12

A un tratto videro uscire la Mariani. Era vestita col solito cappotto e le scarpe col tacco basso per camminare più svelta. Quando chiuse il cancello e s’avviò verso via Bixio, il commissario notò di nuovo che passava la borsetta sul braccio dal lato opposto rispetto alla strada, una precauzione antiscippo.

«Potremmo prendere l’autobus anche noi» propose Angela.

«È meglio se aspettiamo» rispose Soneri pensoso.

«Vuoi stare a prendere freddo?» protestò lei.

«Abbiamo tante cose da vedere» sorrise Soneri.

Angela lo squadrò, incerta se considerarla una battuta o una reale intenzione.

«Vieni» disse lui. E dopo aver pagato, uscirono nel gelo della notte.

«Sono curiosa di cosa mi mostrerai che non conosco» disse la compagna animata da una piacevole ansia.

«Le città di notte ci appaiono sempre un po’ straniere» spiegò Soneri. «Il buio le cambia, e non c’è mai lo stesso buio. Anche noi siamo sempre un po’ diversi e sfuggenti.»

«Non torniamo sul vecchio discorso» lo pregò Angela.

Da via Bixio giunsero in via d’Azeglio e l’attraversarono imboccando i borghi dell’Oltretorrente. Passarono davanti alla vecchia sede dell’anagrafe, dove per anni era stato custodito l’alfabeto della città, poi alla casa di Arturo Toscanini, una delle tante anime smarrite dell’antifascismo parmigiano. La brezza agitava lievemente la fumana e a un certo punto portò alle loro orecchie degli spezzoni di musica. Svoltato l’angolo si trovarono di fronte la Corale Verdi.

Entrarono mentre le ultime note svanivano. La sala ristorante tappezzata di quadri del maestro era occupata per intero da gente ai tavoli e i camerieri facevano la spola carichi di piatti. Il profumo del cibo ricordò loro di non aver cenato. Si sistemarono sugli sgabelli al banco e ordinarono torta fritta, prosciutto e grana. A corredo una bottiglia di lambrusco che, in onore al locale, si chiamava Otello. Nella sala c’era un piccolo palco che a un certo punto si illuminò. I commensali ammutolirono e l’attenzione cadde su un tizio un po’ curvo vestito con colori sgargianti da clown e un cappello a cilindro viola. Si presentò come Pino Silvestre e cominciò a dispensare battute alternando l’italiano col dialetto. Il pubblico sembrava apprezzare, sottolineando con risate e applausi lo spettacolo. Durò una decina di minuti, poi l’attore si ritirò il tempo di lasciare che i camerieri servissero il dolce. Quindi ricomparve, stavolta vestito da montanaro con i pantaloni alla zuava, camicia a quadrettoni e un cappello con la piuma. A ogni uscita interpretava un personaggio diverso e recitava battute in tono. Quando si ripresentò per l’ultimo atto, dopo il caffè e l’ammazzacaffè, si era cambiato di nuovo mostrandosi vestito da zitella pettegola, sciorinando una serie di maliziosi luoghi comuni sul sesso.

Angela sbuffò: «Vorrebbe far ridere?».

Eppure la gente in sala, perlopiù coppie di anziani, si divertiva e applaudiva. Soneri si girò verso il ragazzo che stava dietro il banco.

«Chi è l’attore?» chiese.

«Si chiama Renzo Zerbini.»

«Viene spesso qui?»

Il ragazzo sorrise con un’occhiata d’intesa: «A un certo tipo di pubblico piace».

Il commissario sorrise a sua volta.

«Magari costa poco» considerò.

L’altro sorrise di nuovo e se ne andò senza aggiungere niente.

«Vedi? La città è già cambiata da prima» disse Soneri appena furono fuori.

«Tu la vedi così. Io la trovo uguale.»

A tratti la nebbia incupiva i borghi. Si diradò nello slargo della Rocchetta attorno al monumento a Filippo Corridoni. Stretti fianco a fianco, arrivarono davanti all’Annunciata e aspettarono l’arrivo del bus notturno.

«Ne approfitterò per scendere vicino a casa mia» fece Angela. «Vedo che stasera preferisci restare commissario» aggiunse soffiandogli le parole nell’orecchio per eccitarlo. L’invito rimbalzò contro un grumo di interrogativi che Soneri non riusciva a sciogliere. E per quello si era incupito di colpo.

«Avevi detto che non saremmo tornati su quel discorso» replicò contrariato.

Allora lei si staccò e rimase in silenzio finché arrivò il bus.

Una volta a bordo, il commissario cercò la Mariani. Era seduta nello stesso posto della notte precedente con la borsetta appoggiata sulle ginocchia e le mani intrecciate sopra. La donna diede un’occhiata furtiva ai nuovi arrivati, ma pareva non le interessasse chi saliva o scendeva. I suoi occhi erano puntati sulla città che lei sfiorava con lo sguardo dando l’idea di provarne sollievo.

Il commissario sedette nella fila di destra, mentre Angela scelse la parte opposta. Poco prima gli aveva sussurrato che avrebbero dovuto parere due estranei per dar meno nell’occhio. In realtà quella distanza riassumeva la freddezza che si era improvvisamente insinuata tra loro e che entrambi non avevano saputo fugare. A un certo punto, Angela si alzò, fece un gesto furtivo di saluto e scese. Quando il bus ripartì, Soneri sentì salirgli il rammarico e lo invase un senso di disperante solitudine. Era paradossale misurare l’affetto da quel disagio profondo. Cercò di dimenticare il vuoto improvviso che provava derubricandolo a quei periodici malumori che apparivano scontati come i raffreddori d’inverno. Si girò di fianco sul sedile per poter scorgere di sbieco la Mariani. Fece finta di osservare lo schermo del cellulare volgendo di tanto in tanto gli occhi sulla donna.

Lei appariva impassibile, lo sguardo fisso oltre il finestrino sulla città quieta, sulle strade deserte come torrenti in secca. Emanava un’aura di mistero che attraeva irresistibilmente il commissario. Quest’ultimo si girò del tutto di lato, appoggiò la nuca al finestrino e finse di dormire per poterla osservare con le palpebre semichiuse. Cercava di distinguere le espressioni del suo viso, che variavano impercettibilmente di volta in volta. A tratti i lineamenti sembravano contrarsi in un lieve sorriso, a tratti rabbuiarsi. Andò avanti così per mezz’ora, in quel fermo immagine tra il ronzare del motore e i sobbalzi del bus. Poi successe qualcosa di insolito. Lasciata la stazione, imboccarono via Verdi, quindi svoltarono in via Affò e in quel momento la Mariani si chinò in avanti staccando la schiena dal sedile, si curvò per osservare meglio passando la mano sul finestrino là dove era leggermente appannato. Soneri tentò invano di immaginare il perché di tanto interesse. Avrebbe voluto affrontare la donna e chiedere, ma si rendeva conto che sarebbe stato uno sbaglio. Così come sarebbe stato uno sbaglio restare troppo su quel bus. Rischiava di far insospettire la Mariani di fronte a quello strano passeggero che, come lei, viaggiava senza mai scendere. Così si alzò, finse d’essersi svegliato di colpo e saltò sul marciapiede. Osservò il bus sfilare davanti a lui e dal finestrino dietro il quale era seduta la donna scorse il suo sguardo passare oltre e posarsi sul fondale di case a ridosso della strada. Il commissario rimase impalato per qualche secondo, poi, girandosi, si trovò di fronte il colonnato del teatro Regio.

La notte dormì male. Il litigio con Angela, la Mariani che viaggiava nel buio e l’inchiesta che non si risolveva lo rendevano inquieto. Si alzò presto ritrovando la stessa oscurità di quando si era coricato. L’alba, col suo carico di aspettative, accentuava l’ansia che l’aveva tenuto sveglio. Uscì e camminò per sfogare l’inquietudine finché vide spuntare una luce grigia sulla cupola della chiesa della Steccata. Solo la telefonata della compagna riuscì ad allentare il malumore.

«Com’è andata con la Mariani? L’avrai mica abbordata» chiese lei scherzosa.

«Avrebbe pensato male di me. Troppo banale un approccio sull’autobus. Mica voglio rovinarmi la reputazione» rispose con lo stesso tono il commissario di colpo rasserenato. Angela sapeva confinare i malumori dentro le pause naturali del loro rapporto senza che si spargessero, avvelenando a lungo l’umore di entrambi. Sapeva voltare pagina ed era quel che ci voleva per Soneri.

«Non è mai scesa» aggiunse. «Io ho dovuto farlo per non insospettirla.»

«Sei riuscito ad appassionarmi» riprese lei. «Ho in mente un gioco che potremmo fare io e te.»

«Quale sarebbe?»

«Potremmo salire e scendere separatamente dal bus notturno quando c’è quella donna. Ci fingeremmo passeggeri casuali che vanno e vengono nella notte, ritrovandoci insieme una volta da una parte, una volta dall’altra come due estranei che si conoscono lì. Poi scendiamo alla stessa fermata e saliamo da me. Mi eccita già pensarci.»

Il commissario disse che gli sarebbe piaciuto, anche se pensava che non avrebbe portato a nulla, eccetto una stuzzicante conclusione di serata a casa di Angela. Ma fu la promessa con cui si congedarono. Subito dopo, una segnalazione lo distolse nel momento in cui stava chiedendo a Juvara novità sul computer di Malvisi. Al centralino un tal Pezzani, commerciante di formaggi all’ingrosso, aveva segnalato la visita di un tizio che gli aveva proposto l’acquisto di una partita di fontina chiedendo un anticipo piuttosto cospicuo. Si fece dare l’indirizzo: l’ufficio era in borgo Tommasini al 12, a due passi dalla questura. Pezzani, un uomo sui quarant’anni, lo accolse ostentando calma.

«Nel mio settore ne ho incontrati parecchi di questi imbonitori e so come trattarli» esordì l’uomo assumendo un’aria vissuta.

«È sicuro che fosse lo stesso tizio che stiamo cercando?»

«Non del tutto. Questo era alto, ma non certo magro.»

«Robusto? Con la pancia?»

«Con la pancia. Sa quei ventri da bevitori che paiono gravidi?»

Soneri, deluso, restò in silenzio per qualche istante.

«L’ha visto in viso?»

«Aveva la mascherina. Sa che adesso è di nuovo obbligatoria al chiuso. Lei, per esempio, dovrebbe indossarla.»

«Con che nome si è presentato?»

«Zambeccari, Zanlari… Una roba del genere. Ho capito subito che era un peracottaro: scarto a priori chi mi propone prezzi stracciati ed è persino disposto a renderli trattabili» spiegò Pezzani.

Il commissario pensò alla mascherina. Adesso che bisognava indossarla, i delinquenti la usavano per non farsi riconoscere. Erano già al terzo rapinatore che si presentava con un gran bavaglio dal mento agli occhi e una siringa in mano.

«Ha visto se aveva una macchina?»

«No. A meno che non l’abbia lasciata in una strada qui vicino.»

Soneri pensò alla descrizione che non collimava e ai vari nomi con cui il truffatore si era presentato. Il quadro s’ingarbugliava. L’uomo che aveva di fronte a un tratto sorrise.

«Gli ho preparato una trappola» annunciò complice.

«Vorrei farlo anch’io» confidò il commissario.

«Alla fine vi avrei coinvolto. Non si può farne a meno.»

«Come pensa di incastrarlo?»

«Gli ho detto che avrei meditato sulla proposta, chiedendogli di tornare a trovarmi. Questa volta nel magazzino di Vicofertile. Lì è più difficile eclissarsi. Appena mi darà appuntamento vi chiamo e sarà facile pizzicarlo.»

Soneri si congedò dal commerciante con l’intenzione di tornare in questura, ma a metà strada Angela lo richiamò.

«Ferrari vuole vederti» gli annunciò.

«Mi ha preso per un taxi?» rispose seccamente il commissario.

«Fai come vuoi. Eri così interessato…»

«C’entri tu? C’hai messo del tuo?»

«Ma no» fece Angela poco convincente. «Credo voglia farti capire che è una brava persona, benché a un certo punto abbia commesso uno sbaglio.»

Appena riattaccò i pensieri tornarono al truffatore. Ricapitolò: finora le descrizioni avevano appurato che agivano due persone: uno alto e magro e l’altro più basso e tarchiato. Adesso se ne aggiungeva un terzo, alto con la pancia. Senza contare la complicazione della mascherina che oscurava molti particolari. Non aveva nemmeno mezza traccia nella stessa direzione. Se avesse dovuto rappresentare lo stato delle cose avrebbe disegnato un garbuglio.

Senza averne intenzione, confuso da quei pensieri, aveva però proseguito camminando sotto i portici di via Mazzini e si era trovato in via Bixio. Già vedeva sullo sfondo la vecchia barriera come un enorme cancello al limitare della città vecchia. Avanti cento metri c’era la casa di Ferrari, un po’ scostata dalla strada e quasi in disparte. Con la sua aria mesta e retrò gli ricordò una vecchia vedova. Gli aprì la porta Artenice, vestita come la volta precedente, muta e solerte. Questa volta si accomodarono in salotto al centro del quale un tavolo ovale laccato avrebbe voluto ambire al ruolo di un Luigi XVI. Le sedie avevano le molle ormai esauste e nella stanza l’odore di chiuso si mischiava a quello di vecchi liquori che s’intravvedevano dal vetro del buffet.

«Stamattina avevo voglia di camminare lungo il torrente e di respirare la nebbia» disse Ferrari osservando con nostalgia il grigio oltre la finestra.

«È uno dei miei piaceri preferiti» rispose Soneri.

«È strano come possa attrarci una cosa che la maggioranza delle persone detesta» proseguì l’uomo.

«Solo chi ci è nato» fece notare il commissario.

«E chi ha senso estetico. Per l’immagine, dico» aggiunse l’uomo.

«Mi aveva detto che lei ama la fotografia. Quello che non sapevo è che facesse mostre.»

Ferrari fece il gesto di minimizzare: «Per beneficenza. Me l’hanno chiesto i padri saveriani. I soldi servivano per le missioni».

«Dove andava spesso.»

«Oh, sì! Spesso» rimarcò l’uomo con gioiosa nostalgia.

«Solo per fare foto?»

«No, macché! Lavoravo. Le foto le scattavo lì per lì. La fotografia non devi cercarla, viene da sé. Ti si presenta per un attimo e poi fugge. Tu devi coglierla, ma solo chi sa riconoscerla può farlo. È quel momento in cui si concentra il tutto: la vita, il tempo e il senso delle cose. Un’apparizione che non dura. Per quello mi portavo sempre la macchina dietro, pronto a carpire quella luce improvvisa. La fotografia è l’unica arte nella quale non devi fare niente, solo aspettare.»

«Se è per quello, anche investigare è attendere» fece notare Soneri.

«Non esattamente. Lei ordisce agguati, nel mio caso è la realtà che decide di svelarsi. Come una confidenza sussurrata all’orecchio.»

«Ha ragione» convenne il commissario, «lei è un artista e coglie il meglio, io tendo trappole e acchiappo il peggio.»

«Non si sminuisca. La miglior dote di un investigatore è la fantasia» disse Ferrari accompagnando il tono allusivo con un sorriso.

Il commissario lo fissò cercando di capire.

«Lei riesce a sconcertarmi» affermò. «Nemmeno il più fantasioso degli inquirenti riuscirebbe a catalogarla come un assassino.»

«La sorprendo, vero?»

«Come tutto ciò che è inconsueto, controcorrente. Lei viaggia contromano sulla strada del delitto.»

«Non sono così gli omicidi casuali?»

«Forse» rispose pensoso Soneri. «Ma non hanno il suo candore.»

Ferrari apparve colpito da quelle parole. Divenne serio, girando lo sguardo di lato. In quel momento entrò la sorella con il vassoio di peltro opaco. Depositò un paio di bicchieri da liquore e una bottiglia a metà di un liquido scuro che sembrava nocino. Ferrari l’afferrò e fece l’atto di versare al commissario, che lo fermò con un gesto.

«Non sa che la nostra essenza è la contraddizione» riprese l’uomo.

Il commissario scosse la testa dubbioso.

«La più grossa è questo sbattersi sapendo che è tutto vano. Se non è contraddittorio tutto ciò… Non sarebbe più coerente l’indifferenza? La divina indifferenza di Montale» cantilenò Ferrari.

«Lei non è stato indifferente: ha ucciso per soldi.»

«Ho reagito di fronte a un furto. Non ho voluto ciò che non era mio, ho punito chi ha sottratto ciò che mi apparteneva.»

«E da cristiano lei ha valutato che un furto valesse una vita?»

«Gliel’ho detto che siamo fatti di contraddizioni. Ma quei soldi servivano a salvare vite. James li ha sperperati per godere di futilità. È stato questo disprezzo per la vita a farmi prendere la sua.»

«Cosa intende per salvare altre vite?»

«Avrei donato quei quattrini alla missione di Adua. Servivano a costruire un piccolo ospedale e una scuola. Là i bambini muoiono di dissenteria. Li ho visti liquefarsi a poco a poco. La loro giovane vita scivolare via dal culo e i loro occhi divenire sempre più grandi, fino a spegnersi sul viso che si fa sempre più piccolo.»

Ferrari si era ammutolito di colpo. La testa gli era crollata sul petto come se si fosse assopito.

«Non so perché le dico queste cose» riprese poco dopo sussurrando. «Credo sia l’urgenza di spiegare. Non sto parlando all’uomo di legge. Vorrei che capisse che parlo con lei perché fin da quella volta che si è fermato davanti a quella panchina ho intuito un’umana comprensione.» Ferrari sollevò lo sguardo di scatto e aggiunse con un’espressione di terrore: «Ho sbagliato?».

Il commissario si era alzato nel frattempo. Lo fissò a sua volta: «No, non ha sbagliato» rispose.

Dopodiché, per vincere l’imbarazzo che si era creato, Soneri si avviò senza dire una parola. Nel corridoio gli si avvicinò Artenice. Lo accompagnò alla porta, l’aprì e come la volta precedente, sulla soglia, sussurrò: «Dio lo assolverà, ne sono sicura».

Il commissario assentì e scese le scale mentre la donna richiudeva piano la porta.