Nel pomeriggio Soneri si incontrò con Pasquariello. Con sé aveva portato la cartina su cui Musumeci aveva tracciato le crocette e i cerchi. La aprì e la stese sulla scrivania.
«Non ti sembra curioso?»
Il collega lisciò la mappa col palmo, inforcò gli occhiali e osservò per alcuni istanti in silenzio.
«Il sospetto viene» concluse alla fine.
«Vero? La domanda è: chi può essere?»
«Un sospetto non è una prova» avvertì Pasquariello prudente. «È più probabile che il truffatore concepisca i suoi piani da solo. Questo pare uno molto scaltro.»
Soneri scrollò il capo. «Non credo. Penso che sia solo sfrontato e forse ben informato.»
Pasquariello tacque. Sembrava atterrito dall’eventualità di una spia in questura.
«Ma chi potrebbe fare una cosa simile?»
«Lo sapessi… Certo chi ha un buon movente.»
«Soldi?»
«Anche» rispose il commissario. «O interesse a invalidare l’inchiesta. Invidia… Oppure tutte queste cose assieme.»
«C’è una sola persona che mi viene in mente» rifletté Pasquariello. «Credo sia la stessa a cui pensi tu.»
Soneri annuì.
«Certo, Calabritti. Ha accesso alle informazioni e mi detesta. In più sa benissimo che se andassimo a ravanare su come ha condotto questa e altre indagini, forse ci scapperebbe qualche censura.»
«Quello che dici può essere vero, ma da qui a indurlo a fare la spia ce ne corre» fece notare Pasquariello.
«Non c’è dubbio. L’ho pensato anch’io. Ma ti sei mai chiesto come fa a mantenere il tenore di vita che ha? Macchine di lusso, vacanze… E se ne vanta!»
«C’è tanta gente che fa debiti e le auto le puoi prendere come fosse un noleggio.»
Il silenzio del commissario esprimeva allo stesso tempo riflessione e perplessità.
«Dobbiamo rivedere la sorveglianza» cambiò discorso. «Così com’è non va. È come stare in trincea con il nemico che viaggia in aereo.»
«Cosa vorresti fare?»
«Nemmeno io lo so. Forse è meglio se le volanti restano in movimento. Gira e rigira ci sbatteremo pur contro!»
«Non mi piace questa moscacieca» borbottò Pasquariello.
«È un bersaglio mobile e noi dobbiamo essere più veloci di lui.»
Squillò il telefono sul tavolo del capo delle volanti. Il titolare di un magazzino di elettrodomestici aveva appena chiamato il 113 per denunciare una vendita a vuoto. Un acquisto di ricambi con acconto di ventimila euro che alla data di consegna si era rivelato un bidone. La ditta produttrice non sapeva niente, non conosceva il sedicente venditore e non aveva mai incassato un centesimo. Il fatto era successo in via Langhirano tre giorni prima e l’uomo che si era presentato corrispondeva alle caratteristiche del truffatore.
Soneri batté il pugno sulla scrivania per la stizza.
«La faccenda ormai dilaga» ringhiò.
Pasquariello si contorse sulla sedia come avesse voluto avvitarcisi.
«Non è escluso che saltino fuori altri truffati. Ormai sono tanti» proseguì Soneri. «Senza contare quelli che tacciono per vergogna.»
«Quanti casi abbiamo affrontato che hanno richiesto tempo…» cercò di consolarlo il collega.
«Qui ci si è messa di mezzo la politica. Si stanno scannando in nome della sicurezza, e i giornali ci sono montati sopra. Il questore e la Procura hanno il fuoco al culo e tutti gli occhi sono puntati su di me» riassunse il commissario.
«Dai!» esortò Pasquariello. «Un sorcio come quello non potrà sfuggirci!»
«Un sorcio che tiene in scacco la Mobile e la questura tutta. La sua insignificanza criminale rende più grande il ridicolo che ci tira addosso. Con le anime benpensanti della città, campionesse di porcate ma indignate per l’inettitudine della polizia.» Soneri si era alzato di scatto per la rabbia. E quando fu in piedi, confuso in mezzo alla stanza, stette impalato qualche istante senza sapere cosa fare. Così, solo per togliersi dall’imbarazzo, decise di tornare in ufficio.
«Ti farò avere la denuncia» gli urlò dietro il collega mentre usciva.
Attraversò il cortile della questura già immerso nel buio. Prima di recarsi da Pasquariello una luce opaca illuminava ancora quella specie di pozzo tra via Repubblica e borgo della Posta. Ritrovarsi di colpo nella notte precoce dei pomeriggi d’inverno gli lasciava sempre un senso di rammarico e d’incompiutezza. La fine precoce della giornata, anziché placarlo, gli buttava addosso l’angoscia.
Nemmeno Juvara lo risollevò. La società di leasing a cui era intestata la Mercedes si era mostrata dapprima reticente, poi, messa alle strette, aveva comunicato chi aveva in uso la macchina: si trattava di un’azienda.
«Il nome le potrà sembrare beffardo: La Ribalta» comunicò l’ispettore .
«No, azzeccatissimo» mugugnò Soneri.
«La titolare risulta una tal Nerina Merighi, borgo Bruno Longhi 4. Ho cercato il suo numero di telefono e ho provato, ma non risponde.»
«È qui vicino» valutò il commissario. «Ci faccio un giro.»
Uscì di nuovo e attraversò via Repubblica. Le vetrine riverberavano luce sull’asfalto bagnato. S’infilò nel borgo. Il 4 era un palazzotto con il portone di legno che dava su un porticato gelido illuminato da lampade a muro. Le scale di marmo salivano con ampie curve. Sull’uscio lo accolse una donna giovane dall’accento straniero che lo condusse in un salotto pieno di tappeti e mobili antichi. Il tutto aveva un’aria solenne. La Merighi sembrava sonnecchiasse. Quando Soneri si presentò ebbe solo un breve lampo diffidente dello sguardo, quanto bastava per catalogarlo un estraneo. E mentre la badante le si piazzò di fianco come una sentinella, il commissario cominciò a temere d’essere finito per l’ennesima volta su un binario morto.
«Cos’è successo?» domandò la donna allarmata quando Soneri si presentò e si rese conto di avere di fronte un poliziotto.
«Solo un accertamento» esordì il commissario.
«Deve parlare più forte» lo invitò la badante. Aveva un accento dell’Est.
«Solo un accertamento» ripeté quasi urlando. «Lei conosce La Ribalta?»
«Che ribalta?» la donna sbarrò gli occhi infastidita.
«È un’azienda.»
«No. Mai sentita.»
«Eppure risulta l’amministratrice titolare.»
«Io? Ma le pare?»
«È registrata così alla Camera di commercio. C’è la sua firma.»
Alla parola firma, la Merighi si animò. Si rivolse alla badante: «Non sarà stato la volta che mi hanno portato quelle carte…?».
La badante annuì. «Sì, sì, forse.»
«Che carte?»
«Non so. Mi pare fosse per le case.»
«Chi gliele ha fatte firmare?»
La donna ammutolì per qualche secondo. «È una faccenda delicata» mormorò con imbarazzo. «Gradirei non si sapesse in giro.»
«Stia tranquilla.»
«Giacomo Malvisi. È stato lui. Ci ho rimesso tre quarti dei miei risparmi, e per fortuna ho salvato le case.»
Soneri mandò a memoria l’elenco dei truffati da James, ma non si ricordò di una Merighi.
«Non mi interessano i soldi» disse Soneri sbrigativo. «Vorrei sapere di questa Ribalta.»
«E che cosa ne so io!» si stizzì la donna. «Se ho firmato sarà perché non ho letto e quel mascalzone…»
«È sicura che non le abbiano fatto sottoscrivere altre carte?»
«Ma no!» esclamò la Merighi adesso definitivamente in collera. «In un anno avrò fatto sì e no mezza dozzina di firme in banca e solo una volta è venuto da me Malvisi, ma mi aveva detto che era per la gestione patrimoniale.»
«Gestiva da molto i suoi beni?»
«Solo i soldi» precisò la donna. «Avevo cominciato con Venanzio. Quello sì che era un uomo a posto.»
Il commissario incassò l’informazione. Da quel punto in poi la conversazione inclinava verso una situazione che già conosceva. Salutò la Merighi e lei gli lanciò un’altra occhiata, come non avesse capito il senso di quella visita.
Rientrò in ufficio e appena varcato l’uscio della questura notò un ragazzo alto e magro dall’aria smarrita che era stato fermato. Per un attimo pensò che fosse il truffatore e sentì affiorare una botta di speranza. Dopo qualche secondo apparve Musumeci. Il commissario gli fece un cenno interrogativo col mento e l’ispettore si avvicinò.
«Un altro falso allarme» informò sconsolato. «Questo tipo è risultato scomparso a Padova sei anni fa. Chiedeva l’elemosina davanti all’oratorio dei Rossi in via Garibaldi: è sciroccato.»
«Se ti metti a cercare in una città trovi di tutto e misuri la quantità di cose che ci sfuggono.»
«Vorrà dire che prima o poi ci imbatteremo senza volerlo anche nel truffatore» concluse Musumeci.
«Non ho mai confidato sulla fortuna» tagliò corto Soneri proseguendo nel corridoio fino alla porta del suo ufficio.
«Allora?» domandò Juvara appena entrò.
«La Merighi è una prestanome inconsapevole. Ma chi le ha intestato l’azienda è Malvisi.»
«Vuol dire che Malvisi partecipava alle truffe?»
«Probabile. Ha raggirato una vecchia cliente dello studio, così ha potuto prendere un’auto senza che si potesse risalire a lui qualora la intercettassero.»
«Sì, ma Malvisi è morto e quella macchina viaggia con un altro» obbiettò Juvara.
«E siamo di nuovo a sbattere contro il muro» chiosò il commissario.
«Ci si è messo anche il virus adesso» scrollò il capo l’ispettore.
«Quello c’era già» fece notare Soneri accorgendosi solo in quel momento di aver dimenticato di indossare la mascherina.
«Hanno scoperto un focolaio alla Coop di via Gramsci.»
«L’hanno chiusa?»
«Sì, ma il guaio è che una delle nostre pattuglie ha avuto contatti con la persona infetta. Il capo negozio che aveva chiamato per un furto. Due agenti in quarantena, ma forse ne metteranno altri sei perché ieri sera hanno partecipato con loro a una cena. Avremo tre pattuglie in meno.»
«E a culo la sorveglianza!» sbottò il commissario.
In quel momento telefonò Pasquariello.
«Anch’io l’ho saputo da pochi minuti» disse prima ancora che Soneri potesse aprire bocca. «L’AUSL ha appena mandato una mail.»
«Potrebbe andarci peggio?»
«Difficile» rispose il collega. «Hai sentito il notiziario di TV Parma?»
«No e non voglio sentirlo.»
«Vedrò come posso riorganizzare la sorveglianza» concluse Pasquariello. «Già eravamo in pochi…»
Il commissario riagganciò e non resistette alla curiosità. L’inchiesta assomigliava sempre più a una discesa all’inferno. E in quel momento aveva voglia di farsi ancora più male.
«Hai visto il notiziario di TV Parma?» domandò a Juvara.
L’ispettore si limitò ad assentire con aria reticente.
«E allora?» lo spronò.
«Ci hanno preso un po’ per il culo.»
«Un po’ e basta?»
«Era la prima notizia. Poi interviste… I più cattivi sono stati i politici.»
«E Capuozzo?»
«Silenzio. Sa come dicono i giornalisti, no? “Bocche cucite in questura”. Io però» proseguì l’ispettore «non mi curerei tanto della stampa, ma dei social. Lì ci stanno facendo a pezzi.»
«Chissenefrega dei social» liquidò Soneri.
«Il grosso dell’informazione passa da questi canali ormai. È come un gigantesco bar dove ognuno può sparare cazzate.»
Il commissario restò in silenzio. Si sentiva oppresso. Avrebbe avuto voglia di camminare in un bosco su un sentiero duro di gelo, tra alberi spogli contro il sole.
Fece per alzarsi, quando Juvara riprese: «La Regione ha emanato l’ordinanza che impone la mascherina anche all’aperto fino a quando non sarà circoscritto il focolaio della Coop».
«Hai altre cattive notizie da darmi?» lo interruppe Soneri.
Juvara scrollò il capo. «Dovremmo parlare del telefonino di Ferrari.»
«Per oggi non accetto più disastri.»
«È un semplice elenco di numeri, nient’altro.»
«Vedi se scopri qualcosa» buttò lì con noncuranza il commissario infilandosi il cappotto.
«Ce n’è uno che risulta composto con più frequenza negli ultimi due mesi: comincerei da lì.»
«Approvo. Dallo anche a me.»
Juvara lo scrisse su un foglietto che poi strappò e glielo porse.
Soneri lo mise in tasca e uscì senza salutare.