«Non so cosa mi abbia preso» confidò il commissario al telefono una volta a casa.
«Sei stressato, ecco cosa ti ha preso» diagnosticò Angela.
Si era chiuso la porta dietro di sé come se l’inseguissero.
«Non mi era mai capitato» balbettò.
«Ti hanno infilato in una trappola. Hai troppi nemici e vogliono farti le scarpe.»
«Adesso? Del tempo ne hanno avuto…»
«Non ti accorgi che si è tutto politicizzato? Con questa destra che aizza, molti si sentono autorizzati a fare le peggiori cose perché hanno le spalle protette. Sai quanti ce n’è in questura? E tu lì sei un randagio senza medaglietta.»
«Non è solo quello. È colpa mia che mi perdo a seguire cose che non c’entrano. Mi tradiscono la curiosità e l’istinto. Stasera sono andato a chiedere della Mariani.»
«Il tuo istinto a volte suggerisce strade giuste. Sulla Mariani posso aiutarti perché ha incuriosito anche me» disse Angela.
«Ho scoperto che non parla, forse ha l’Alzheimer.»
«Il collega che ha lo studio dove l’aveva il vecchio Malvisi in via Affò mi ha parlato di lei.»
«L’hai richiamato?» chiese il commissario stupito.
«Col mal di testa non potevo lavorare né leggere, così per non annoiarmi ho fatto qualche telefonata» giustificò lei.
Soneri non parve convinto della spiegazione, ma non obbiettò nulla.
«Be’, cosa ti ha detto?»
«Storie tristi. La Mariani, Venanzio, il figlio… Tutto rimasto a metà, incompiuto e poi impantanato con gli anni nell’acquitrino dell’assuefazione.»
«Dimmi di lei.»
«Era innamorata di Venanzio senza mai riuscire a confessarglielo del tutto. Lui pure, ma entrambi trattenuti da una moralità che li invischiava nei loro ruoli: lui professionista stimato lei segretaria fedele. Amavano apparire in questo fermo immagine di fronte agli altri convincendo anche se stessi, senza mai osare liberarsi dei propri ruoli. Entrambi giudicavano sconveniente uscire da quella pièce che doveva parere loro scritta dal destino e sigillata dalle convenzioni. Il punto d’incontro libero da equivoci nel quale convergere è quindi diventato Giacomo. Veronica l’ha preso come il figlio che avrebbe voluto e Venanzio ha potuto così essere il padre impegnato che ama il figlio per procura. Ma lei non è mai riuscita a essere madre appieno, né Venanzio un padre presente. Infine, nemmeno Giacomo li ha accettati come genitori, sentendosi addosso l’imbarazzo di quei due che avrebbero voluto essere tali senza riuscirci.»
«Forse è per questo che la Mariani è finita fuori di testa» ipotizzò Soneri.
«Non è detto, ma sicuramente non le ha giovato. Lei non si è mai liberata della sua opprimente umiltà. Essere la segretaria di Venanzio Malvisi, un grande professionista, le appariva come un traguardo sufficiente. Non osava chiedere di più. Non avrebbe mai preteso di sposarlo. D’altro canto lui avrebbe ritenuto impropria una richiesta di quel tipo. Perlomeno volgare di fronte ai suoi clienti. Loro avrebbero giustificato un matrimonio con qualche vedova di buona famiglia, non certo con la segretaria.»
«Ma dài! Ancora ’sti pregiudizi?» intervenne incredulo il commissario.
«Dovresti conoscere questa città. È fatta di casati, di dinastie. Era una piccola corte e lo è rimasta.»
Soneri sentì il desiderio di avere accanto la compagna. Stava per chiederle di cenare assieme, ma Angela lo scoraggiò annunciandogli che sarebbe andata a letto. Mentre si congedavano, il telefonino l’avvertì che qualcuno lo stava cercando.
«Sono al Copacabana» lo informò Musumeci con voce annoiata.
«Cos’è? Non hai rimorchiato?»
«Chiederò un rimborso spese, qui costa tutto un botto.»
«Ma ne vale la pena, no? Mi dicono che è pieno di stragnocche.»
«Con tutto il rispetto, io non avrei bisogno di venire qua per quello. Si trova anche a prezzi ragionevoli.»
«Hai notato qualche presenza interessante?»
«Mi sono appena seduto al tavolo. Ho impiegato un quarto d’ora a districarmi da un labirinto di Porsche e Maserati.»
«Almeno sei in compagnia?»
«Crede che qui si possa venire da soli come alla mensa Caritas? Già mi hanno guardato male all’ingresso benché sia vestito come alla cresima. In questo posto annusano il tuo conto in banca e il mio deve avere un cattivo odore.»
«Almeno farai contenta una delle tue fidanzate.»
«Ma quali fidanzate! Sono venuto con la collega Vicini. È lavoro no?»
«Non sapevo che tu e la Vicini… Be’, complimenti! Una gran bella ragazza.»
«Dottore, per carità!» abbassò la voce l’ispettore. «È qui vicino, non mi metta in imbarazzo.»
«Giusto» ammise il commissario, «stavo solo invidiandoti. Mi chiamerai più tardi?»
«Qui come minimo si fanno le due.»
«Allora domattina. Puoi venire in ufficio quando ti pare.»
Non aveva voglia di cenare da solo né sentiva fame. Conosceva quell’anomalia: era il sintomo di affanno e preoccupazione. L’inquietudine lo convinse a uscire di nuovo. Si diresse verso La bottiglia azzurra, dove trovò Sbarazza finalmente pervaso da un nuovo idillio.
«Una cantante» mormorò seduto di lato sulla sedia, la schiena appoggiata al muro. «Una creatura meravigliosa! Avesse sentito che voce… La voce di una donna è una delle cose più sensuali. Le esclamazioni, le risate, i gridolini di stupore…»
Mentre parlava, Sbarazza sorseggiava un calice di vino bianco avendo cura di appoggiare le labbra dov’era una traccia di rossetto. Lo fece con la delicatezza di un primo bacio.
«Al Regio è in programma qualche opera?» domandò il commissario pensando alla cantante.
«L’elisir d’amore» rispose l’uomo ancora immerso in un rapimento estatico. «E il ticchettare dei suoi tacchi quando se n’è andata…» riprese. «Anche il solo suono dei tacchi evoca la grazia femminile.»
«È quello l’elisir d’amore» stabilì Soneri indicando il bicchiere che teneva in mano Sbarazza. «Andrà all’opera?»
«Ci vado sempre. Non alla prima, non ce la faccio più.»
«I prezzi, certo…»
«No, non per quello. Non mi va di immischiarmi in quella sfilata di arricchiti ignoranti accompagnati da lacchè e cocorite. Ci ha mai fatto caso? Certuni paiono oranghi vestiti da Hermès e a metà del primo atto già si addormenterebbero se le loro petulanti signore non gli ficcassero i gomiti in pancia solo per salvare almeno le apparenze.»
Il commissario rise e ordinò un trancio di erbazzone.
«E poi» riprese Sbarazza, «i miei abiti da sera non sono più impeccabili. No, vanno bene le seconde e terze rappresentazioni per me.»
«E costano meno» insistette il commissario.
«Quello non m’importa, io entro gratis» minimizzò l’uomo. «Conosco la costumista e ho tutti i biglietti che desidero. Anche gli abiti, se volessi.»
«Potrebbe approfittarne.»
«Molti lo fanno, ma a me non importa. L’eleganza non è questione di abbigliamento.»
«Io potrei averne bisogno» buttò lì Soneri d’istinto.
«Lei?» si stupì Sbarazza. «I poliziotti possono sempre indossare l’uniforme» concluse sorridendo.
Il commissario non riusciva a capire da dov’era venuto quel suo oscuro bisogno, ma quando l’uomo gli porse un biglietto da visita con il telefono e l’indirizzo della costumista, lo prese e lo lesse passivamente: LETIZIA SCOGNAMIGLIO, ABITI DI SCENA.
«La conosco fin da quando ero studente» precisò l’uomo. «Gran bella donna, ai tempi!»
«E lavora ancora in teatro?»
«No, ha più di settant’anni! Ma il teatro ha bisogno di lei.»
«In che senso?»
«Possiede una collezione di costumi che occupa un intero laboratorio. È furba. Confezionava gli abiti per l’opera, ma replicava i modelli a casa. Così, negli anni, ha messo da parte tanta di quella roba che oggi vale oro. I produttori fanno la fila e lei i baiocchi. Quelli, poi, li affidava al vecchio Malvisi.»
«Malvisi? Si conoscevano?»
«Venanzio conosceva uno per uno i proprietari dei palchi privati al Regio. Alle prime poteva scegliere dove essere ospite.»
«Quindi anche Giacomo conosceva la Scognamiglio» chiese Soneri a cui si era presentata un’idea vaga.
«Certo!» esclamò Sbarazza che si mise a fissare il commissario. «Intuisco che mi sta dando retta: rintraccio un barlume di immaginazione nel suo argomentare.»
«Intuisce bene, vivo sempre in più mondi.»
«Non c’è niente di meglio, se quello che vediamo ci fa schifo. In questo io non ci metto più piede» rise.
Si alzarono dal tavolo e indossarono le mascherine.
«Queste ci facilitano» disse Sbarazza con la voce soffocata dal bavaglio. «Non ci riconosciamo quasi più. È come a carnevale, dunque si è in diritto di essere altro da sé.»
Soneri uscì. La nebbia piegava lo spazio tra le facciate delle case alla maniera di una lente deformante. Ancor più delle parole di Sbarazza, sospese in quello stagnare sinuoso a mezz’aria che deviava il senso verso un mondo immaginario. Su viale Toscanini, dal greto saliva con lentezza un vapore di pentola che traboccava indolente sul selciato. Il commissario alzò il bavero mentre dall’opalescenza fluttuante compariva il bus notturno. Istintivamente vi salì e subito la vide. Aveva quasi perso interesse nei confronti di quella donna, la cui mente si era sciolta a poco a poco nel solvente dell’abnegazione, ma non aveva voglia di andarsene a dormire alla fine di una giornata in cui il tempo gli era parso irrisolto e sospeso. Così si sedette e cercò di immaginare cosa provava la Mariani guardando la città immersa nella notte, con le sue luci e forse le apparizioni improvvise, sorprendenti in un paesaggio consueto. La nebbia e il suo straniamento cancellavano ogni prevedibilità. Soneri si chiedeva se anche Salimbene de Adam, otto secoli prima, aveva visto quel piccolo nido di case di pietra con la stessa improvvisa consapevolezza.
Il bus transitò di fronte alla stazione ferroviaria, immobile e più scura del cielo nello spazio vuoto dei binari, poi imboccò via Verdi. Allora la Mariani si alzò e si accostò alla porta. Quando il bus si fermò lei scese. Il commissario la seguì, cercando di dissimulare la curiosità che lo rendeva sospetto. Una volta sul marciapiede, lasciò che la donna guadagnasse terreno, poi liberò la bocca dalla mascherina e si accese il sigaro. Lei sembrava non accorgersi di niente. Camminava leggermente curva tenendo la borsetta stretta al fianco. Quando fu una trentina di metri avanti, Soneri si mosse a sua volta. La Mariani percorse la strada in direzione del monumento a Verdi e quando giunse davanti alla Camera di commercio prese via Affò scomparendo alla vista. Il commissario accelerò il passo e alla svolta la vide. Si tenne però ancora distante. La donna dapprima scrutò i nomi sui campanelli come in cerca di quello giusto, poi appoggiò l’indice sul citofono e passò a uno a uno i nomi scendendo dall’alto in basso. Compì quel gesto più volte finché la mano cominciò a tremarle. Alla fine fece un passo indietro perplessa fissando quelle caselle illuminate. Dopo qualche istante tornò a guardare con urgenza febbrile, quindi lasciò cadere la mano lungo il fianco e tutto il suo corpo parve rilassarsi quasi sul punto di cadere. Fu allora che Soneri sentì i primi singhiozzi. Si avvicinò con discrezione, mentre la Mariani si lasciava andare incurante sui gradini. Adesso piangeva di un pianto infantile senza rimedio scuotendo il capo furiosamente alla maniera dei cavalli che rompono il trotto. Soneri si avvicinò chinandosi leggermente verso di lei. Le lacrime cominciavano a inzupparle la mascherina abbassata sul mento.
«Cerca lo studio?» sussurrò.
La Mariani alzò appena lo sguardo, ma non disse niente. Il pianto sul suo viso formava una barriera di vetro.
«Lo studio di Venanzio?» insistette.
Quel nome la fece sussultare. Guardò speranzosa il commissario e smise di singhiozzare.
«Si è trasferito. Non è più qui» spiegò quest’ultimo porgendole la mano per aiutarla a rialzarsi.
Nel farlo la donna sospirò, e fu allora che Soneri sentì il suo alito alcolico.
«Non è più qui» mormorò sognante con un improvviso e improbabile lieve sorriso. «Venanzio ha traslocato» continuò guardando di fronte a sé come se parlasse nel sonno. Restò immobile per pochi secondi, quindi si riscosse, diede un’occhiata indifferente al commissario come se lo scorgesse per la prima volta, scosse l’orlo del paltò, si ravviò i capelli e riprese il cammino fino a che scomparve dietro l’angolo di via Garibaldi.