L’agente sedette di fronte al commissario tradendo un lieve nervosismo per l’incarico fiduciario che si apprestava a svolgere. Con meticolosità da accademia, volle sapere tutto. Il commissario le spiegò chi era Artenice, le sue abitudini, la dedizione al fratello e quell’aura da suora che le conferiva un aspetto arcigno e freddo. La ragazza ascoltò il racconto, quindi chiese: «Che sospetti ha su questa donna?».
Soneri non seppe rispondere immediatamente. Avrebbe dovuto riferire di sensazioni, sguardi imbarazzati, intuizioni… Tutte cose che era impossibile spiegare e non avevano niente a che fare con i consueti motivi per cui si fa pedinare qualcuno. Per questo fu costretto a confessare che si trattava solo di verifiche. La ragazza lo fissò poco convinta, ma sembrò intuire quel groviglio di sensazioni che covava nella testa del commissario e non indagò oltre.
«Il dirigente è avvertito? Dovrò rendere conto» obbiettò timidamente la Vicini.
«A Pasquariello penserò io e il questore è malato. D’altro canto credo che basteranno un paio di giorni» la rassicurò Soneri.
«Un’indagine non autorizzata?» sorrise d’intesa l’agente.
«Proprio così» confermò il commissario sorridendo a sua volta pensando alla stessa espressione usata dalla Falchieri. «La mascherina e il tuo aspetto giovanile non dovrebbero destare sospetti.»
«Sarebbe utile per me sapere cosa dovrò notare» insistette la Vicini.
«Solo dove va nei pomeriggi, l’ora in cui esce e ritorna, se incontra qualcuno e se va a casa di qualcuno.»
«Un pedinamento ordinario» concluse la Vicini rassicurata.
Mentre stava uscendo, il commissario la fermò: «Se qualcuno ti chiede informazioni, di’ che ti ho affidato un incarico e che se vogliono sapere di cosa si tratta si rivolgano a me».
La ragazza assentì e si avviò in silenzio.
Faceva già quasi buio. Soneri restò solo in ufficio assorto in pensieri vaganti e bizzarri come voli di storni. Gradatamente l’oscurità conquistò anche la stanza della Mobile e lui vi si lasciò sprofondare. Bussarono alla porta e un agente entrò senza aspettare la risposta. Aveva in mano un fascicolo che depositò sulla scrivania di Juvara e uscì rapidamente. Allo scuro non si accorse della presenza di Soneri, che invece aveva visto tutto nello spiraglio di luce del corridoio. Gli sembrava di essere invisibile come lo è una vetrata per un uccello. La differenza era che il commissario non si sentiva per nulla solido. Al contrario, gli pareva di sciogliersi dentro l’oscurità allo stesso modo in cui si dissolvevano i lineamenti delle cose col crescere del buio. Tutto era solubile nel buio: la geometria del mondo, i colori, il movimento delle cose e, da ultima, la ragione che si ostina a cercare di capire. Ma proprio la ragione, in un ultimo guizzo prima di arrendersi, continuava a mostrargli il caso Malvisi subdolamente liscio e lucente. Troppo per un uomo tragicamente consapevole dell’imperfezione del mondo. Così, suo malgrado, la vicenda continuava a essere renitente al buio come la brace del sigaro che si stava fumando, una spia rossa davanti ai suoi occhi a indicargli un’anomalia.
Improvvisamente la porta si spalancò e la luce abbagliante dell’ufficio gli fece lo stesso effetto di una secchiata d’acqua.
«Cosa fa al buio?» domandò Musumeci sorpreso.
«Mi ero addormentato» mentì il commissario. «Non tutti si presentano in ufficio alle dieci come te.»
«Spesso faccio il notturno» ridacchiò l’ispettore.
Subito dopo divenne serio. «Volevo dirle che mi dispiace» riprese.
«Per cosa?»
«Per Zerbini. Mi sono fatto gabbare come un pivello.»
Soneri capì che si riferiva alla beffa di via Po.
«Ne parlano, vero?»
L’altro scosse la testa imbarazzato. «Mi sono preso la colpa.»
«Non importa» disse il commissario, «sono io il responsabile. E poi ce l’hanno con me, non con te.»
«Calabritti e Magliaro sono due serpi.»
«Li hai sentiti?»
«Non direttamente. Sanno bene che lavoro con lei. Sono scaltri. Lo so da colleghi che ogni tanto li frequentano.»
«Tanto è inutile farsi il sangue marcio. Potrei compiere gesta eroiche ma ai loro occhi resterei un cretino.»
«Lo consideri un onore. Dovrebbe preoccuparsi se la stimassero.»
«C’è chi, per giustificare la propria insipienza, getta discredito sugli altri nel tentativo di renderli uguali a se stessi. Fanno più danni dei delinquenti.»
Soneri cercava di restare calmo ma la voce vibrava a tratti tradendo la rabbia. Per il genere di gente a cui appartenevano Magliaro e Calabritti non era affatto invisibile. Sapevano sempre dove trovarlo.
«L’agente Vicini mi ha telefonato poco fa per pregarmi di riferirle che la Mariani non è attendibile. Delira. Parla di un marito che non ha mai avuto e a un certo punto si è convinta che lei fosse sua figlia Monica. Si scusa, ma l’apprensione per l’incarico che le ha affidato le ha fatto passare di mente di dirglielo.»
«Ti risulta che abbia una figlia?»
«No, sarà come il marito: se l’immagina.»
«Povera donna» disse Soneri, «a forza di vivere di sogni ha finito per affogarci.»
Musumeci si abbottonò la giacca a vento e si accomiatò. Quando ebbe la maniglia in mano, il commissario lo richiamò, indirizzandogli uno sguardo in tralice.
«Certo che tu e la Vicini…» disse unendo e allontanando i due indici più volte.
«È solo lavoro» spiegò sogghignando l’ispettore.
«Non fare il cretino, eh! Quella è una brava. Forse un po’ troppo emotiva, ma s’indurirà col tempo.»
«Sarei un pazzo» rispose Musumeci, «le ho già spiegato che ha la pistola facile.»
«Ci hai già provato, allora?»
«Macché! Scusi, sa, ma una certa esperienza ce l’ho in questo campo.»
«Be’, allora sii prudente.»
Aveva acceso la lampada da tavolo che illuminava giusto la scrivania. Il tutto assunse un’aria intima mentre si preparava a chiamare Angela. Ma lo squillo del cellulare lo precedette.
«A mio fratello è dispiaciuto che se ne sia andato così presto» irruppe la voce di Artenice, come sempre dura e priva di emozioni.
«Avevo un affare urgente da sbrigare» rispose il commissario con indifferenza.
«Pensa di averla offesa.»
«No, le ho spiegato perché.»
«Lui ha sempre paura. È troppo sensibile.»
«Tanto da aprire la pancia a un uomo per soldi!» sbottò Soneri insofferente di fronte all’atteggiamento della donna.
«Domani torni a trovarlo» continuò lei senza tradire il minimo turbamento.
«Magari vengo quando lei è fuori» insinuò Soneri.
«Esco solo per fare la spesa, per andare a messa e al cimitero dai miei» replicò imperturbabile Artenice.
Indispettito, il commissario si apprestava a salutare, quando la donna aggiunse improvvisamente implorante: «Venga, non se la prenda».
Quel tono sorprendente suggerì a Soneri il pensiero che in tutte le persone pervase da fedi profonde coesistessero comprensione e disprezzo. Forse era quella la chiave per capire Ferrari e il suo gesto.
«Se avrò tempo verrò» tagliò corto il commissario riattaccando.
Più tardi, già di fronte ad Angela al Milord, tornò sull’argomento, ma lei sviò infastidita.
«Siamo qui per festeggiare la mia guarigione» precisò. «Ho schivato il covid e mi sento bene: non ti basta?»
Il commissario si affrettò ad assentire. Non aveva scelta. Insistere avrebbe voluto dire mostrarsi indifferente nei confronti della compagna, così attuò una ritirata che al tempo stesso tornava a battere il chiodo.
«Non so perché ti infastidisce così tanto parlarne. Non ci siamo sempre detti tutto?»
«Sai bene perché. Ne abbiamo discusso. Non avrei mai dovuto accettare il patrocinio di Ferrari, te l’ho detto.»
«Rinuncia. Tanto ormai…»
«Non servirebbe a niente. Sono coinvolta in questa vicenda e tu continueresti a chiedermi e io non potrei comunque risponderti.»
«È pazzesco che qualcosa di estraneo a noi ci divida. Un assurdo gioco delle parti.»
Angela scosse la testa senza dire niente. Appariva turbata.
«O forse non è solo il gioco delle parti?» insinuò Soneri.
Lei guardava il piatto sul quale fumavano i tortelli di zucca sciogliendo il burro. Il commissario lesse in quel silenzio un’ammissione. Sapeva tutto fin dall’inizio, ma si era sempre rifugiato nella rimozione per evitarne la conferma. Non era possibile scalfire quel nucleo di intimità, talvolta inconfessabile, che resta blindato dentro ciascuno. Ma in questo caso si trattava di altro. Qualcosa che Soneri equiparava a un tradimento. A un margine di esclusività dal quale era cordialmente tagliato fuori.
«Vogliamo guastarci la serata restando imbronciati?» ruppe il silenzio Angela. «Adesso siamo io e te, non l’avvocato e il commissario.»
Forse era bene così. Lasciarsi andare, ecco cosa ci voleva.
«Pensare può dare grandi soddisfazioni, ma non aiuta a vivere bene» concluse Soneri. «Se almeno ci togliessero questa maledetta curiosità!»
«Nel tuo caso è come estirpare la gramigna dall’orto» affermò Angela.
«Si può sempre far finta di non vederla» ribatté Soneri alzando il bicchiere di Gutturnio riserva. «La medicina migliore» concluse.
Inseguiva quello stato di incosciente allegria che il vino e il pasto sapevano conferirgli. Un’anestesia dei sentimenti e una visionarietà che ottundeva gli spigoli colorando tutto di momentanea speranza.
Il ristorante era semivuoto. In tanti rinunciavano ai luoghi chiusi per via del contagio. Alceste la prendeva come sempre con candida rassegnazione. «Ci accontentiamo» disse presentandosi al tavolo con la consueta casacca bianca a doppia fila di bottoni. «Per fortuna abbiamo messo da parte un po’ di grano» aggiunse.
Poi, con un briciolo di vergogna confessò: «Ci siamo ridotti a consegnare cibo da asporto come una pizzeria».
Viveva tutto ciò come una sorta di degrado. Detestava quel mangiar frettoloso da ladri, appollaiati su sgabelli a masticare contro un muro al pari di vacche alla greppia.
«E dobbiamo portare la maschera come se avessimo paura degli altri» continuò.
Bastò quello a ricordare la discussione precedente. Quel celarsi l’un l’altro che impediva l’intimità totale, quella fusione fetale di cui in fondo ognuno è orfano. E lì, in quell’angolo oscuro, nascosto, Soneri sapeva che stava acquattato un veleno pronto a schizzare per un urto improvviso o per la pressione ripetuta e prolungata del frequentarsi. Quando Alceste tornò in cucina, tra lui e Angela s’insinuò il silenzio. Uno spessore sempre più ingombrante tra le parole diradò la conversazione finché non decisero di uscire. Cambiando lo scenario, s’illudevano di poter recitare un secondo atto differente. Così non avvenne. Camminarono sospesi tra i loro discorsi irrisolti finché non si separarono di fronte al portone di Angela.
«Non vedo l’ora che tutto finisca» disse infine lei. «Questo è un caso maledetto.»
«Quando sarà passato un po’ di tempo forse ce ne dimenticheremo» auspicò Soneri.
«Be’, credo che si chiarirà tutto molto prima» affermò lei. E senza dargli il tempo di riflettere, lo salutò sparendo dietro il battente.