Angela si era messa in testa di fargli passare il malumore. La prima mossa fu invitarlo a cena a casa anteponendo al pasto un preambolo affettuoso e sensuale. Lo accolse con un vestito leggero piuttosto succinto e un profumo che Soneri aveva già sentito su uno dei tovaglioli di Sbarazza. In pochi minuti l’aveva trascinato in un altro mondo azzerando la sua mente in una girandola di sussurri. Fare l’amore con lei era come ascoltare musica o leggere un libro. Ogni volta si apriva una porta per approdare in un altrove sospeso, in un’embolia nel flusso del tempo.
La seconda mossa fu la tavola imbandita. Il commissario non mangiava decentemente dal mattino e la sola vista dei piatti gli provocò un’altra eccitazione, anche questa, a suo modo, sensuale. Poco dopo Angela sfornò un gran piatto di riso nero venere coi gamberetti e le zucchine.
«Ho trovato il modo per mettere d’accordo il tuo appetito e la mia dieta» annunciò.
Il commissario guardò il cibo fumante con una certa diffidenza. Non era quel che si aspettava, ma la fame e il profumo lo convinsero. Lo fu del tutto dopo il primo assaggio, ma non volle eccedere con l’entusiasmo. Nemmeno poco dopo, quando Angela servì le seppie coi piselli e il sugo di pomodoro.
«Lo vedi che si mangia bene anche senza burro?» lo provocò lei.
«Sì, buono» replicò il commissario, «certo non come un piatto di tortelli…» sogghignò.
Angela prese il coltello e fece finta di colpirlo. «Sono uscita un’ora prima dallo studio per preparare questa cena» minacciò.
«La parte più eccitante deve ancora venire» rispose Soneri.
Lei sorrise e annuì con aria complice.
Uscirono senza nemmeno sgombrare la tavola. Era ancora presto, perciò decisero di passare dalla Bottiglia azzurra. Trovarono Sbarazza seduto a un tavolino con l’aria disinvolta. La sua logora nobiltà ancora glielo permetteva, malgrado quell’elegante mendicare. Aveva occhi che sembravano vedere qualcosa che nessun altro poteva scorgere.
«Fino a venti minuti fa qui era seduta una signora della quale mi sono inebriato. Con l’età apprezzo le donne quando raggiungono la loro tarda estate, quella dei frutti maturi e della vendemmia» disse sempre sognante mentre degustava un vino rosso e corposo che pareva incarnare le sembianze della femminilità evocata dalle sue parole.
«Quella signora era un po’ in carne, il seno abbondante e morbido, ma non ancora cadente. Due grosse gocce perfette col picciolo corto e tozzo. I fianchi rotondi come cotogne e un viso luminoso, gli occhi simili a dardi che ti trafiggono e tramortiscono» continuò Sbarazza in un deliquio di voce e sguardo. «Una creatura magnifica!» concluse sorseggiando il vino dall’orlo del bicchiere macchiato di rossetto e annusando il tovagliolo.
«Barbaresco» precisò alzando il calice.
Angela e Soneri sedettero di fronte a lui e ordinarono un Sauvignon.
«Si sta ancora occupando della morte di James?» domandò Sbarazza.
«Non c’è più tanto da indagare» minimizzò il commissario.
«Io e lui abbiamo molto in comune» aggiunse l’uomo.
«Non direi.»
«Invece sì: l’inclinazione alla dissolutezza.»
«Non mi pare sia la stessa» intervenne Angela.
«La differenza è che io l’ho declinata in senso estetico, lui in modo istintivo. Ma tutt’e due cercavamo una soddisfazione che ci sfuggiva. Prenda le donne. Io ne sono irresistibilmente attratto, ma in quanto vittima della mia immaginazione. Vengo attirato da un particolare: la voce, un pizzo che sfugge dalla scollatura, il rumore che fanno i tacchi sul selciato, un movimento, un’occhiata, una frase detta. Abbagliato da tutto ciò, cerco in loro qualcosa che immagino esserci e che spesso non trovo. James, invece, ha sempre cercato la sensualità carnale, rimanendo perennemente insoddisfatto perché non è lì che c’è l’appagamento. Io mi sono sempre fermato all’immaginazione, lui al coito, ed entrambi non abbiamo che sperimentato la frustrazione.»
«Sbattiamo sempre contro questo scarto doloroso» constatò Soneri. «Tutto si fa per approssimazione.»
«Spesso è una norma salutare. Voglio dire che ci salva dai guai e ci aiuta a vivere» considerò Sbarazza. «Le donne, questo, lo sanno meglio di noi.»
«Vuol dire che siamo più sveglie o più accomodanti?» intervenne Angela.
«Tutt’e due. Le donne hanno un rapporto più diretto con la vita e la natura. La toccano, la fiutano mentre noi la guardiamo a distanza. L’immaginazione è il filtro che la rende più accettabile, ma al tempo stesso aumenta la separazione.»
Bevvero prendendosi una pausa. Le parole di Sbarazza avevano bisogno di tempo.
«Il fatto è che qualche volta quella separazione diventa una frattura. Credo sia quello che è successo a Ferrari» aggiunse l’uomo poco dopo.
«Lo conosce?» si stupì Angela.
«Tempo fa presentai una sua mostra fotografica. È uno di quei tipi miti e intransigenti, vere bombe a orologeria.»
«Pensa che sia stato inevitabile che abbia ucciso James?»
«Inevitabile sarebbe un determinismo degno di lui. Non c’è niente di inevitabile, ma quel che è successo era altamente probabile.»
«Altri meno intransigenti avrebbero fatto la stessa cosa» lo smentì Angela scettica.
«Certamente» convenne Sbarazza, «ma mettendosi sullo stesso piano di James, il possesso dei soldi, il furto. Invece io credo che per Ferrari ci sia dell’altro. Qualcosa che ha a che fare con una questione di principio.»
«La dissolutezza?» azzardò Soneri.
Sbarazza annusò di nuovo il tovagliolo. Doveva immaginare quella donna. Faceva l’amore con un’idea.
«Io ammiro le persone radicali» rinvenne da quella specie di deliquio. «James era una di quelle. In lui vedevo un istinto autodistruttivo quasi maniacale. In un certo senso, il suo è stato un suicidio. Anche la malvagità richiede un certo talento. Non è facile tradire tutto quel che ti viene dato. Lui l’ha fatto.»
«E crede che Ferrari l’abbia ucciso per quello? Non per i soldi che gli ha fregato?» domandò Angela.
«Be’, i soldi… Certo anche quelli hanno contato. Ma ha contato di più l’essere all’opposto, l’uno la negazione dell’altro. Era naturale che si scontrassero. Ferrari è un uomo che ha fatto della coerenza e della servitù a un’etica una norma inderogabile. Per l’altro la regola era non averne nessuna.»
«Ferrari è religioso e per lui è una regola anche non uccidere» intervenne Angela.
Sbarazza sorrise con un’espressione dolce: «Lo vede come siamo contraddittori? Solo se guardiamo il mondo per il bello che ci mostra possiamo sopportare il tutto. Il bello non ha regole, è così e non occorre aggiungere altro. Ci piace e non sappiamo nemmeno perché. Nel suo mistero riposa la nostra consapevolezza. Se poi il bello lo sa ricreare l’uomo in quanto artista, l’ammirazione cresce. Io ho vissuto in questa ammirazione e sono felice. Ho dissipato tutto per la mia felicità. Cosa c’è di meglio che essere felici?».
«Ho sempre dubitato che la bellezza possa salvare il mondo» disse Soneri mentre camminava accanto alla compagna verso la fermata del bus notturno.
«Sbarazza ha potuto vivere dissipando perché aveva di che dissipare» rispose Angela col suo consueto senso pratico. «Fosse nato povero, mica avrebbe potuto fare il mecenate di se stesso.»
«Si può essere felici anche da poveri» ribatté il commissario, «se si resta un po’ bambini e si conserva il gusto di giocare come stiamo facendo noi.»
Lei scoppiò a ridere e la sua voce rimbalzò nel silenzio contro il frontone della chiesa dell’Annunciata.
«Non dobbiamo salire alla stessa fermata» avvertì Angela. «Io aspetto qui, tu vai in Pilotta.»
Soneri si avviò costeggiando il torrente. Si sentiva l’acqua scorrere con un suono che pareva il respiro di un enorme corpo dormiente invisibile nel buio. Viale Mariotti era una fila di lampioni opachi via via più sfumati nella nebbia. Passò davanti ai voltoni della Pilotta che assomigliavano a grandi orbite scure e minacciose. Dall’altra parte, la calotta opalescente della pensilina delle corriere e sullo sfondo la massa scura e imponente del parco Ducale. La fermata era di fronte alla colonna della Vittoria, l’unico obelisco della città. La strada era quieta, quasi deserta. Nelle notti d’autunno Parma si animava in improvvise fratture del silenzio simili a urla nel sonno. Vampe isolate, come falò di carnevale. La brezza del torrente richiamò un coro confuso di voci proveniente da piazzale della Pace dove si davano appuntamento i nottambuli riscaldandosi col vino. Cominciava a sentire freddo quando vide avvicinarsi il bus notturno.
Angela era seduta due posti dietro l’autista. Il commissario la notò ma fece finta di niente. Subito dopo girò lo sguardo a bordo ma non vide che posti vuoti. Lanciò un cenno alla compagna che gli rispose a sua volta con un cenno per dire che non sapeva nulla. Malgrado mancasse la protagonista, stettero al gioco. Tutto era molto divertente, ma fine a se stesso. Angela gli mandò un messaggio col telefonino.
«Chissenefrega se non c’è lei, ci stiamo divertendo lo stesso.»
Era vero. Scesero e risalirono un paio di volte senza piani preordinati e questo aumentò la sorpresa e il divertimento. Dopo più di un’ora così, salì la Mariani. Erano in via Verdi, la fermata più vicina a via Affò. La donna si sistemò nel solito posto e come sempre tenne lo sguardo oltre il finestrino. Più che viaggiare, pareva guardare un film. Anche se quello che stava vedendo doveva essere l’ennesima replica. O forse la città le appariva sempre diversa. Il commissario e Angela scesero in posti differenti e risalirono il giro dopo: la Mariani era sempre lì, con gli occhi immobili sulle vie della città. A un certo punto, Soneri si avvicinò ad Angela per chiederle un’informazione, fingendo d’essere un estraneo. Il colloquio risultò divertente. Alla fine il commissario toccò un braccio alla compagna con un gesto educato di ringraziamento e lei rispose con grazia. Poi scesero in posti diversi quando ormai il gioco parve esaurito. Lei lo attese lungo la strada e il commissario fece la mossa di abbordarla come una sconosciuta. Recitava la parte di quello che ci prova, lei quella della finta ritrosa. Il finale lo conoscevano, ma quei dialoghi allusivi presi da un copione scadente li divertivano ed eccitavano. Finirono per ritrovare la tavola ancora apparecchiata che avevano lasciato ore prima, ma anche lo stesso desiderio.
«Ci vuole fantasia per tener accesa la voglia» sussurrò lei.
«Non credevo bastasse un giretto in autobus.»
«È un gioco. E il gioco è fantasia.»
«Che tipo di fantasia pensi che abbia la Mariani, mentre gioca?»
«Per me lavora sui ricordi. Ha scritto sul viso un grande rimpianto.»
Il commissario conosceva l’intuito della compagna, perciò si fece serio.
«Infatti, sembra sofferente. Forse viaggia di notte perché è allora che l’assale l’angoscia» ipotizzò Soneri.
Angela non disse niente. Erano sdraiati accanto e guardavano il soffitto in penombra appena sfiorato dalla luce schermata dell’abat-jour sul comodino di lei.
«È salita in via Verdi» riprese il commissario. «Credo che sia incuriosita da un palazzo all’angolo con via Affò.»
«Quale palazzo?» chiese Angela.
«Al numero 3. Ho visto che ci sono gli studi di molti professionisti e che manca una targa all’ingresso. C’è proprio un buco.»
«Al 3 ha l’ufficio un collega che conosco: un civilista» ricordò lei. «Non credo che si sia trasferito. Se vuoi chiedo.»
«Dovresti chiedere anche una cosa a Ferrari.»
«Meglio non tornare su quest’argomento» lo ammonì Angela, «poi finiamo per litigare.»
«Questa volta sono io a darti una notizia che non sai. Forse nemmeno dovrei.»
«E quale sarebbe?»
«Abbiamo trovato due DNA differenti sui suoi residui organici.»
Angela si rizzò verso di lui poggiandosi sul gomito. «Ma è possibile?»
«Nanetti dice di sì. Succede a chi subisce un trapianto. In particolare un trapianto di midollo.»
Lei si sdraiò di nuovo e rimase in silenzio.
«Uno a zero per me» disse il commissario. «Perché non gli chiedi quando è successo? Una leucemia, forse?»
«Proverò a domandare così pareggio il conto.»
«Non ci fossero state le impronte di Ferrari ovunque, dovremmo cercare anche a chi appartiene l’altra traccia genetica. È un caso inedito e i reperti sono solo due. Poco per escludere un’altra presenza» spiegò Soneri.
«Da dove avete ricavato il DNA?»
«Da un paio di capelli e da una gomma da masticare lasciata in un portacenere.»
«Non ha certo preso precauzioni» rifletté Angela sarcastica.
«Cosa ne sai tu? Magari non è così ingenuo come pensi.»
«Credi che sia doppio come il suo DNA?» domandò lei.
«Non escludo mai niente» rispose sibillino il commissario.