LA notte in cui persero Frederick sarebbe stata chiamata dalla stampa die Kristallnacht. La notte dei cristalli. La notte dei vetri rotti. A giudizio di Kristoff, però, per Grotsburg sarebbe stato più appropriato parlare di Feuernacht o di Tränennacht, la notte dei roghi o delle lacrime.
Il mattino successivo a quella terribile nottata, cominciò a nevicare copiosamente. Nevicò per giorni e giorni. Lacrime gelate, gefrorene Tränen, commentò Miriam senza alcuna traccia della sua solita gaiezza, mentre dalla finestra della cucina guardava scendere quei fiocchi pungenti. Nevicò così tanto che per qualche giorno Kristoff non riuscì neppure a raggiungere il laboratorio, per via dei cumuli di neve che ostruivano la porta esterna della cucina. Anni dopo, si sarebbe convinto che a salvare dalla distruzione la dimora dei Faber e il laboratorio durante la Notte dei Cristalli fosse stata proprio la neve. Con una foresta tanto fitta e una neve così alta, i tedeschi avevano abbandonato la città e piegato verso Vienna, per proseguire la loro opera di devastazione.
Eppure, il fatto che l’incursione a Grotsburg fosse stata di breve durata fu una magra consolazione, poiché gran parte della città era stata incenerita dall’incendio che avevano appiccato alla sinagoga. Gli edifici cittadini erano di legno e addossati gli uni agli altri, e il fuoco si era propagato divorando tutto finché la nevicata non lo aveva spento. Da un giorno all’altro moltissime famiglie erano state private delle loro case, delle loro attività commerciali, delle loro vite. Quel poco che restava era carbonizzato, inservibile. E pure coperto di neve.
A distanza di settimane, quando Kristoff tornò in città, si trovò circondato da ceneri e fantasmi. Uno dei pochi edifici ancora intatti era l’ufficio postale di Wien Allee, e certo non poteva trattarsi di una coincidenza. D’altronde i tedeschi avrebbero avuto ancora bisogno di un servizio postale.
Costretto in casa fra i singhiozzi della signora Faber, che la squassavano a cadenza più o meno oraria, per giorni Kristoff si sentì impotente. Perduto. Per fortuna disponevano di un’abbondante scorta di conserve che la padrona di casa aveva accumulato durante l’estate in previsione delle nevicate invernali, e almeno nell’immediato non sarebbero morti di fame.
Quando Frederick era partito, Kristoff non aveva considerato l’eventualità che non tornasse, ed era sicuro che lo stesso valesse per la signora Faber, Elena e Miriam. Tormentato dall’angoscia di non sapere che cosa Frederick avrebbe voluto che facessero, si ritrovò a camminare su e giù per la propria stanza finché non sentì bussare alla porta ed Elena non piombò in camera senza attendere la sua risposta.
«Stai consumando il pavimento», gli disse con lo sguardo torvo e le mani sui fianchi. Indossava una camicia logora e un paio di larghi pantaloni marroni che dovevano essere appartenuti a Frederick. E, pur con i capelli raccolti in una treccia, era bellissima.
«Scusami», rispose Kristoff camminando imperterrito.
«Kristoff!» esclamò lei, e lo afferrò per la manica.
Solo allora lui si fermò. E non perché Elena glielo avesse chiesto, ma perché lo stava toccando. E il tepore delle sue dita gli aveva raggiunto la pelle attraverso la stoffa della camicia. «Sto cercando di pensare», le spiegò. «E non ce la faccio a pensare da seduto.»
Elena lo lasciò andare, si avvicinò al bordo del letto e si sedette. Prima che lui potesse impedirglielo, gli prese il blocco da disegno e si mise a sfogliarlo. «Sono tutti ritratti miei? Che cosa mi rende un soggetto tanto interessante?» Kristoff si strinse nelle spalle e si sentì avvampare. Elena continuò a sfogliare l’album. «Non hai fatto che ritrarmi… per mesi?» Abbozzò una risata e richiuse il blocco. «Avresti potuto esercitarti con i francobolli, e invece hai perso tutto questo tempo a riprodurre il mio viso insignificante.»
Kristoff le si sedette accanto sul bordo del letto. «Il tuo viso è tutto tranne che insignificante», ribatté, e ancora prima di rendersi conto di ciò che faceva, le poggiò con delicatezza una mano sulla guancia e la accarezzò con il pollice. «Tratti perfetti», commentò e, incurante del fatto che Josef avrebbe potuto ucciderlo, si rifiutò di staccare la mano dal suo viso.
Fu lei a scostarsi per prima, chinando la testa e abbassando lo sguardo. «Non posso», mormorò.
«Per via di Josef?» chiese lui imbarazzato. Erano mesi che desiderava domandarle se era innamorata di quell’uomo.
Elena non rispose subito. «L’unica cosa che m’importa, adesso, è riavere indietro l’Austria così com’era. E cacciare i tedeschi», disse alla fine. «Non ho tempo per niente e nessun altro.»
In quell’istante, chissà perché, Kristoff capì con esattezza ciò che Frederick avrebbe desiderato per la sua famiglia. Avrebbe voluto che si lasciassero l’Austria alle spalle. Sua moglie, Miriam, persino Elena. L’Austria non era più un posto sicuro. Non poteva più essere la loro casa.
La prima persona che riuscì a raggiungere casa Faber a distanza di una settimana, dopo che la neve cominciò a sciogliersi, non fu un soldato tedesco ma Josef che, trovando Kristoff nel laboratorio, questa volta gli chiese di seguirlo nella foresta. Non gli domandò notizie di Elena, né lui si offrì di andare a chiamarla, pur sapendo che la ragazza era in casa ad aiutare la madre a racimolare qualcosa per la cena.
«Devono andarsene», disse Kristoff a Josef con tutta la fermezza di cui fu capace mentre attraversavano il bosco. Aveva la neve fino alle ginocchia e le gambe fredde e bagnate. «La signora Faber e le ragazze devono trasferirsi in un posto sicuro. Quando la neve si scioglierà, i tedeschi torneranno. Io me la caverò, ma a loro potrebbe andare peggio.» In realtà non era poi così sicuro di cavarsela. E nemmeno di che cosa significasse «cavarsela», ormai.
«Sei più intelligente di quanto credessi», commentò brusco Josef. E Kristoff interpretò la frase come un complimento, anche se all’apparenza non lo era. «La città è quasi rasa al suolo. Hai ragione, qui per loro non resta niente.» Josef si allontanò dal sentiero. «Molti uomini sono dispersi. Morti nei roghi o imprigionati. Arrestati o uccisi…» Lasciò la frase in sospeso e, a quel punto, Kristoff si rese conto che erano diretti alla piccola baracca – o capanno che fosse – da cui aveva visto uscire Elena quella notte di marzo, quando l’Austria era ancora l’Austria e la loro paura più grande era che Frederick notasse l’assenza della figlia durante lo Shabbat. Sembrava un tempo così lontano, ormai, come se anziché pochi mesi fossero passati anni, decenni. E Kristoff avvertì una sorta di muto sbigottimento nel vedere ancora in piedi quella casupola di legno in mezzo al bosco quando, intorno a loro, quasi tutto era andato distrutto.
«Che ci facciamo qui?» domandò. Forse Josef lo aveva portato fin lì per ammazzarlo, come aveva minacciato di fare tempo addietro? Ovviamente non lo credeva capace di una cosa del genere. Per di più proprio ora che si trovavano d’accordo sulla sorte delle ragazze.
Invece di rispondergli, l’altro si avviò verso la porta. Non c’erano serrature, niente che potesse fermare gli invasori. «I tedeschi non sanno dell’esistenza di questo posto, perché sulle mappe non è segnalato», gli spiegò Josef armeggiando con la maniglia come se gli avesse letto nel pensiero. «Dicono che un tempo ci vivesse una vecchia che di notte si trasformava in un Tatzelwurm tenendo tutti alla larga.»
«Un Tatzelwurm?» Kristoff scosse incredulo la testa ricordandosi che Soren, un ragazzino più grande che viveva con lui all’orfanotrofio, cercava sempre di spaventarlo raccontandogli storie di quella mitica creatura metà gatto e metà serpente.
«Comunque sia», continuò Josef quando riuscì finalmente ad aprire la porta, «è un luogo senza indirizzo. Ufficialmente non esiste. Nessuno ne sospetterebbe l’esistenza, a meno di non attraversare la foresta e lasciare il sentiero battuto per venire a cercarlo. E poi, perché dovrebbero cercarlo? Hanno già distrutto mezza città», constatò amaramente.
«Ma di che parli? Che c’entra questo posto?» Kristoff era confuso. «Pensi che le ragazze potrebbero nascondersi qui?» Sembrava fin troppo facile, fin troppo a portata di mano. Se fossero rimaste lì, a pochi passi dal laboratorio e da casa Faber, sarebbe potuto andare a trovarle quando voleva. Non avrebbe dovuto rinunciare a loro.
«No», si affrettò a rispondere Josef. «Non sarebbero certo al sicuro, qui.»
«Ma se hai appena detto…»
Josef aprì la porta, entrò e gli fece cenno di seguirlo. L’interno era buio e odorava di umido e di chiuso. Ma Kristoff avanzò comunque.
«Non mi riferivo alle ragazze», disse Josef un istante dopo, e poi si scansò per mostrargli ciò che nascondeva quella stanza buia. O meglio, chi.
Disteso a terra, sotto una logora coperta, c’era Frederick.