25

Dopo una breve euforia, era così ripiombato nel pantano. Entrando in questura si alzò la mascherina ben oltre il naso per nascondersi. Era stato un errore da principiante non pensare al retro della casa esposto a quella piccola prateria del greto. Cominciava a pensare di essere vecchio, di avere amnesie e sbadataggini da vecchio. Questo pensiero lo terrorizzava con la sua ombra di decadenza. Musumeci gli stava di fronte con espressione dolente e gli dava l’idea del bracco fedele che ha fallito una ferma. Juvara, dal canto suo, si riparava dietro lo schermo ogni volta che sentiva la tensione salire.

«Potremmo tener d’occhio borgo Antini» ruppe il silenzio Musumeci.

Il commissario scrollò il capo: «Dovrebbe essere più che fesso a tornare lì» borbottò.

«Magari andrà a chiedere aiuto ai suoi amici del Copacabana» azzardò ancora l’ispettore. «Sono sicuro che lo frequentasse.»

«Ho idea che quelli l’abbiano già liquidato. Non ha né soldi né informazioni da fornire.»

«Dice la stessa cosa la Vicini» convenne Musumeci. «È in gamba la ragazza.»

«Ti ha già addomesticato?»

«Ma no, dico sul serio. Secondo me è una che c’ha stoffa.»

«E tu vorresti toglierle quella che ha addosso.»

«Rischierei la pelle. È capace di tirar fuori la pistola. La prima cosa che mi ha detto appena salita in macchina è di non fare il cretino perché lei gli uomini se li sceglie.»

«Se ha detto così deve essere in gamba davvero. E comunque, non ha scelto te» concluse Soneri. «Se un giorno ti troveranno dentro un fosso con un buco in testa saprò chi è stato.»

Avrebbe voluto che il tono risultasse scherzoso e invece erano uscite parole senza nerbo, così spente che nessuno dei tre sorrise. Ma nemmeno sapevano cosa fare. Pasquariello aveva promesso l’impegno delle volanti ed era stato diramato l’ordine di ricerca anche ai cugini dell’Arma, benché, se Zerbini fosse caduto in mano loro, lo smacco sarebbe stato peggiore della latitanza. Soneri friggeva sciogliendosi nello sconforto. Si sentiva impotente come immaginava lo fosse stato Petrarca quando, proprio a Parma, nella strada col suo nome che si intravvedeva dal portone della questura, apprese della morte di Laura. Nell’istante in cui suonarono le otto dal campanile di San Giovanni, il commissario scattò in piedi e uscì. Appena raggiunse il portico di via Mazzini, avvertì Angela che sarebbe arrivato di lì a poco, quindi accelerò il passo. La vista dell’Oltretorrente gli ricordò di nuovo lo smacco di via Po. Ce l’aveva anche con la Scognamiglio. Le aveva telefonato sfogando la rabbia su di lei, ma aveva dovuto arrendersi di fronte alla sua logica beffarda.

«Mi aveva detto di non avvertire Zerbini, ma non di avvertire lei se si fosse presentato. C’era un suo uomo qui…» si era difesa la costumista con fare infingardo.

Aveva incassato lanciando alcuni avvertimenti minacciosi nei confronti dei quali la donna non aveva replicato, ferma in un silenzio sprezzante.

Angela cercò in ogni modo di irrobustirgli l’umore, ma il commissario non reagiva alla cura arenandosi spesso in pause di apatico silenzio.

«Sono vecchio» sbottò alla fine con voce raschiante di rammarico.

«Ma smettila!«gli ingiunse Angela. «La tua è una sorta di ipocondria da anagrafe. Conti gli anni e ti pare di avere tutti i segnali della vecchiaia, ma è come leggere i sintomi di una malattia e pensare di averla.»

«Sono tutti discorsi consolatori. Forse sono rivolti inconsciamente anche a te stessa.»

«Forse. I cambiamenti di una donna sono molto più profondi, la differenza è che noi li accettiamo come un’altra fase della vita e non come lo scivolare verso la fine» replicò Angela.

Dalla tavola, dove Soneri aveva mangiato senza gusto, si spostarono sul divano. Lei lo abbracciò avendo l’impressione di stringere un intrico di nodi. Poi il commissario iniziò a lasciarsi andare abbracciando a sua volta la compagna. Quando il desiderio li prese il cellulare squillò.

«L’abbiamo trovato» annunciò Pasquariello senza nessuna euforia.

«Dove?» chiese con ansia Soneri.

«Sotto il ponte Bottego. Ci ha avvertito il 118. Uno dei barboni che vivono nelle baracche ha fermato un’ambulanza per avvisare che c’era un uomo messo male nel greto.»

«Era svenuto o cos’altro?»

«Non lo sappiamo» rispose Pasquariello. «Da come me l’hanno descritto ho pensato a uno che s’è preso il covid. Tossiva in continuazione.»

«Dov’è adesso?»

«L’hanno portato al Maggiore, non era del tutto cosciente. La pattuglia che è intervenuta mi ha riferito che balbettava e non si capiva cosa dicesse.»

Soneri chiuse la telefonata e scattò in piedi. Sentì il corpo rinserrarsi e tornare teso. Angela lo fissò delusa e contrariata.

«Se avessi un’altra mi darebbe meno fastidio di quel telefono» ringhiò.

Il commissario non rispose, prese il cappotto e uscì nella nebbia che saliva dal torrente. Vi si immerse e vi sparì dentro come dissolvendosi. Camminò per una decina di minuti con l’impressione di percorrere un tunnel, finché scorse le arcate lugubri del ponte. Passò davanti a un paio di agenti infreddoliti e scese nel fango del greto finché non giunse alle baracche all’asciutto sotto le volte. Un uomo con un cappotto sdrucito e una sciarpa avvolta intorno alla testa si mostrò nella luce stenta che arrivava dai lampioni.

«È venuto da me» sussurrò l’uomo a cui mancavano alcuni incisivi.

Pareva orgoglioso che l’avesse fatto. Infatti subito dopo ribadì: «È venuto a chiedere aiuto a me» indicando con un rapido gesto delle mani se stesso.

Soneri lanciò un’occhiata alla baracca di legno e cartoni appoggiata sbilenca al muro d’argine come un ubriaco.

«È sceso giù o veniva dal greto?» domandò.

L’uomo rise mostrando una sparuta dentatura gialla.

«Qui non viene nessuno del mondo di sopra» rispose. «Qui è l’inferno e vi discende solo chi ci è costretto: quelli che gli altri non vogliono vedere e quelli che non vogliono essere visti.»

Il commissario osservò di nuovo quella tana di polvere e sporcizia sotto l’arcata che l’acqua poteva prendersi all’improvviso trascinando via tutto.

«Com’era messo?» chiese poi, mentre sopra alle loro teste passava il traffico sporadico della tarda serata e di tanto in tanto si udiva lo stridore di un treno dalla vicina stazione.

«Si reggeva a malapena, mi pareva avesse la febbre. L’ho accolto in casa» sghignazzò l’uomo mostrando la baracca.

Lo lasciò che ancora rideva con ostinata amarezza. Risalì verso viale Piacenza come riemergendo da un fondale. Si ricordò di Tinelli che aveva passato una vita sotto la crosta di apparenza su cui camminano tutti. Invece Soneri, benché camminasse sui marciapiedi tra i lampioni e le insegne luccicanti, si sentiva sprofondare. Zerbini gli era sfuggito un’altra volta e si era consegnato a uno degli ultimi della città. Poco importava che il caso si fosse risolto, il merito non sarebbe stato suo. Ma non era tanto quello a pesargli, quanto la consapevolezza dello scorrere indipendente dei fatti sui quali si affacciava da spettatore. Più in generale, sentiva che tutto ciò era l’immagine riflessa della vita sulla quale si era fino allora illuso di incidere. Pensava ai casi del passato e da quella riflessione uscì la convinzione che la soluzione non fosse mai stata sua, ma una combinazione di casualità. Ciò che accadeva gli pareva irriducibile alla volontà, e il suo marciare circonfuso di una verità imperscrutabile.

Nel cortile della questura incontrò Musumeci che lo informò dell’impossibilità di interrogare Zerbini.

«È semicosciente e farfuglia» precisò l’ispettore.

«Cosa dicono i medici? Pensano che abbia il covid?»

«Potrebbe essere, stanno eseguendo i tamponi, ma per ora non hanno detto niente.»

«È stato perquisito? Aveva appena rapinato la pensione a un anziano…»

«Trecentoquaranta euro, il resto doveva averlo già sputtanato.»

«Quasi mille euro in una giornata?»

«Evidentemente c’ha le mani bucate» rispose Musumeci. «E il naso bruciato dalla coca» aggiunse. «Ne aveva addosso due grammi, ma mi dà l’idea che gli sarebbero bastati per poco.»

«Come Malvisi, stesso vizio» mormorò Soneri.

«Compagni nello sniffo» sottolineò l’ispettore.

«E non solo» aggiunse Soneri lanciando un’occhiata al secondo piano dove tutte le finestre erano ancora illuminate.

Immaginò che Capuozzo fosse già intento a spifferare ogni cosa ai giornalisti amici con telefonate confidenziali, tipo “ti dico tutto ma non ti ho detto niente”. Juvara però gli riferì che il questore se n’era andato da un paio d’ore perché stava male e che in ufficio era appena arrivato il suo vice Cantamessa.

«Meglio» stabilì il commissario, «Cantamessa detesta i giornalisti, dunque non avremo sorprese almeno fino a domani.»

«È già tutto sui siti» lo gelò l’ispettore. «Almeno da mezz’ora.»

Soneri ebbe un gesto di stizza gettando il cappotto contro l’asta dell’attaccapanni che vacillò e rischiò di cadere.

«Tanto l’avrebbero saputo comunque» cercò di minimizzare Juvara. «Cosa le importa?»

«M’importa che non si possa muovere un foglio di carta senza che si venga a sapere. Siamo sotto sorveglianza» sbraitò contro il vetro della finestra come se ci fosse qualcuno ad ascoltarlo nel cortile. Ma subito dopo, quando l’ispettore gli lesse i titoli dell’ultim’ora, la sua insofferenza divenne rabbia.

Sfugge alla polizia e si consegna a un barbone titolava il sito del giornale cittadino. Altri riportavano una notizia di agenzia: La Primula rossa delle truffe individuata da un clochard. In uno di questi c’era la foto dell’eroe del giorno con sopra il titoletto: Il poliziotto-clochard.

Soneri si staccò dal video che gli aveva mostrato Juvara.

«Chiudi ’sta roba, ne ho abbastanza d’esser preso per il culo.»

Aprì uno spiraglio della finestra, abbassò la mascherina e si accese il Toscano.

«Mica ce l’hanno con lei» intervenne timidamente Juvara. «Semmai tutti noi…»

Il commissario lo zittì con un gesto della mano in cui teneva il sigaro. «No, tu e gli altri non c’entrate, sono io il bersaglio» disse pensando a quel titolo che parlava del poliziotto-clochard.

Musumeci si riscosse all’improvviso.

«Al Copacabana bazzicano alcuni giornalisti» ricordò. «Sanno che lì la pesca è sempre fruttuosa.»

«Hai capito perfettamente» approvò il commissario.

«Me l’ha fatto notare la Vicini, che ne conosce parecchi» precisò l’ispettore.

«Dovresti sposarla, quella è davvero in gamba» disse Soneri.

Anche stavolta le parole suonarono morte e nessuno sorrise. Il silenzio s’impadronì della stanza. Nel cortile si udivano i rami del grosso abete sgocciolare sull’asfalto con un suono di disfacimento. Quell’immobilità che precedeva la notte fu interrotta dallo squillo del telefono.

«Finalmente è finita» lo investì la voce della Falchieri.

«Ha dato lei la notizia ai giornali?»

«Dovrebbe sapere che io non ho mai telefonato a un giornalista in tutta la mia carriera.»

«Era solo per verificare.»

«Anch’io ho visto i siti. Ma non è stato il questore?»

«È a casa malato.»

La piemme sospirò.

«Sia io che lei abbiamo dei sospetti, ma nessuna prova. Avviare un’inchiesta in queste condizioni…»

«Lasci stare» la interruppe il commissario. «Adesso è finita.»

«Adesso tocca a me, ma ancora non è possibile interrogare Zerbini: è pieno di cocaina e di alcol. In più gli stanno facendo gli esami per capire se la febbre è da covid o da altro.»

«Esco di scena» annunciò Soneri. «Il poliziotto clochard torna sotto i ponti» aggiunse sarcastico.

«Non se la prenda. Per ora dovrà accontentarsi della mia stima.»

«Grazie, ma lei è il medico che arriva quando il paziente è già spirato.»