Camminando, Soneri venne pervaso dallo stupore per come tutto potesse cambiare in un attimo. Il divenire di ciascuno era legato al caso, a un’imperscrutabile roulette che emetteva sentenze dopo un’infinita sequenza di saltelli. E questa volta, nel ruolo della pallina c’era la Mariani, ferma sulla casella nera e dispari di via Affò. Davanti all’entrata dell’edificio, un gruppo di impiegate fumava sul marciapiede alzando di tanto in tanto gli occhi verso le finestre degli uffici. Quando il commissario passò loro accanto sentì che si stavano raccontando ciò che avevano visto e sentito. Dalla parte opposta della strada una piccola folla di curiosi osservava a distanza attratta dai lampeggianti della polizia. Qualcuno si era affacciato dalle finestre. Entrò e salì al primo piano. Lo accolse la Vicini, mentre un paio di agenti delle volanti si occupava degli ultimi rilievi, scrutandolo di tanto in tanto con l’aria di chiedersi perché il capo della Mobile fosse lì. Anche Soneri se lo chiedeva, nella consapevolezza di svolgere un’indagine non autorizzata, come l’aveva definita la Falchieri.
«Non è più in sé» ribadì la Vicini.
Il commissario, invece, pensava al significato di quel gesto e mentre meditava ebbe la consapevolezza di essere il solo a sapere. Stava per informare l’agente, ma si rese conto che, raccontando, forse avrebbe solo acuito la propria solitudine. «Lei è fissato» gli aveva detto la Falchieri, incredula nei confronti di un investigatore che non si dava pace davanti a un caso così chiaro.
Dunque si limitò ad ascoltare la Vicini ricostruire l’accaduto. Verso le 11.40, la Mariani si era presentata come una cliente nello studio Montanari, lo stesso occupato per anni da Venanzio Malvisi. Dall’agenda risultava che avesse preso appuntamento due giorni prima. Dopo un quarto d’ora di anticamera, durante il quale la donna non aveva mostrato segni di stranezza, era stata fatta entrare nella stanza del commercialista. Per qualche minuto aveva raccontato sorridendo la disposizione dell’ufficio quando lo occupava Venanzio, poi, improvvisamente, si era tolta i vestiti e con un taglierino si era incisa i polsi.
«Montanari non ha provato a fermarla?» domandò Soneri.
«Pare di sì, ma dice che lei lo ha minacciato con la lama. Dopo essersi ferita, si è sentita male ed è crollata su una sedia.»
«Non ha detto nient’altro?»
«Alcune frasi confuse» spiegò la Vicini estraendo il telefonino. «Per non dimenticarmele le ho trascritte negli appunti sul cellulare. Eccole qua. Ha urlato: “Guarda come sono, non mi puoi più avere”. E poi: “Non mi è rimasto più niente”. Tutto qui. Poi è svenuta.»
Soneri rimuginò per qualche istante con aria assente. La Vicini lo scrutava e con intuito femminile percepì qualcosa perché chiese: «Crede anche lei che sia matta o c’è altro?».
Il commissario le sorrise e si convinse del tutto che era una ragazza sveglia.
«Credo che sia solo una matta» la rassicurò.
«Non me ne intendo di pazzi, ma certo è un po’ strano. Sembrerebbe una sceneggiata, però mi sfugge il senso.»
«Appena puoi, mandami il rapporto» raccomandò lasciando cadere il discorso mentre già si allontanava.
Avrebbe appreso i particolari leggendo. Si fidava di quella ragazza. Del resto lui aveva già tutto in testa. Il gesto in sé non gli importava più di tanto. Più della profondità dei tagli, del nome delle vene recise e del tipo di lama, avrebbe voluto conoscere la regia di quel breve atto unico. «Non mi è rimasto più niente» aveva detto la Mariani. Quella frase gli si era conficcata nel cervello. Vi erano concentrati l’amarezza e il fallimento di una donna che era invecchiata nella speranza di essere vera: una vera amante, una vera madre e una vera professionista in quello studio dove passava la città dei ricchi. Invece era rimasta ferma a metà strada nella metamorfosi che avrebbe desiderato compiere: non era più bruco, ma nemmeno aveva mai volato da farfalla.
Pensare a lei lo riempiva di tristezza. Era il destino di molti vivere rammaricandosi della propria incompletezza. Improvvisamente sentì il bisogno di sapere come stava la Mariani. Non sapeva cosa augurarle, se la serenità che aveva cercato tagliandosi le vene o una vita trascinata nella frustrazione. Sperò che davvero fosse andata con la testa, le avrebbe risparmiato molte sofferenze. Perciò si diresse all’ospedale Maggiore, ostinandosi ad attraversare il centro intasato per non prendere la tangenziale. Odiava le tangenziali. Percorrerle significava inoltrarsi in un mondo tutto uguale lambendo una città senza più nome né volto. Un itinerario nel cuore vuoto dell’amnesia dove si smarriva perdendo l’orientamento come i gatti in un trasloco.
Arrivò in via Abbeveratoia, l’ingresso che aveva soppiantato lo storico accesso di via Gramsci verso cui guardavano ancora i vecchi edifici che Margherita di Savoia aveva accarezzato freschi di calce tra le due guerre.
Cercò del dottor Antonio Bocchi dopo aver superato la misurazione della febbre all’ingresso. Con un po’ di fortuna l’avrebbe trovato al lavoro. Poco dopo si presentò la figura un po’ curva e dinoccolata del medico, uno con cui aveva giocato a pallone nelle file del Minerva calcio. Entrambi avevano sempre riso di quel nome. Era buffo chiamare come la dea della sapienza una cosa fatta coi piedi. Anche se erano passati anni, Bocchi aveva la stessa risata di allora. Il commissario la riconobbe da una specie di sibilo sfuggito da sotto la mascherina. I capelli no, quelli erano scomparsi lasciandogli un cranio lucido che quasi rifletteva. Soneri ricordava i suoi goal di testa con la chioma che, nel gesto, frullava di lato da sembrare una bandiera.
«Sarai mica malato?» chiese il medico.
«Sono qui per servizio. Anzi, no» si corresse, «diciamo per curiosità.»
«C’è poco da curiosare in questo posto. Eccetto la maternità, ci sono solo sofferenze.»
«Appunto. Hanno portato dentro un’anziana che si è tagliata le vene. Volevo sapere come stava. Si chiama Veronica Mariani.»
«Sento dal primario del pronto soccorso, sarà passata per forza da lì.»
Dopo un breve dialogo, Bocchi disse: «L’hanno spedita in chirurgia. Vuoi che chiami il collega?».
«Mi basta sapere se se la caverà o no.»
«Ce la farà. È un codice giallo. Si vede che i tagli non sono profondi abbastanza. Avrà perso un po’ di sangue, ma gliene è rimasto a sufficienza.»
«Col pallone hai chiuso?» cambiò argomento Soneri.
«Qualche volta vado a calcetto. Il campo è piccolo e c’è meno da correre. E tu come sei messo?»
«Io corro dietro ai delinquenti e lì il campo è molto più grande.»
«Giusto così, eri un mediano o no?»
Passò la caposala e consegnò alcuni fogli al medico.
«Devo andare» si congedò Bocchi, «qui si corre più che a calcetto.»
Uscì dall’ospedale e poté finalmente fumarsi il sigaro respirando senza bavaglio. Lungo la rampa dell’ingresso scorse arrivare la Vicini. La guardò camminare, sembrava una studentessa. L’aveva colpito. Ammirava quell’impasto di grazia e fermezza. S’immaginò di corteggiarla, ma la freschezza che emanava dalla giovane agente spense precocemente quel pensiero proprio perché era ciò che l’età gli aveva sottratto. Diventare anziani era censurare se stessi per una forma di prudenza evitando di inciampare nell’azzardo.
«Il magistrato vuole che interroghiamo la Mariani» annunciò l’agente. «Vado ad accertarmi che sia in grado, sennò tornerò.»
«Dovrebbe, è un codice giallo. Se è sveglia sarà cosciente. Per quel che può esserlo» dubitò Soneri.
«Vedremo» disse la ragazza. «Potrei essere sua figlia. Forse a me dirà qualcosa proprio per questo. Lei si è fatto un’idea?»
«Vaga» rispose evasivo il commissario. «Troppo vaga, dunque poco utile.»
L’agente lo fissò perplessa.
«Adesso vado» si mosse. «Se riesco a farle dire qualcosa di sensato, le riferirò.»
Soneri rientrò in questura. Dalla porta aperta sul corridoio vide Musumeci nella stanza degli ispettori che telefonava e rideva con i piedi sul tavolo. Nel suo ufficio, invece, Juvara smanettava sulla tastiera con l’aria di divertirsi.
«Cos’è? Una sala Bingo con le macchinette?» rampognò poco convinto.
Poi aprì la finestra di fessura e si mise a fumare, improvvisamente disinteressato a tutto, fissando il cortile dove ogni tanto arrivava o partiva una volante.
«Ho l’esame definitivo del tabulato telefonico di Ferrari» avvisò svogliato Juvara. «Se le serve ancora…» aggiunse.
Il commissario alzò le spalle. «C’è qualcosa di interessante?»
«Solo una stranezza» precisò l’ispettore.
«Sarebbe a dire?»
«Le telefonate dirette a Malvisi sono agganciate alla cella TIM di via Po.»
Il nome di quella strada risvegliò il ricordo di una beffa dolorosa.
«Che area copre?»
«Una parte del quartiere Montebello, la zona del Centro contabile ex Banca Commerciale, una parte di via Langhirano e un grosso settore del quartiere Montanara.»
«Non c’entra niente con via Bixio» constatò Soneri.
«Sta qui la stranezza» convenne Juvara. «Tutti noi ci spostiamo e telefoniamo stando in giro, ma possibile che tutte le chiamate a Malvisi venissero da lì?»
«Hai esaminato anche il resto del traffico?»
«Non c’era granché nel tabulato della settimana per la quale il magistrato ha concesso l’autorizzazione. Un paio di telefonate si sono agganciate alla cella tra il campus universitario e la zona del Cinghio.»
«Stesso territorio, più o meno.»
«Sì, le facoltà dell’ateneo in via Langhirano, il Montanara e le frazioni di Gaione e Antognano.»
«Hai ragione: è molto strano.»
«Se avesse telefonato dalla sua casa di via Bixio o dai dintorni, il telefono si sarebbe agganciato alla cella del cimitero della Villetta, oppure a quella della torre piezometrica dell’acquedotto, che è lì vicino» stimò l’ispettore.
Soneri cercò una spiegazione invano. Quell’informazione lo inquietava e lo rendeva felice al tempo stesso. Era paradossale che, in quel groviglio senza logica, scorgesse un appiglio al quale agganciare il suo accanimento. Avrebbe potuto dire alla Falchieri che finalmente non era tutto chiaro.
«Cerchiamo di allargare l’indagine sui tabulati almeno all’ultimo mese. Se risulta che quel telefono è stato usato prevalentemente in quella zona, un chiarimento si impone, non credi?»
Juvara assentì con un’espressione soddisfatta mentre il cellulare di Soneri prese a squillare. Fece un cenno di approvazione all’ispettore prima di rispondere.
«Passi da noi oggi pomeriggio, mio fratello l’aspetta» sentì dire da Artenice con il tono neutro e definitivo di un annuncio d’altoparlante. Poi riattaccò senza dargli il tempo di replicare.
Soneri mangiò in solitudine all’enoteca da Bruno sotto i portici cupi di via Farini. Doveva essere il giorno di riposo per la cameriera grandi forme e forse per quello Nanetti aveva declinato l’invito a pranzo. A giudicare dai tavoli vuoti, il locale doveva subire un calo di fatturato quando mancava l’attrazione principale. Se la sbrigò alla svelta e uscì nel momento del giorno in cui la luce d’autunno oscillava in equilibrio tra la fine della mattinata e la precoce discesa verso il buio. Dentro la nebbia era spuntato anche un mezzo sole, come una flebile speranza. Si fermò in piazza per godere di quella pausa simile a una breve domenica, ma dopo qualche minuto, una folata di nebbia richiuse il cielo, la piazza cambiò colore e la città riprese ad ansimare. Il commissario allora si diresse a Barriera Bixio. Passò da piazza Ghiaia, l’ex mercato popolare trasformato in una pretenziosa sfilata di boutique. Dal ponte Caprazucca scese in piazzale Rondani e sfociò in via Bixio. Prima di giungere alla barriera, scorse da lontano Artenice che rincasava con passo veloce. Soneri si fermò dietro una fila di auto finché la vide scomparire dentro il portone. Attese qualche istante prima di muoversi. Poi suonò il campanello e salì le scale velocemente. Quando giunse sul ballatoio gli parve di udire la coda di una discussione. Era sicuro che i due fratelli si fossero detti qualcosa nel lasso di tempo tra l’arrivo di Artenice e quello del commissario. Il silenzio era però tornato assoluto quando la donna aprì la porta. Soneri la scrutò attentamente, stupefatto che non fosse rimasta traccia della fretta con cui era rincasata. Lei gli fece strada precedendolo e, una volta giunta sulla soglia del salotto, si scostò per farlo passare invitandolo a sedersi con un cenno.
«Desideravo vederla» lo accolse Ferrari. «E dopo quel che è successo avrei da raccontare tante storie…»
«A cosa si riferisce?»
«Come? Non se lo immagina? Alla Mariani, no? Ne ha parlato il notiziario di TV Parma. Appena ho saputo ho immaginato tutto. D’altra parte anche lei si sarà fatto un’idea.»
«Vaga» fece Soneri.
«Avrei voluto parlare d’altro, ma questo fatto…»
«Ha colpito molto anche me. Perlomeno per la bizzarria con cui è avvenuto. E tutte le cose bizzarre è come se ci sfidassero.»
«Quella donna ha molto sofferto» spiegò con tono grave Ferrari. «Venanzio l’ha sempre tenuta a distanza e il figlio l’ha ridotta in miseria.»
«Ha derubato anche lei?»
«Tutta la liquidazione e la casa di famiglia, una villetta in via Guicciardini che valeva un milione di euro. L’ha convinta a ipotecarla per avere soldi dalle banche e le banche se la sono mangiata con tutti i mobili e i lasciti della famiglia.»
«Non credo che la Mariani fosse una sprovveduta. Facile che ci sia stato dietro dell’altro. Un affare per esempio.»
«I sentimenti!» sbarrò gli occhi Ferrari. «Sempre quelli ci fregano. Lei avrebbe dato un braccio per ingraziarsi Giacomo e fargli da madre. Avrebbe fatto di tutto. E poi c’era di mezzo lo studio. Se fosse fallito sarebbe finita nella polvere anche la memoria dell’altro suo amore: Venanzio. Capisce?»
Il commissario assentì. «Spesso capita di innamorarsi delle persone sbagliate. E più ti fanno del male, più le si insegue per sfida o per una stupida ripicca.»
«Credo che sia stato così, per la Mariani. Lo sa che aveva cominciato a studiare economia? Voleva laurearsi e avvicinarsi al ruolo di Venanzio. Una laurea l’avrebbe fatta sentire meno inferiore e forse più attraente.»
«E com’è andata a finire?»
«Venanzio la considerava un’impresa velleitaria, ne sorrideva, convinto che non ce l’avrebbe mai fatta, ma non la ostacolava. Giacomo, invece, l’ha sempre osteggiata. Per lui era solo una segretaria. Le faceva saltare apposta gli esami con la scusa di lavori urgenti.»
«E per quale motivo?»
«Perché era una serpe» rispose sprezzante. «Ha sempre pensato di appartenere alla razza che comanda. È così per chi nasce col culo nel cotone.»
Arrivò Artenice a servire il caffè. Prima di porgere la tazza al fratello versò un cucchiaino di zucchero e mescolò come avrebbe fatto con un vecchio o con un bambino.
«Sua sorella esce spesso?» cambiò discorso il commissario parlando sottovoce quando la donna fu uscita.
Ferrari ammutolì per un istante.
«Quand’è necessario, come fanno tutti» rispose con tono improvvisamente incerto, quasi si scusasse.
Seguì una pausa di silenzio in cui gli sguardi si incrociarono carichi di imbarazzo e di sospetto. Era come se improvvisamente entrambi avessero scoperto un doppio fondo nei loro pensieri. Sia Soneri che Ferrari avevano da spiegare qualcosa che tuttavia non potevano dire. Furono istanti così intensi da valere un discorso e molti sottintesi. Poi il commissario decise di chiudere la conversazione nello stesso modo: senza dire una parola, si alzò e uscì. Aveva qualcosa di urgente da sbrigare, anche se non sapeva bene a che scopo e dove portasse. Scese in strada e fu sul punto di telefonare a Musumeci. Poi ci ripensò e chiamò la Vicini.
«Vorrei che tenessi d’occhio una persona.»
«E chi sarebbe?»
«Si chiama Artenice Ferrari, abita in via Bixio.»