»
«Solo quello?»
«Non ti basta?»
«Hai mandato una pattuglia?»
«Sì, ma l’uomo era già sparito. Hanno perlustrato i paraggi: niente.»
«Dov’è successo?»
«Quartiere Montanara. Appena fuori dall’abitato c’è un piccolo insediamento di capannoni che si vede dalla strada.»
Soneri capì immediatamente. Conosceva alla perfezione quel lembo di periferia attraversato dal torrente Baganza e dallo sfregio della tangenziale. Chiuse la telefonata ringraziando Pasquariello e salì in macchina. Passato il ponte Dattaro si sentì a casa. L’oscurità non era un impedimento, immaginava il paesaggio senza vederlo. Scompariva il tempo e restava solo il mondo immobile dei ricordi.
Imboccò via Montanara, ora simile a una vena varicosa coi ridicoli rigonfiamenti dei mini rondò grandi quanto una moneta, e la percorse fino al diradarsi delle case. Più avanti, quasi allo svincolo della tangenziale, s’intravvedeva il Cinghio, un satellite della città nato durante la lievitazione urbanistica degli anni Settanta. Svoltò a destra, percorse un breve tratto sull’argine del Baganza e sfilò di fronte a numerosi capannoni fin quando lesse l’insegna che cercava: GCC, Giordano Cammelli costruzioni.
Il titolare era un tipo alto sui sessant’anni, incarnato scuro e capelli brizzolati. Sul biglietto da visita lesse che era ingegnere specializzato in costruzioni meccaniche. Si accomodarono dentro un box dalle cui vetrate si scorgeva l’officina. Una stufetta elettrica lottava invano con gli spifferi. Si sedettero a una scrivania. Dietro di loro incombeva un grande tecnigrafo.
Cammelli posò le mani tra le carte del tavolo come volesse far leva per spiccare un salto e disse: «Sono certo che quel tizio volesse truffarmi».
«È sicuro?»
«Ci aveva già provato con un paio di colleghi. Ci siamo passati parola: lo stesso metodo.»
«Avrebbe dovuto trovare un modo per chiamarci cercando di intrattenerlo.»
«Come avrei potuto senza insospettirlo?» si scusò l’uomo girando intorno lo sguardo a indicare lo spazio ristretto. «Ho atteso che uscisse e ho fatto subito il numero della questura.»
«Me lo descriva.»
«Alto, magro, un completo blu sotto il cappotto, una cravatta regimental.»
«Vada avanti. Il viso com’era?» lo interruppe il commissario.
«Aveva un paio di occhiali dalla montatura pesante, il pizzetto…» A quel punto l’uomo si interruppe, stupendosi lui stesso di non ricordare altro.
«I capelli? La barba? Il naso? Segni particolari? Nei? Sopracciglia folte?» elencò Soneri.
Cammelli rimase muto e imbarazzato. Non era strano. Il più delle volte i testimoni riuscivano a tenere a mente solo uno o due particolari, mai che ne facessero un quadro completo. Era una delle rare circostanze in cui il commissario riteneva utili i pettegoli.
«Purtroppo quando si cerca di ricordare…» balbettò. «È come quando si sogna: al mattino tutto sfuma.»
«Mi dica dei sospetti» cambiò discorso Soneri.
«Io tratto acciai speciali, materiali molto particolari» cominciò Cammelli mostrandosi stavolta più sicuro. «È roba da esperti.»
«E le è parso che quello non lo fosse?»
«Quando uno ti parla, ti accorgi se si è informato frettolosamente o se quelle cose le ha maneggiate a lungo.»
Il commissario annuì mostrando d’aver capito.
«E poi i prezzi…» riprese l’uomo. «Mi ha proposto barre di acciaio al cromo-molibdeno, al berillio e al vanadio come se si trattasse di banali tondini per l’edilizia. Ho pensato che o li aveva rubati o stava bleffando.»
«E ha immaginato quest’ultima possibilità.»
«Mi sono ricordato del racconto dei colleghi.»
«Ha visto che macchina aveva?»
«Una Mercedes Classe A» rispose prontamente.
«Targa?»
Cammelli scosse la testa. «Troppo scuro, non l’ho vista» si scusò.
«È sicuro che fosse la stessa persona che ha fatto visita ai suoi colleghi?»
«Forse. Anche da loro s’è presentato un tizio alto e magro. Però senza il pizzetto.»
«Rasato o con barba?»
«Uno mi ha detto che la barba ce l’aveva, l’altro no, e nemmeno gli occhiali. Insomma, parrebbero persone diverse» concluse confuso l’uomo.
Tornando, Soneri si scoprì preoccupato di aver messo un piede in quell’inchiesta che tutti schivavano come la rogna. Non voleva tirarla per le lunghe, ma si presentava più complicata del previsto. Gli premeva di chiuderla in fretta per non dar ragione a un paraculo come Calabritti. Si era persino dimenticato per un paio d’ore di Ferrari e del delitto Malvisi. Glielo ricordò Angela, quando si fece viva al telefono.
«Cosa mi dici di Ferrari?»
«Ti ha già informata?»
«È il mio cliente! E tu mi hai messo alle sue calcagna.»
«Lui cliente o tu confidente?»
«Mi avevi chiesto di captare i suoi pensieri e lo sto facendo. Come vedi, mi sono messa al servizio del potere.»
«Ti ha raccontato altro?»
«Forse quello che ha già raccontato a te.»
«Discussioni sul concetto di giustizia…» minimizzò Soneri.
«Ha molta voglia di chiacchierare. Specie con una donna.»
«Cosa intendi dire?»
«Credo che non ne abbia avute molte accanto. Forse nessuna. Solo quella suorina della sorella.»
«Lo immagini o lo sai per certo?»
«Intuito femminile. Voi uomini avete la combinazione facile, più delle valigie coi tre numeri e le rotelline.»
«Con Ferrari ti diverti» disse il commissario. «Non essere troppo crudele.»
«Mai stata crudele con gli uomini» fece lei ammiccante.
«Sì, invece. Ne ho ampia prova.»
«Se è vero, è perché ti è piaciuto che lo fossi. Ci sono uomini così, ma è strano per un poliziotto.»
«Dimmi cosa ti ha detto Ferrari» sviò Soneri.
«No. Te ne parlerò solo quando ci vedremo.»
«Lo vedi che sei crudele?»
«So fare anche di peggio» minacciò Angela congedandosi.
Era ormai buio da un pezzo e solo allora il commissario si accorse che era passata da un po’ l’ora di cena. Mangiò un panino frettolosamente e bevve un bicchiere di Sauvignon nel primo bar aperto che trovò, quindi salì in macchina e attese al volante accostato alla chiesa dell’Annunziata. Sperava di poter seguire la Mariani per capire il mistero di quelle sue passeggiate notturne. Intuiva che la donna aveva un legame stretto con i Malvisi. Il vecchio soprattutto, l’artefice della fortuna.
Attese una decina di minuti osservando i pochi passanti di via d’Azeglio: padroni di cani, pattuglie di ragazzi e qualche automobile. Si ricordò che nel retro dell’Annunziata c’era un teatrino dove la domenica pomeriggio suo padre lo accompagnava a vedere lo spettacolo dei burattini. Passarono dieci minuti senza che comparisse nessuno. Dopo mezz’ora la donna non si era ancora fatta viva, ma Soneri sapeva che il mestiere era fatto soprattutto di pazienza, attesa e accelerazioni improvvise. Finalmente vide comparire la Mariani con il solito cappotto e la borsetta stretta al fianco. Doveva conoscere perfettamente gli orari dei bus notturni perché aspettò solo pochi minuti prima che arrivasse. L’orologio della farmacia di fronte segnava le 22.35.
Il bus si avviò. Il commissario lasciò che prendesse un centinaio di metri di vantaggio e si mise in moto a sua volta. Inseguire un bus gli appariva ridicolo, ma a Soneri premeva controllare la fermata a cui la Mariani sarebbe scesa. Il mezzo procedeva lentamente. Superò il ponte di Mezzo, svoltò in viale Mariotti costeggiando il torrente Parma, quindi proseguì su viale Toschi oltrepassando il ponte Verdi tra il palazzo della Pilotta e il parco Ducale, sfilò di fronte alla pensilina delle corriere e approdò alla stazione. Soneri lo seguiva percorrendo le corsie preferenziali, inoltrandosi di nuovo verso il centro attraverso via Verdi, via Garibaldi, il teatro Regio e piazzale della Pace, per svoltare poi in via Mazzini e percorrere via Repubblica fino alla barriera. Ogni volta si chiedeva dove si sarebbe recata la donna, ma nelle rare fermate, più per rispettare gli orari che per qualche viaggiatore, la Mariani non si muoveva dal suo posto. A un certo punto superò il bus per controllare che fosse ancora a bordo. La vide seduta nei posti in fondo col cappotto, le braccia incrociate davanti a sé e le mani presumibilmente sulla borsetta appoggiata alle ginocchia. Seguì ancora il mezzo per una ventina di minuti, finché si trovò di nuovo in via d’Azeglio. Controllò l’orologio sul cruscotto e si rese conto che da oltre un’ora stava alle calcagna di un bus che adesso era ritornato al punto di partenza come nel gioco dell’oca. Soneri pensò che la donna forse voleva solo fare un giro per la città, benché gli apparisse bizzarro. Dunque si aspettava che scendesse dov’era salita. Al contrario, il bus accostò, aprì la porta anteriore, ma non scese nessuno. Il commissario lo seguì ancora fino alla prima svolta e quando il mezzo si mostrò di lato, vide di nuovo la Mariani seduta al solito posto, la testa che spiccava nel riquadro illuminato del finestrino.
Si fece un altro giro della città prima di mollare il colpo, restando appeso a interrogativi e sospetti. L’unica spiegazione che riuscì a darsi era che la donna si fosse accorta del suo inseguimento e non volesse rivelare dove andava. Forse aveva atteso di veder scomparire l’auto del commissario per scendere. Altre motivazioni non ne trovava, a meno di non uscire dal campo di pertinenza della logica. E lui sapeva benissimo che l’umano spesso deragliava in quello sconfinato territorio senza strade né sentieri dove a guidare era una bussola ubriaca sotto un cielo privo di stelle. Investigare diventava a quel punto scalare una parete senza corde: solo perseveranza, intuizione e molta fortuna.
Lo colse allora una sensazione di ebbrezza. Parcheggiò e guardò il cielo che si era abbassato fino a posarsi dolcemente sui tetti accarezzando la città. Nessuna stella, nessun riferimento, solo il suo vagare solitario. Aveva bisogno di passeggiare. In via Farini gruppi di giovani bevevano racchiusi in verande trasparenti riscaldate da fiamme bluastre che guizzavano dentro teche di vetro. Superata la vecchia sede della Banca d’Italia, la via ripiombava nel silenzio. Soneri s’inoltrò sotto un breve tratto di portico buio per poi svoltare verso borgo Felino fino a che si trovò di fronte la vetrina illuminata di un locale che conosceva: La bottiglia azzurra. Dentro, solo pochi clienti e tanti tavoli vuoti ancora con i resti delle consumazioni. In uno il commissario riconobbe Sbarazza. Pareva a suo agio, con la consueta disinvolta eleganza. Soneri si accostò al tavolo e notò sul bordo del bicchiere che l’uomo teneva in mano i segni di rossetto lasciati dalle labbra di una donna.
«Qui hanno un ottimo cognac» salutò Sbarazza mostrando la coppa e invitando il commissario a sedersi con un gesto da ballerino.
Soneri si accomodò dalla parte di tavolo dove erano rimasti una tazza vuota, un bicchiere e un tovagliolo accartocciato tra molte briciole. Sbarazza, invece, degustava a impercettibili sorsi il liquore. Da nobile finito in miseria frequentava locali in cui poteva approfittare di consumazioni lasciate a metà da ragazze e giovani donne. Del suo passato conservava il galateo e una naturale solennità mondana.
«Mi chiedevo dove fosse finito» disse Sbarazza, «era del tutto scomparso dai radar.»
«Sempre su piazza» rispose Soneri.
«Ho temuto le fosse successo qualcosa. Questa città ha dei modi molto subdoli di far fuori le persone: non le uccide, le emargina.»
Soneri ebbe l’impressione che parlasse per sé notando i suoi abiti di alta sartoria, ma ormai lisi, con le maniche lustre ai gomiti e i colletti logori.
«Non mi sono mosso dal mio posto» lo rassicurò Soneri.
«Anch’io» sorrise tristemente Sbarazza, «sempre nobile dentro e poveraccio fuori.»
«Molto meglio della ricchezza sguaiata» considerò il commissario.
«Almeno so immaginare» continuò con gli occhi rivolti al soffitto. «Quando è arrivato lei mi figuravo in compagnia della ragazza che era seduta qui mezz’ora fa. Mi ha suggestionato il suo profumo. È tutto quello che mi ha lasciato in eredità, oltre a questo ottimo cognac.»
«Ho interrotto un’emozione, quindi…»
«Si possono raggiungere vertici di piacere impensabile con l’immaginazione. Ho posato le labbra sull’orma del rossetto ed è stato come se la baciassi.»
«Non pensavo di trovarla qui» disse Soneri.
«Prima ho mangiato al ristorante» fece notare con naturalezza Sbarazza. «Là ho avuto il piacere di sedermi nel posto appena lasciato da una splendida signora di cui ho apprezzato l’aroma di sandalo. Il tovagliolo ne era zuppo e me ne sono ubriacato. Mi è sembrato di rotolarmi nell’erba con lei.»
«Viene spesso qui?» domandò Soneri. «Spero che l’accolgano bene.»
«Qui, sì, altrove non sempre» mormorò l’uomo abbassando per un attimo gli occhi. «C’est la vie!» si risollevò subito dopo. «Non possiamo pensare che il mondo sia pieno di pazzi come me» concluse con un sorriso.
«Fossero tutti pazzi come lei!» minimizzò il commissario.
«Sono un francescano senza saio. Ho dato tutto per il prossimo. Cos’è dedicarsi all’arte se non quello? Ho comprato quadri, finanziato artisti, devoluto soldi per musei e fondazioni. Un pazzo!»
Soneri fece un gesto per smentirlo.
«Lei, invece, è un uomo concreto. Si vede anche da quel che beve» riprese Sbarazza indicando il bicchiere di grappa che il commissario aveva ordinato.
«Semplice differenza di estrazione sociale» ribatté Soneri. «Io vengo dalla terra, lei dai palazzi.»
«Lasci stare!» alzò le spalle l’uomo. «Tutto viene dalla terra. Di cosa si sta occupando?»
«Truffe.»
«Io me ne intendo!» scoppiò a ridere. «Ama gli altri e sarai truffato. Solo l’odio ti mette al riparo.»
«Tutti ne abbiamo avuto un saggio.»
«Io non sono riuscito a difendermi.»
«Chi l’ha ingannata?»
«Falsari, compravendite, assegni a vuoto… Di tutto. Al mondo ci sono due generi di persone: quelle che pensano gli altri malvagi e per questo ne diffidano a priori e quelli che pensano che la malvagità debba essere dimostrata. Nel primo caso si previene, nel secondo ci si rode il fegato dopo. Indovini a quale categoria appartengo?»
«Non sembra che lei ci abbia rimesso il fegato.»
Sbarazza lo fissò con un sorriso amaro e rimase in silenzio. Ma era come se avesse parlato.
«Quali sono le truffe che sta seguendo?» domandò poi.
«C’è un tizio, o forse più d’uno, che propone affari appetitosi, incassa anticipi e sparisce.»
«Pensavo qualcosa di più fantasioso.»
«Di fantasioso ci sono solo i travestimenti. Per il resto pesca dal repertorio classico.»
«Un po’ se lo meritano, ’sti minchioni» ghignò Sbarazza. «Crede che gli imprenditori siano intelligenti? Mi sono convinto che per fare soldi occorra essere solo cinici, e anche un po’ stupidi. Le pare possibile che uno sprechi la vita per accumulare denaro?»
«È una motivazione come un’altra» considerò Soneri. «Meglio che stare tutto il giorno dietro a ladri, assassini o integerrimi delinquenti.»
«Sacrificano tutto per il denaro. Fanno compromessi danzando dentro e fuori dall’illecito e per ripararsi si affidano a quella schiuma putrida di avvocati, commercialisti, tributaristi… Gente sordida che maneggia i codici come carte da gioco. Ma alla fine non sono mai felici» concluse con ilare disprezzo Sbarazza.
«Conosce un certo Malvisi?» domandò Soneri per un’improvvisa associazione di idee.
«Il vecchio Venanzio o il figlio? Ho saputo che è finito male.»
«Conosceva tutt’e due?»
«E chi non li conosceva? Venanzio faceva di tutto per stare nell’ombra ma i soldi l’hanno messo sulla ribalta, il figlio voleva starci, ma i debiti l’hanno fatto scendere.»
«Mi sembra un’ottima sintesi.»
«Il vecchio è nato povero, ha studiato dai preti, poi è diventato ragioniere alle scuole serali. Ha cominciato nel ramo delle assicurazioni, ma l’attività più redditizia è stata quella della gestione patrimoniale. Soddisfare l’avidità altrui tenendo per sé il grasso che ne cola è una delle attività più gratificanti. Gli spilorci ti fanno gli inchini, s’inginocchiano come ai piedi della Madonna.»
«Un uomo abile, persino ammirevole» commentò Soneri.
«I poveri sentono la disperazione vicina e fanno di tutto per allontanarla. Qualcuno ci riesce, ma senza sentirsi mai al sicuro. Per questo niente gli basta mai. È così che nascono le grandi imprese. Invece chi nasce ricco non farà niente se non cercare di conservarsi nella condizione in cui è. Certuni non ci riescono» terminò in tono dolente Sbarazza.
Il commissario lo fissò, poi distolse lo sguardo e non disse niente.
«Incarno i tempi» proclamò poco dopo l’uomo fingendo allegria. «Non è così questo Paese? Schiere di contadini affamati l’hanno costruito sfasciandosi la schiena nelle fabbriche e ora i figli e i nipoti stanno consumando allegramente tutto il grano accumulato. Non è la mia storia questa?»
«Piuttosto è quella dei Malvisi» osservò il commissario.
Sbarazza rifletté per qualche istante. «Almeno io ho sperperato tutto per ingenuità e una buona causa.»
«James molto meno da quel che so» disse Soneri.
«Anche sperperando si possono avere dei buoni o cattivi obbiettivi. Un ingenuo amante dell’arte come me non può essere paragonato a un puttaniere crapulone.»
«James era questo?»
«Dei piaceri non si faceva mancare niente. Come me, del resto. La differenza sta tutta nel tipo di piaceri che si cerca. Io li cercavo nei musei, lui nei night.»
«E il padre? Tollerava tutto ciò?»
«Venanzio? Era il contrario. Casa, lavoro e messa domenicale. Mai saputo di scappatelle. Ma forse non era nemmeno interessato alle donne. Stava in ufficio fino a tardi e talvolta riceveva i clienti anche di domenica. Era rimasto molto vicino ai preti, che gliene procuravano tanti. Sa quei bigotti che fanno porcate tutta la settimana e poi si lavano la coscienza facendo offerte per il restauro del tetto della parrocchia?»
«È da questa irreprensibilità che nascono i peggiori comportamenti» rifletté Soneri.
«Storie molto comuni» minimizzò Sbarazza.
«Conosce Roberto Ferrari?»
«Quello che ha fatto fuori Malvisi? Ho visto la sua foto sul giornale.»
«Proprio lui.»
«Mi pare di aver visitato una sua mostra fotografica tempo fa. Dai saveriani, in viale San Martino.»
«Quando? Non sapevo di mostre.»
«Ormai è un po’, ma non ricordo precisamente. Erano immagini dell’Africa. Non male. I fotografi, con altri mezzi, sono dei narratori. Qualche volta pittori.»
Il commissario restò sorpreso.
«Non pensavo che una persona così timida e schiva potesse mettere in mostra le sue cose» fece Soneri ancora incredulo.
«Siamo prismi di cristallo che il tempo ruota. Riflettiamo di continuo un’immagine diversa» disse infine Sbarazza.