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Tornando in questura, Soneri ripensò alla trappola. In quella mattinata era stata una sorta di ritornello e alla fine si era convinto che poteva essere il modo migliore per incastrare il truffatore. Almeno fin quando non gli fosse venuta un’idea più brillante. Una volta in ufficio convocò Musumeci e Pasquariello. Aveva bisogno di un numero di pattuglie sufficienti per tener d’occhio i possibili bersagli. Appena fosse giunta la segnalazione di un sospetto la tempestività sarebbe stata determinante. Musumeci prese così a studiare i luoghi dove l’uomo avrebbe potuto colpire. Visto che aveva quasi sempre preso di mira il commercio all’ingrosso, decisero di puntare su quello.

«Fossi in lui anch’io farei la stessa scelta. Il rischio è identico, dunque tanto vale mirare dove si può fare più grano» concluse l’ispettore.

Poco dopo quest’ultimo cominciò a tracciare dei cerchi sulla cartina della città fotocopiata da un vecchio elenco telefonico. Corrispondevano a dieci magazzini, compreso quello di Pezzani, visto che il truffatore aveva promesso di ripresentarsi. Erano quasi tutti in periferia, il che rendeva l’operazione più difficile per via delle distanze che ciascuna pattuglia avrebbe dovuto coprire in caso di allarme.

«Non sono sicuro che ci proverà in uno di questi» avvertì Musumeci.

«Nelle indagini ci vuole anche culo» rispose Soneri.

Bisognava solo attendere. Come il ragno sorveglia la tela.

Approfittò della pausa per esaminare il dossier che si era fatto preparare da Juvara su Malvisi. James possedeva un discreto curriculum. Tre anni prima era stato arrestato per cessione di stupefacenti. Aveva organizzato una festa con gli amici a base di cocaina e puttane. Una di queste si era sentita male e in un batter d’occhio, non invitata, si era presentata la polizia. C’erano poi tre denunce per conti non pagati. Uno in un ristorante di Punta Ala per cinquemilacinquecento euro, saldati poi in seguito a un’ingiunzione. Gli altri due in hotel a Porto Cervo e a Nizza, anche questi pagati dopo l’intervento dell’autorità. C’erano poi un paio di denunce per guida in stato di ebbrezza con ritiro della patente e un oltraggio a pubblico ufficiale per aver insultato un vigile urbano. Il dossier annoverava anche controversie col fisco per tasse evase e altri contenziosi con alcuni Comuni per un cumulo di multe in sospeso.

«Un cittadino esemplare!» commentò Juvara.

«Non hai ancora capito che in questo Paese l’importante è fottersene» replicò il commissario.

«Noi non dovremmo dirle queste cose» si oppose l’ispettore mentre sul suo viso era apparso un lieve candore che intenerì Soneri.

«Era solo per farti capire che essere stronzi conviene. Ci sarà sempre qualcuno che ti condona tutto. È bene che tu lo sappia, così non ti fai il sangue marcio.»

«A Malvisi mica hanno perdonato» fece notare Juvara.

Il commissario pensò per un attimo a Ferrari e al suo personale senso della giustizia.

«A qualcuno va storta» tagliò corto rimettendosi a leggere il dossier.

Era impressionato dalla vorticosa girandola di beni che erano passati dalle mani di James. Le auto di lusso dovevano essere un’ossessione: Mercedes, Maserati, Porsche, BMW, Lotus, Lamborghini e persino una Ferrari. Due barche da quindici metri ormeggiate a Lerici, una casa in affitto a St. Moritz, un dammuso a Pantelleria, una villa sulla Costa Smeralda. Il resto doveva averlo sperperato con le donne, ragazze noleggiate tutto compreso per viaggi e vacanze.

Posò i fogli sulla scrivania con un misto di nausea e ammirazione. Malvisi era nato ricco ma forse povero di affetti. La madre era morta quando lui aveva tre anni e il padre doveva essere troppo impegnato ad accumulare denaro per occuparsi di lui. Forse, per rimediare alla mancanza di attenzioni, lo aveva viziato coprendolo di doni fino a imprimergli la consapevolezza che si possa avere tutto.

Soneri cercò di immaginare l’infanzia di Malvisi mentre si accendeva il sigaro nel vano della finestra semiaperta. Dopo pochi istanti entrò Musumeci.

«Le pattuglie sono disposte in zona» spiegò, «ciascuna sa qual è l’obbiettivo e resta a girare lì intorno.»

«I proprietari dei magazzini sono stati avvertiti?»

«Tutti» rispose l’ispettore. «Spero abbiano i riflessi pronti.»

A un certo punto comparve anche Nanetti con il viso nascosto dalla mascherina. Appena dentro si guardò intorno, soffermandosi sul commissario e Musumeci.

«Se scoppia un focolaio qui dentro, sappiamo a chi dare la colpa» mugugnò.

«Io sono già considerato un untore e non ho niente da perdere» ribatté Soneri. «Basta stare lontani e non baciarsi in bocca.»

Nanetti contrasse il volto sotto la maschera, sdegnato.

«Fosse per me, ti starei lontano il più possibile.»

«Nel caso mi prendessi una pallottola, ti dispenso dall’assistere alla mia autopsia.»

«Lo farei solo da dietro un vetro» si schermì Nanetti.

Il commissario spense il sigaro strofinando la brace sul marmo del davanzale e chiuse la finestra. Poi indossò la mascherina e sedette alla scrivania.

«Ci guadagni con quel bavaglio» riprese Soneri, «il tuo punto debole era il naso e così lo copri. Se ti presenti in questo modo da Capuozzo potresti sedurre sia lui che la sua segretaria.»

«Fanculo» borbottò Nanetti, «mi si appannano gli occhiali e non vedo un cazzo.»

«Prenditela con i tuoi colleghi virologi. Voi scienziati non fate che complicarci la vita.»

«Su questo hai proprio ragione» convenne Nanetti aprendo una cartella che aveva posato sulla scrivania. «Sono venuto per il caso Malvisi.»

«Cos’è? Ci sono dubbi?»

«No, anzi. Conferme, direi. Come già sapevi, le impronte sull’arma e in giro per lo studio sono di Ferrari, ma ti avevo detto che avevamo trovato dei capelli.»

Il commissario assentì.

«C’era anche una gomma da masticare nel portacenere» proseguì Nanetti. «Ci è venuta voglia di analizzare il DNA anche di quella e abbiamo fatto una scoperta che ci ha sorpreso.»

Soneri si fece attento e con un cenno invitò il collega a proseguire.

«In entrambi i casi, abbiamo trovato tracce di due DNA distinti.»

«E com’è possibile?»

«Ci possono essere più cause, ma la più probabile è quella di un trapianto. Sai se Ferrari ne ha subito uno?»

Il commissario scosse la testa: «Lo ignoro, ma non sarà difficile accertarlo. Un rene, forse?»

Questa volta fu Nanetti a scuotere la testa: «I casi più frequenti di doppio DNA accertati derivano dal trapianto di midollo».

«Avete analizzato anche la gomma da masticare? Sicuri che non ci fosse un altro?»

«Sono gli stessi DNA» rispose il collega con puntiglio. «Cosa pensavi? Che Ferrari avesse masticato un po’ la gomma e poi l’avesse passata a qualcun altro? Comunque abbiamo già chiesto un prelievo di saliva per il confronto, anche se è uno scrupolo.»

«Due DNA …» sussurrò tra sé Soneri stupefatto. «Notizie sorprendenti come queste rendono sopportabile il mestiere.»

«Per me lo rende sopportabile lo stipendio» borbottò il collega.

«Non sai mai cosa trovi quando ficchi il naso nelle vite delle persone» riprese il commissario. «L’intimità è uno scavo archeologico.»

«Più intimo di così» convenne Nanetti. «Hai avuto anche fortuna.»

«Sono solo meravigliato.»

«Pensa se l’assassino fosse stato un professionista di quelli che non trascurano niente e non lasciano impronte. Oppure se si fosse trattato di una violenza sessuale. Chi avresti incriminato? Il DNA uno o il DNA due?»

Soneri rifletté per un attimo e sorrise pensoso. «Lo vedi com’è tutto imprevedibile? È questa la cosa straordinaria.»

«Io ci vedo solo una gran rogna.»

«Invece ti piace. Anche tu hai bisogno di un rovello nel quale impigliarti. Finiamo tutti per giocare anche da grandi. Chi lo fa con le motociclette e chi con qualche sfida intellettuale.»

«Se devo mettermi a pensare preferirei farlo nel mio buco di Moneglia guardando il mare seduto contro un muro al sole. Sai quanti pensieri ti vengono? Che poi se li porta via la fame, quando senti il profumo della frittura che esce dalle finestre verso la mezza» ribatté Nanetti dissacrante.

«La mezza è adesso» notò Soneri sbirciando l’orologio. «Ce ne andiamo da Bruno?»

Nanetti si alzò convinto, ma mentre stavano avviandosi per uscire, squillò il telefonino di Soneri.

«Dottore, forse ci siamo. Stiamo seguendo un tizio sospetto entrato in un magazzino di ferramenta in via Emilia a San Pancrazio.»

«È uno degli obbiettivi che sorvegliamo?»

«No, ma potrebbe essere il nostro uomo.»

«State all’erta, io arrivo» disse il commissario lanciando un cenno dispiaciuto a Nanetti, che salutò a sua volta con un cenno.

Uscì in fretta e si mise al volante. Attaccò il cellulare al supporto e s’infilò l’auricolare. San Pancrazio non era altro che un doppio orlo di case alla via Emilia. Il magazzino di ferramenta doveva essere uno di quei capannoni di cemento con le insegne a bandiera a occhieggiare verso la strada. Scorse infatti la scritta da lontano, ma prima ancora vide l’auto di Musumeci parcheggiata dall’altro lato. Anche Soneri parcheggiò senza scendere. Preferì telefonare all’ispettore per non destare sospetti semmai ci fosse stato in giro qualche complice a far da palo.

«Siamo in attesa» spiegò sussurrando quest’ultimo.

«Pensi che ci senta da là e riconosca la tua voce?»

«È la tensione, dottore.»

«Da quanto siete qui?»

«Da mezz’ora.»

«Possibile che non sia ancora uscito?»

«Nessuno l’ha visto. I colleghi delle volanti mi hanno garantito che corrispondeva alle caratteristiche del nostro uomo.»

Aspettarono ancora un quarto d’ora e il commissario cominciò a essere impaziente. Alla fine aprì la portiera di scatto e s’incamminò a piedi verso il magazzino. Le sventagliate d’aria dei camion di passaggio gli maltrattarono il bavero. Entrò nel magazzino composto da file ordinate di scaffali. Tra questi si aggiravano tizi dall’aria competente. Da una specie di guardiola sbucò un uomo piuttosto grasso e completamente calvo.

Soneri si presentò.

«È successo qualcosa in paese?» chiese l’uomo incuriosito.

Il commissario restò in silenzio per qualche secondo.

«Abbiamo notato un tipo sospetto entrare qui… La descrizione coincideva con un truffatore che stiamo cercando.»

«Qui entrano in tanti!»

«Uno alto e magro. Parlo di tre quarti d’ora fa.»

«Ah! Era un rappresentante di rubinetteria.»

«E dov’è adesso?»

«È già uscito, saranno dieci minuti.»

«Non l’abbiamo visto uscire.»

«È passato dal retro. Ha detto che aveva la macchina da quella parte.»

«L’aveva mai visto prima?»

«No, mai. Mi ha detto che ha avuto questa zona da pochissimo.»

«Le ha detto come si chiama?»

L’uomo estrasse di tasca un biglietto da visita e lo porse al commissario. Quest’ultimo lesse: RINO ZANIBONI, RUBINETTERIE STELLA.

«Le ha proposto una grossa vendita? Voglio dire, una fornitura di importo superiore al normale?»

«No. Niente di diverso da tutti gli altri rappresentanti» strinse le spalle l’uomo. «Mi ha lasciato parecchi cataloghi.»

«E basta?»

«Che altro vuole che facesse? Gli ho detto che la sua ditta concede poco margine di utile a noi grossisti.»

«E lui cosa ha risposto?»

«Che potevamo metterci d’accordo.»

Soneri uscì furibondo. Passò davanti all’auto di Musumeci senza fermarsi né volgere lo sguardo. L’ispettore aprì la portiera di scatto e lo rincorse.

«Vuole spiegarmi?»

«Se era lui ci ha fregati» sibilò il commissario.

«Ma dov’è finito?»

«E chi lo sa? Se n’è andato dieci minuti prima che entrassi.»

«Nessuno l’ha visto.»

«Appunto. Se l’è filata dal retro.»

«Purtroppo il titolare non era tra quelli che avevamo messo in preallarme. Ha provato a truffarlo?»

«Pare di no. Si è limitato a lasciare dei cataloghi e un biglietto da visita. Si è spacciato per un rappresentante.»

«Potrebbe essere davvero un rappresentante» ipotizzò Musumeci. «Può averci tratto in inganno la somiglianza col nostro uomo.»

«Non so perché, ma ho la sensazione che non sia così» stimò Soneri. «Comunque, questo è il nome con cui si è presentato» aggiunse porgendo il biglietto da visita all’ispettore. «Vedi un po’ di capire chi è.»

«Crede che si sia trattato di un falso allarme?» domandò con un po’ di apprensione Musumeci.

Il commissario attese qualche istante prima di rispondere poi disse: «No, non credo».