Appena sveglio non ricordava niente. Poi tutto si delineò a poco a poco come un negativo fotografico. Gli era tornata in mente quella frase di Angela in cui gli annunciava che si sarebbe chiarito tutto molto prima. Molto prima che loro dimenticassero Ferrari e quel caso, ma non riusciva a capire cosa intendesse, né avrebbe potuto chiederglielo. Riprovò la sensazione di essere strattonato e spinto, sbattuto avanti da folate di vento. Parma invece, sotto il cielo grigio e la nebbia a mezz’aria, appariva immobile quanto una fotografia.
Juvara era già in ufficio con sul viso una vistosa mascherina filtrante da cui emergevano solo gli occhi.
«Ha saputo le ultime disposizioni? Dopo le dieci tutti a letto: coprifuoco.»
«Siamo in guerra?»
«Col covid. I contagi sono cresciuti del 30 per cento in tre giorni.»
«Lo stop vale anche per ladri, spacciatori e assassini?»
«Per noi e loro c’è la deroga» ribatté Juvara con insospettabile senso dell’umorismo.
«Vorrà dire che troverò meno ubriachi sotto casa» valutò Soneri.
«Ho i tabulati completi dell’ultimo mese di telefonate fatte da Ferrari. Quello antecedente l’arresto» annunciò l’ispettore.
«Cosa salta fuori?»
«Una conferma. A parte un paio, le altre si sono agganciate alle celle che coprono prevalentemente la zona del quartiere Montanara.»
«Ci possono essere spiegazioni tecniche per cui un telefonino di Barriera Bixio si agganci a quelle celle?»
«No» rispose Juvara convinto. «A meno che mezza dozzina di impianti a sud della città siano guasti, cosa impossibile. Ferrari doveva essere lì quando ha telefonato. Non è per caso che lavora in quel quartiere?»
«È in pensione.»
L’ispettore fece una smorfia d’impotenza: «Allora non capisco».
«La scheda e il contratto sono intestati a Ferrari?»
«Sì, ho controllato.»
Non c’era via d’uscita. Eppure il commissario sapeva che doveva esserci. Bisognava soltanto allargare il campo visivo, acquisire altri dati. Fu così che gli venne in mente Artenice. Era la persona più vicina a Ferrari, la sua devota badante.
Compose il numero della Falchieri e attese almeno dieci squilli prima che il magistrato rispondesse.
«Se la sta godendo ora che questa città è ritornata in sonno?»
«Sto procurandomi qualche passatempo.»
«Squash anche lei? Non si sarà ammalato di quell’assurdo sport per esagitati?»
«Mi ci vede a tirare palle contro il muro? Mi attraggono molto di più i giochi intellettuali. Coltivo le mie curiosità come orchidee.»
«Ancora non è convinto, eh?» indovinò la donna. «Non ho mai avuto a che fare con un uomo così testardo. Fossi sua moglie…»
«Ne ho avuta una ma non ha fatto in tempo a stancarsi di me.»
«Mi scusi» intervenne la Falchieri dispiaciuta. Non si era ricordata del lutto della moglie Ada. «Le ho già spiegato l’assurdità di rimestare in un caso come quello» riprese con dolcezza.
«Le chiedo di poter mettere sotto controllo il telefono di Artenice Ferrari» insistette il commissario.
Ci fu un attimo di silenzio in cui la Falchieri meditò.
«No, non glielo concedo.»
«Per quale motivo? Sarebbe la prova definitiva che aveva ragione lei. Che ha sempre avuto ragione. Mi espongo al rischio.»
«Non è una sfida tra me e lei, non ci sono i presupposti, mi dispiace. Per quale motivo dovremmo controllare il telefono di quella donna? Il fratello ha confessato, le prove sono schiaccianti. E anche la faccenda del doppio DNA è stata brillantemente chiarita dal dottor Nanetti. A proposito: sa che sta producendo uno studio sul caso?»
Il commissario non rispose. Aveva voglia di sbattere il telefono sul supporto, ma si trattenne. In fondo la Falchieri non aveva scelta: si trattava di una richiesta senza ragione. Almeno per la legge. Il resto era affar suo, il solito groviglio di sensazioni, sospetti, incongruenze e domande irrisolte. Lo prese la voglia di mollare. Si sentiva senza forze e privo di motivazioni. Il caso andava chiuso dentro la sua testa più che in un tribunale, ma la decisone non arrivava. Doveva imporselo, e forse era giunto il momento. Poi però squillò il telefono.
«La Mariani ci ha riprovato» annunciò la voce concitata di Musumeci.
«Si è tagliata di nuovo?»
«No, stavolta ha tentato dalla finestra. La caposala ha fatto appena in tempo a tirarla giù dalla sedia su cui era salita per buttarsi.»
«Dove l’hanno messa, adesso?»
«È sedata, ma è rimasta lì. Non hanno letti a disposizione nei reparti con le grate. Il primario ha chiesto l’autorizzazione a legarla al letto, ma ci vorrebbe un familiare.»
«Eh, una famiglia!» esclamò Soneri. «È quella che ha cercato sempre.»
«È sola?» domandò Musumeci con l’ingenuità di un adolescente.
«A meno che non te la voglia sposare tu, sì» commentò il commissario.
«Le hanno fatto un’iniezione e adesso dorme» informò l’ispettore. «Cosa devo rispondere al primario?»
«Chiami il magistrato» tagliò corto Soneri.
Pasquariello, invece, chiamò lui.
«Ti sei messo a comandare a casa mia?» domandò il capo delle volanti.
«Ho preso in prestito un’agente molto sveglia. Ma solo per un paio di giorni.»
«Potevi dirmelo.»
«Scusa, ma so che sei a casa.»
«Non hai Juvara o Musumeci?»
«Non sono adatti al compito che ho richiesto.»
«Ma che roba è?»
«Stare al pelo a una donna.»
«È un caso nuovo?»
«No. Secondo la Falchieri è una mia ossessione.»
«Non ci sto capendo niente.»
«L’omicidio Malvisi, hai presente?»
«Non è già tutto a posto?»
«Spero di convincermi che sia così.»
«Non lo sei?»
«Non del tutto. Ma forse ha ragione la Falchieri, sono io che vaneggio e vedo cose che non esistono.»
«In che modo la Vicini può aiutarti?»
«È giovane e passa per essere una studentessa. Non dà nell’occhio. Inoltre è sveglia come pochi. Sono convinto che solo una donna può seguire i movimenti di una donna.»
«Stai diventando sempre più cervellotico. Comunque» sintetizzò Pasquariello «non farò storie. Io e te c’intendiamo.»
«Ti ringrazio.»
«Senti» lo trattenne il collega, «non azzardare troppo con le tue ossessioni. Non lo dico per me, ma in questura qualcuno potrebbe adombrarsi.»
«Lo so, girano voci… Le avrai sentite anche tu.»
«Ma no…» disse Pasquariello con così poca convinzione da parere una lampante conferma. «Lo dico per prevenire. Sai quanto sono sgradevoli certi colloqui coi caporioni.»
Quella conversazione lasciò a Soneri uno sgradevole retrogusto. Si stava inoltrando in un territorio pericoloso. Un capo della Mobile che inseguiva un’indagine in gran parte personale, quasi un interesse privato in atti d’ufficio. Aprì il giornale e scorse i titoli. Lesse l’articolo in cui si parlava di Zerbini e il giornalista si soffermava sui particolari dei colpi raccontati al magistrato nel corso dell’interrogatorio. Un campionario di vanterie compiaciute, goliardate da smargiassi di balordi viziati. Una volta aveva persino corteggiato e dato appuntamento alla proprietaria di mezz’età di una fonderia pur di strapparle un contratto per una fornitura fasulla. In tutto quel racconto non si faceva mai menzione del commissario e solo un paio di volte si leggeva delle “indagini della Mobile”.
Chiuse il giornale e chiamò Nanetti.
«Mi hai preceduto» lo investì il collega con tono trionfante. «Stavo proprio per invitarti a pranzo.»
«Questa è una delle stranezze che mi insospettiscono» s’incuriosì Soneri. «Vuoi rivedere la giunonica cameriera?»
«No, basta sgabelli. E poi ho capito che non mi ama. Ti porto in un posto che ci va a pennello: I du matt.»
«E saremmo noi?»
«Hai dei dubbi? Siamo entrambi un po’ folli e visionari, no?»
«Se lo dici tu…»
«Un’ora fa mi ha scritto una rivista scientifica accettando di pubblicare il mio studio sul doppio DNA di Ferrari.»
«E io cosa c’entro?»
«Mi hai fornito l’opportunità. Ferrari aveva già confessato, c’erano le impronte: bastava quello. Merito del tuo sguardo sghembo.»
«Infatti vado a sbattere.»
«Be’, sì, corri questo rischio. È come se guidando, anziché la strada, tu ti guardassi sempre intorno. Però spesso è lì che trovi le cose più interessanti.»
«Mi sembra una buona sintesi» disse il commissario. «A proposito di ciò che sta intorno: paghi tu.»
Soneri guardò l’orologio. Fra poco Artenice sarebbe uscita. La Vicini doveva essere già appostata da qualche parte a Barriera Bixio, dove poteva tenere d’occhio il portone del palazzo in cui abitavano i fratelli Ferrari. Aveva un motorino, nel caso la donna avesse preso un autobus. Nel frattempo, al ristorante, il commissario si dedicava agli anolini in brodo di terza, perfetti per una giornata fredda e nebbiosa. Ancor più a San Leonardo, il quartiere a nord della città proteso verso quella Bassa percorsa dal fiato lungo del Po.
Col viso immerso nei vapori del brodo come in un fumento, sentì trillare il telefonino.
«Venga oggi nel pomeriggio» parlò Artenice con la consueta voce senza passione.
Il commissario stava per replicare, ma non fece in tempo. Sentì il click dall’altra parte che trasformava quella frase in un ordine.
«Ha sbagliato numero?» domandò Nanetti notando l’espressione di Soneri tra sorpresa e disappunto.
Il commissario negò col capo. «Se manca Capuozzo, c’è sempre qualcuno che lo sostituisce nel dare gli ordini.»Il collega sorrise strizzandogli l’occhio: «Le donne!».
«Si tratta proprio di una donna» ammise Soneri.
Furono interrotti dal cameriere che servì loro la tartara di cavallo. Avevano scelto quel piatto a cui era legata la Parma popolana dell’Oltretorrente: botteghe con al muro la testa equina, teli bianchi esposti e l’indimenticabile macellaia Olga, con gli avambracci nudi da vogatore.
«Dunque sei pronto a spedire l’articolo?»
«Quasi» rispose Nanetti. «Sarebbe di grande interesse scientifico conoscere il donatore.»
Soneri, lì per lì, non ricollegò. «Quale donatore?»
«Il doppio DNA non può essere che il frutto di un trapianto. Molto probabilmente di midollo. Si fa nel caso di alcuni tipi di leucemie.»
«Solitamente resta anonimo. Se è stato preso dalla banca del midollo sarà difficile.»
«Anche per un’indagine?»
«Parli di scienza o di polizia?»
«Io riassumo entrambi i ruoli» sorrise Nanetti. «E tu potresti seguirmi. Ho l’impressione che in questo modo ti restituirei il favore.»
Prima di spargere olio, limone e sale sulla tartara, allungarono le braccia sopra la tavola e si diedero un cinque sbattendo i palmi come due calciatori dopo un goal.