QUANDO mi presento per la prima volta dal collezionista di francobolli, sono tentata di non scendere nemmeno dall’auto. È una mattina insolitamente fredda per Los Angeles, non ho il maglione e sono quasi certa che qui perderò solo tempo.
Però ho il bagagliaio straripante di ciò che prima riempiva la stanza degli hobby di mio padre: pagine e pagine di album pieni di francobolli custoditi nella plastica, scatoloni zeppi di tesori scovati ai mercatini delle pulci, per lo più lettere ingiallite, mai inviate o ancora chiuse, ma tutte provviste di francobolli provenienti da un’altra epoca. Se non la scarico qui, questa roba, mi toccherà trovarle un posto in casa mia. E poi, nei confronti di mio padre, mi sento in obbligo di fare almeno qualcosa di buono con la sua collezione. Animata da questo pensiero, scendo dall’auto e apro il bagagliaio.
Da ragazzina, il fine settimana, lo accompagnavo ai mercatini e alle svendite di mobili e suppellettili usati e mi ritrovavo a setacciare il ciarpame altrui in cerca di una vecchia lettera, o a spulciare la raccolta di francobolli appartenuta a un collezionista appena deceduto e snobbata dagli eredi. In quelle occasioni, quando chiedevo a mio padre che cosa stesse cercando, lui si voltava a guardarmi e, sorridente, rispondeva: una gemma. I francobolli sono questo per lui, delle gemme. O almeno lo erano. Diamanti, rubini, smeraldi. Si sentiva un gioielliere capace di cogliere pregi e imperfezioni in ciò che tutti noi giudichiamo ordinario. Quando andammo in vacanza a Washington e vedemmo il diamante Hope allo Smithsonian, mi disse: «Ecco che cosa sto cercando, Kate». Ma io dubitavo che potesse trovarlo nei mercatini delle pulci della California del Sud.
Secondo mio padre, il diamante Hope dei francobolli è senz’altro un esemplare mal riuscito. Raro perché emesso troppo presto o troppo tardi, o perché stampato male. E immagino che i tanti scatoloni stipati nel bagagliaio della mia auto simboleggino proprio questo: la ricerca, da parte sua, di una casuale rarità tra migliaia di quadratini di carta.
Io invece, nei francobolli, non vedo altro che carta e inchiostro. Per me sono solo un mezzo per raggiungere uno scopo, un servizio di pubblica utilità. Fanno sì che la mia corrispondenza si muova da un posto all’altro, che le mie bollette vengano pagate e che le mie lettere raggiungano la mia amica del cuore, Karen, che l’estate scorsa si è trasferita nel Connecticut. Di recente, però, tre di loro, tre fiorellini disposti l’uno accanto all’altro, mi fissano dalla busta gialla che ho ricevuto da Daniel e ho lasciato chiusa sul bancone in cucina. Segna la fine di tutto, quella busta. E io non sopporto la sua inappellabilità, ecco perché non l’ho ancora aperta.
Sono sicura che mio padre, a cui Daniel non è mai piaciuto più di tanto, avrebbe trovato particolarmente seccante la scelta dei fiori per una simile corrispondenza. Ma di questa storia lui non sa niente. E, anche se lo sapesse, ormai sono certa che non se ne ricorderebbe.
Lo studio dell’esperto di francobolli è un anonimo locale di un solo vano nella schiera di negozi che fiancheggiano la strada, proprio dove la 405 incontra la 101, ai margini di Sherman Oaks. L’ultimo posto in cui mi aspetterei di trovare o scoprire un’eventuale gemma. Siccome però ormai sono qui e ho un appuntamento, tiro fuori dall’auto una prima pila di scatoloni ed entro.
Trovo il filatelico, Benjamin Grossman, seduto alla sua scrivania, invasa da un caos di scartoffie e con un piccolo televisore in bianco e nero in un angolo. Il signor Grossman sta guardando il notiziario delle dodici: parlano delle proteste di ieri a Berlino Est.
Appena entro, distoglie lo sguardo dallo schermo senza però spegnere la tivù. È più giovane di come me l’ero immaginato dopo avergli parlato al telefono. Convinta come sono da sempre che collezionare francobolli sia un passatempo da vecchi, mi aspettavo una persona anziana. Invece Benjamin deve avere all’incirca la mia età, sui trentacinque, quarant’anni. Porta gli occhiali con la montatura di metallo e ha un cespuglio di ricci castano chiaro. «Lei è la signora Nelson?» mi chiede.
Non ho ancora deciso che cosa fare del mio cognome da sposata. «Mi chiami pure Katie», rispondo.
«Va bene, Katie», replica lui sovrappensiero. Non gliene importa proprio niente di come deve chiamarmi. Si alza e armeggia con l’antenna del televisore finché l’immagine non è di suo gradimento, tanto che ho quasi l’impressione di disturbare, di avere interrotto qualcosa presentandomi qui, anche se ho un appuntamento.
«Ehm… con questi che ci faccio?» chiedo, con gli scatoloni pesanti in mano.
«Ah, mi scusi. Li appoggi pure qui. Sulla mia scrivania», mi risponde e, lasciando perdere l’antenna, si risiede. Perlustro con lo sguardo il caos che lo circonda. «Li metta dove vuole», mi dice, così poso le scatole su una pila di fogli. Lui si sporge in avanti e ne scartabella con cautela il contenuto per qualche istante, mentre io mi chiedo come sia diventato un esperto di francobolli e in che cosa ci si debba laureare per fare un mestiere del genere. In storia? Io sono laureata in inglese e lavoro per una rivista, scrivo recensioni cinematografiche. Non è un impiego particolarmente remunerativo, ma fino a qualche tempo fa lo trovavo divertente, se non altro.
«Do un’occhiata a tutto», mi dice Benjamin. «E poi le faccio sapere che cos’ho trovato.» Per telefono gli ho già spiegato di mio padre, della sua memoria labile, della sua impossibilità a proseguire la raccolta e della sua eterna convinzione che tra questi francobolli ci siano delle gemme. Un tempo mi ripeteva sempre che, invecchiato lui, l’intera collezione sarebbe finalmente passata a me. E l’ha ripetuto anche quando l’ho trasferito a Willows qualche mese fa. In tutta onestà, però, io non so che cosa farci con questa raccolta. Ecco il vero motivo per cui l’ho portata qui.
Torno alla macchina per prendere un’altra pila di scatoloni e, quando rientro, Benjamin distoglie di nuovo gli occhi dallo schermo e mi guarda stupito. «Ce ne sono altri?» Annuisco. «Mi scusi, l’aiuto a portarli dentro.» Si alza e mi segue all’esterno, nel parcheggio. «Non volevo essere scortese.»
«Non c’è problema», replico, poco in vena di conversazioni spicciole.
Benjamin continua a parlare, però. «Al telefono non avevo capito quanti francobolli possedesse suo padre.» E sbircia nel bagagliaio.
«Ha settantun anni», rispondo, in tono più tagliente di quanto fosse mia intenzione. «È… è un’ossessione che lo accompagna da sempre.» Eppure, anche nel pronunciare quel «settantuno» a voce alta, la sua età non mi pare poi così avanzata. Molti ospiti di Willows sono più vecchi di lui, e quello che gli sta capitando è così ingiusto che mi infurio sempre: la sua costante perdita di memoria è come un pugno nello stomaco per me, qualcosa che ogni volta mi toglie il respiro.
«Di solito è così per tutti», commenta Benjamin con garbo, come se comprendesse perfettamente e condividesse la stessa ossessione per i francobolli. Come se fossi io la stramba che non capisce niente. Magari lo sarò anche, chissà.
Scaricato l’ultimo scatolone, Benjamin Grossman mi dice semplicemente: «Mi dia un paio di settimane, e le farò sapere che cosa c’è di interessante».
Io però esito qualche istante prima di andarmene, chiedendomi come reagirebbe mio padre se mi vedesse lasciare i suoi beni più preziosi nelle mani di un uomo che ho trovato sulle pagine gialle alla voce «Filatelia». Avevo chiamato tutti e tre gli studi sull’elenco lasciando un messaggio in segreteria. E Benjamin Grossman era stato il primo a richiamarmi. «Deve rilasciarmi una ricevuta o qualcosa del genere?»
Benjamin fa segno di no con la testa, estrae un biglietto da visita da sotto una pila di fogli e me lo schiaffa in mano. «La chiamo io appena ho fatto», mi dice. E poi aggiunge: «Non si preoccupi, ne avrò la massima cura». Come se i francobolli fossero fiori e andassero accuditi teneramente.
«Non sono preoccupata», replico. Mi sono appena separata da una cosa che neanche mi apparteneva veramente. Eppure, mentre salgo in macchina, esco dal parcheggio e mi immetto di nuovo nella 405, non riesco a scrollarmi di dosso quest’inaspettato senso di vuoto.