Il malumore l’aveva così attanagliato che saltò il pranzo. La fame e il malumore erano per Soneri due fattori incompatibili: non potevano coabitare nemmeno per frazioni. Così si ridusse in un bar scalcinato sulla via Emilia limitandosi a bere una Malvasia e a piluccare da un sacchetto di taralli pugliesi. Poi sentì il bisogno di camminare, quindi tornò in città. Percorse via Melloni, passò di fronte al vecchio Circolo di lettura ricordando quando i giornali di carta contavano ancora, e sfociò in piazzale della Pace. Oltre il monumento a Verdi dovette farsi largo tra una comitiva di turisti davanti all’hotel Stendhal prima di giungere all’angolo con via Affò. Senza premeditarlo, la curiosità l’aveva portato nel luogo che aveva destato l’attenzione della Mariani nei suoi giri notturni. Non era sicuro di dove si fosse posato esattamente lo sguardo della donna. C’erano almeno due o tre ingressi che potevano essere il bersaglio della sua curiosità. Soneri li passò a uno a uno, osservando i campanelli e le due vetrine sulla strada. Niente che potesse spiegare l’interesse della Mariani. Sembrava tutto a posto salvo una macchia rettangolare più chiara sulla facciata del numero 3 di via Affò dove pareva avessero staccato una targa. Si notava il posto vuoto a metà tra altre insegne di un notaio, di una commercialista e di un paio di avvocati.
Quell’impronta chiara gli pareva una finestrella che invitava a guardare. Salì i tre gradini dell’ingresso deciso a chiedere, quando il telefonino lo distrasse. La voce affannata di Musumeci lo investì: «La pizzeria di piazzale Bottego…» gorgogliò a fiato strozzato l’ispettore che stava correndo. Si sentiva il suo passo pesante sul selciato.
«La pizzeria cosa?» domandò Soneri.
«La pizzeria davanti alla stazione» soffiò fuori le parole Musumeci. «Un tipo alto e magro… Ci sono le volanti…»
Il commissario chiuse la telefonata senza aggiungere altro. Da via Affò sarebbe arrivato alla stazione in pochi minuti. Corse attraversando il viale in tempo per vedere un tizio che scappava correndo sulle lunghe gambe da giraffa. Lo inseguivano due agenti, mentre altri si appostavano ai margini del piazzale bloccando le possibili vie di fuga. Sotto il portico un gruppo di senegalesi osservava con apparente apatia, appoggiati con le spalle al muro. Il fuggitivo correva forte, girava intorno ai lampioni e ingannava gli agenti con finte e cambi di direzione. Sembrava un’azione di rugby, non fosse che l’uomo era costretto a girare in tondo, ormai accerchiato. Alla fine stramazzò col fiato corto placcato da uno degli agenti. I poliziotti gli misero le manette mentre Soneri si avvicinava. Quando se lo trovò di fronte, capì con un’occhiata che non poteva essere l’uomo che cercavano.
«Questo è un tossico» liquidò la faccenda scrutando il viso emaciato, gli occhi spenti e i denti cariati.
Uno dei poliziotti fece scorrere la manica fino al gomito: il braccio era violaceo.
Il commissario perse ogni interesse. Non era più un affare suo. Mentre se ne andava sentì il proprietario pakistano della pizzeria che diceva di essere stato minacciato con una siringa. Per un attimo fu tentato di chiamare Pasquariello per chiedergli di dare una calmata ai suoi. Ormai vedevano il truffatore in ogni dove. La città pareva ronzare di una tensione elettrica e tutto ciò gli creava una molesta apprensione. Già si sentiva paragonato a Calabritti: tutt’e due sprofondati nello stesso buco nell’acqua.
Una volta in ufficio, fu Pasquariello a telefonargli.
«Vi abbiamo fatto correre invano voi della Mobile» esordì.
«Lascia stare, ormai è un’ossessione per tutti» disse Soneri ancora impigliato nel suo malumore.
«Ogni tizio alto e magro…» riprese il collega. «I miei hanno addosso la pressione del questore. Ogni volta ripete che ci stiamo caricando di ridicolo. Li hai letti i giornali?»
«No, sono già abbastanza incazzato» sibilò il commissario.
«Non fanno che dell’ironia coi soliti luoghi comuni: la primula rossa, l’imprendibile, la volpe della truffa…»
«Originali!» commentò Soneri sforzandosi di minimizzare.
«Mi sono chiesto una cosa: che fine ha fatto l’altro?» riprese Pasquariello.
«L’altro chi?»
«Non ricordi che erano due? Uno più basso e tarchiato? Stessa tecnica, ma azioni distinte.»
«Il becchino» mormorò tra sé il commissario.
«Il becchino?» ripeté Pasquariello.
«Sì, quello basso si presenta vestito di nero. Forse ha sentito che non è più aria, vista la caccia grossa che abbiamo scatenato, e si sarà preso una pausa» dedusse. «E poi quanti ce ne sono? Se c’è una cosa che non manca in città sono i truffatori, pensa alle banche…»
«Forse» fece dubbioso Pasquariello. «Se ha un briciolo di cervello ed è meno disperato…»
«Pensi che quello ancora attivo sia uno alla canna del gas?»
«A differenza di te ho a che fare con questi delinquenti mezzasega. La pandemia ha moltiplicato la disperazione e per giunta la mascherina rende più difficile il nostro lavoro. Hai notato che non riusciamo più a fare un identikit?»
«Giriamo sconosciuti gli uni agli altri, ma forse non è molto diverso da prima» scappò detto al commissario.
«Stavamo parlando di connotati» lo riportò al tema il collega.
Soneri emise un mugugno che significava un assenso: «Già i testimoni fanno fatica a ricordare e adesso che rimangono scoperti solo gli occhi…».
«Prima o poi cascherà nella rete» concluse Pasquariello. «Se è un disperato come penso, l’errore lo commette. Sono tutti affetti da bulimia per le stronzate, e più ne fai più rischi.» Il commissario si augurò che il collega avesse ragione. Quando chiuse la telefonata, ripensò al “becchino”. Questo non doveva essere un bulimico, piuttosto un ragionatore. Uno che forse non aveva bisogno di soldi nell’immediato. Del resto la truffa è un’attività che richiede pianificazione e il risultato non è istantaneo, spesso richiede tempo.
Soneri venne distratto dalla porta che si aprì. Juvara si stupì di vederlo in ufficio.
«Cercavo giusto lei» disse l’ispettore.
«Non dirmi che il mandante è Capuozzo.»
«È inferocito perché tutta la stampa lo sta prendendo di mira.»
«Per via di ’sto truffatore?»
«Per quello, ma soprattutto per ciò che ha detto in conferenza stampa alcuni giorni fa.»
«Ha sempre necessità di dar aria ai denti» grugnì il commissario.
«Ha ripetuto più volte che il cerchio si stava stringendo. Lo diceva già dai tempi in cui indagava Calabritti e alla fine i giornalisti si sono rotti. Non ha letto i titoli di oggi?»
«La mia salute mentale me lo proibisce.»
«Un cerchio stretto sul niente, Il cerchio racchiude un buco, Chi accerchia troppo nulla stringe: ecco cos’hanno scritto i giornali.»
Soneri fece cenno di smettere. «Adesso ce l’avrà con me che non sto concludendo una cippa» disse.
«Temo che non esiterà a scaricare le colpe. Dovrebbe conoscere più di me come si comportano quelli che comandano.»
«Mi cercavi per questo?» chiese il commissario.
«No, volevo dirle che ho concluso un primo esame del computer di Malvisi.»
«Ce ne hai messo! Alcuni anni fa eri più veloce.»
«Dottore, lo faccio a tempo perso perché questo è un caso…»
«Lo so» lo interruppe Soneri. «È un caso risolto e non ha più niente da dire. Almeno per quel che ci riguarda.»
Juvara non disse niente, il suo modo per approvare.
«Comunque» riprese, «ci sono parecchi dati sulle gestioni dei patrimoni di personaggi influenti della città. Cose anche molto delicate.»
«Spiegati meglio.»
«Passaggi di denaro tra imprenditori e politici.»
«Mazzette?»
«Non posso esserne sicuro, ma a naso mi pare di sì. Perché un imprenditore dà soldi a un politico?»
«Ormai è palese nelle campagne elettorali» sorrise il commissario. «Non sono altro che compravendite.»
«Dichiarate, però. Questi passaggi di denaro sono occulti. Forse li faceva anche il vecchio Venanzio, ma il figlio ne aveva fatto un’attività. Almeno nei primi anni in cui è subentrato al padre. Poi i suoi clienti si sono progressivamente diradati. Credo che l’abbiano considerato inaffidabile.»
Juvara tirò fuori un grosso plico e lo porse a Soneri, che lo sfogliò leggendo a caso tra i fogli. Era la stampa della bizzarra contabilità di Malvisi. Dopo qualche minuto il commissario prese il malloppo a due mani e ne batté più volte l’orlo sulla scrivania.
«Lo leggerò con calma, ma tu che l’hai già fatto potrai anticiparmi parecchio.»
«Lo studio Malvisi era il più accreditato della città nella gestione dei patrimoni» cominciò Juvara. «Da quel che ho visto, Venanzio si era conquistato la fiducia della maggior parte della Parma bene, degli industriali più in vista e del notabilato cittadino. Doveva essere uno la cui discrezione era certa come la morte, considerata la mole di denaro. Nel computer c’è traccia di molti capitali affidati a balia e, a occhio, credo che parecchi siano stati costruiti con la contabilità occulta. Il più delle volte intestati a mogli, fratelli o figli. Le lascio indovinare qual era uno degli impieghi di questi soldi.»
«Torniamo alle mazzette!» esclamò il commissario. «Dunque, già il vecchio…»
«Non ne sono sicuro. Nel computer non ci sono prove di ciò. Venanzio si avvaleva dei metodi di una volta. Forse sa tutto la Mariani, la segretaria fedelissima. Credo che il vecchio si limitasse a far lievitare i conti correnti in nero, oltre a gestire patrimoni alla luce del sole. Tutto è cambiato con l’avvento di James. Almeno, questo è ciò che si può dedurre dai movimenti del denaro. In pratica, lo studio veniva usato come agenzia. Era Malvisi stesso che si occupava di far avere i soldi ai politici. Alcuni incontri sono persino annotati con i nomi dei beneficiari. L’imprenditore dava l’ordine e non si sporcava le mani. Ci pensava Malvisi a procurare i soldi dai fondi occulti e a recapitarli.»
«Cotti e mangiati» chiosò Soneri.
«Cotti e mangiati» confermò Juvara. «Finché il gorgo della megalomania non l’ha risucchiato con spese folli. Dottore, questo non aveva freni.»
«Lo so» confermò il commissario. «Ho visto tutti i beni che sono passati per le sue mani.»
«Sta di fatto» ricominciò l’ispettore «che da un certo punto in poi ha cominciato a fare la cresta sulle mazzette, sfilando mille di qua, duemila di là… Si vede dai prelievi sui conti che non collimano con l’importo dei versamenti ai politici che lui stesso segnava. Pensava che non se ne accorgessero. La sua cattiva fama dev’essere cominciata così. Del resto mica potevano denunciarlo, col rischio di scoprire gli altarini. L’unica rappresaglia poteva essere scaricarlo. I più malandrini l’hanno fatto da subito, ma altri sono rimasti. Tanto che solo tre anni fa, il portafoglio clienti era ancora corposo.»
«Quand’è che l’hanno sportellato?»
«Ci sono andati piano tutti visto che Malvisi aveva due assi nella manica non da poco: i loro soldi e i loro segreti. Dottore, questo teneva per i coglioni mezza città. Qui» disse Juvara battendo il palmo sul plico «c’è tutta la polvere sotto il tappeto.»
«Ci si sono intossicati, con quella polvere» annotò Soneri.
«Eh, già! Ho cercato di capire dove imboscasse tutto quel grano e mi sono fatto l’idea che Malvisi si sia messo a giocare per sé. Per giunta a un gioco spericolato. La sua idea è stata quella di sfruttare i soldi degli altri e ottenere un surplus per sé. Ma questo credo che lei lo sappia già.»
Soneri annuì: «Un gioco molto rischioso».
«Da quel che si nota nei movimenti di denaro, il più delle volte gli è andata bene. Puntando grandi somme in azioni o in investimenti altamente speculativi, ricavava guadagni cospicui. Il fatto è che le sue spese se li sono divorati rapidamente, e appena gli sono andate storte alcune operazioni ha cominciato a imbarcare acqua. A quel punto ha dovuto barare alla grande. Ha usato i soldi che gli restavano da gestire per tappare i buchi di chi reclamava il proprio investimento, ma la coperta è diventata sempre più corta. Il resto lo sa» concluse Juvara.
«Una relazione più che esauriente» commentò il commissario. «Soprattutto esauriente verso i soldi dei clienti di Malvisi» commentò Juvara sarcastico.
«Rubare ai ladri, tutto sommato, è una partita di giro» concluse Soneri con lo stesso sarcasmo.
«Ferrari non è un ladro» obbiettò l’ispettore.
«No, ma purtroppo i soldi sono tutti uguali.»
«E i suoi non erano pochi.»
«Hai già concluso gli accertamenti bancari?»
Juvara assentì. «Sennò non ne sarei così sicuro.»