Los Angeles, 1989

SABATO mattina carico in macchina tutto il materiale di ricerca preso in prestito in biblioteca e mi faccio due ore di viaggio sulla I-5 fino a Coronado per fare visita alla nonna.

In parte, vado a trovarla perché è un po’ che non la vedo e perché la scorsa settimana era talmente eccitata per la caduta del muro di Berlino che ci tengo a condividere questo momento con lei. Per festeggiare possiamo concederci un brunch sorseggiando Mimosa nel lussuoso Hotel del Coronado, a un paio di isolati da casa sua, come abbiamo fatto quando sono andata a trovarla poco dopo essermi fidanzata con Daniel.

In parte, ci vado però anche per motivi egoistici. La nonna conosce il tedesco, e quasi tutte le carte geografiche che mi ha dato la bibliotecaria, come del resto l’indirizzo sulla lettera, sono indecifrabili per me. Spero tanto che mi aiuti a scoprire dove abitavano i Faber e magari che fine hanno fatto.

Parto molto presto, alle cinque e mezzo del mattino, nella speranza di evitare l’eventuale traffico del fine settimana sulla superstrada. Raggiungo l’ampio ponte che conduce all’isola prima delle otto, ma so che troverò la nonna già in piedi. Mi sento un po’ in colpa a non farmi viva più spesso. L’ultima volta sono venuta mesi fa, quando mio padre abitava ancora in casa da solo e io e Daniel eravamo ancora felici e beati. Be’, forse proprio beati no, ero io a vivere nella beata ignoranza che lui non fosse felice e beato.

Odio attraversare il ponte, non ha parapetti e mi tocca tenere gli occhi fissi sulla strada per non pensare al pericoloso turbinio della baia sottostante. Ora capisco perché la nonna non guidi più e non lasci quasi mai l’isola. Non che ne abbia bisogno, intendiamoci. Malgrado si trovi a pochi minuti di macchina dal centro di San Diego, Coronado ha tutto quello che le serve a pochi passi da casa.

Parcheggio sulla strada davanti alla sua villetta grigia e bianca e, quando scendo dall’auto, respiro a pieni polmoni. L’isola di Coronado non dista molto da Los Angeles, eppure sembra un altro mondo. Ho l’impressione di essere stata trasportata in una cittadina vittoriana corroborata da una fresca brezza di mare. Niente smog! Solo il rombo di un aereo militare che atterra poco lontano, nella base ai confini dell’isola, in cui lavorava mio nonno tanti anni fa.

Impilo i libri sparpagliati sul sedile posteriore e percorro il vialetto d’ingresso diretta allo steccato bianco, ma la nonna ha già la porta aperta ed esce a salutarmi prima ancora che raggiunga la soglia.

«Katie, gioia mia.» E mi cinge le braccia cariche di libri per baciarmi la guancia. Poi guarda alle mie spalle, in direzione della macchina. «Dov’è la tua metà?»

Io mi volto e osservo l’auto vuota come se fossi sorpresa quanto lei che Daniel non ci sia, se non altro perché non so bene che cosa risponderle. E comunque erano anni che lui non mi accompagnava più a trovare la nonna. Per fortuna lei non aspetta la mia risposta e, notando i libri che ho in mano, mi chiede di quelli.

Mentre la seguo dentro casa, le accenno della lettera, del consiglio di Jason di partire dal luogo di provenienza dei Faber per scoprire dove si trovano adesso e delle carte geografiche che mi ha dato la bibliotecaria. «Il materiale che ho è quasi tutto in tedesco», le dico posando la pila di libri sul tavolo da pranzo antico che lei protegge con una spessa tovaglia di plastica. Ci passo le dita sopra e ripenso ai tempi più felici trascorsi a questa tavola, ai giorni del Ringraziamento e alle Pasque ebraiche della mia infanzia, quando entrambi i miei genitori erano ancora fisicamente e mentalmente presenti. Come anche il nonno, certo, venuto a mancare per un ictus pochi mesi dopo mia madre, morta di cancro.

Metto da parte i ricordi e, levata dalla borsa la lettera ancora protetta dalla busta di plastica, la porgo alla nonna perché possa vederla. Lei inforca gli occhiali da lettura, che porta appesi al collo con una catenina d’oro, ed esamina attentamente lettera e francobollo. «Marissa non l’ha mai capita», commenta mentre, attraverso la plastica segue con delicatezza i contorni del francobollo con le dita artritiche. «L’ossessione di Ted per queste cose.»

Mio padre ha pronunciato più o meno le stesse parole quando, in piedi davanti alla finestra della sua camera di Willows, mi ha scambiato per mia madre. E sapeva bene quello che diceva. Ciò che non sapeva era dove si trovava e in compagnia di chi, piuttosto. «Lo so», replico rivolta alla nonna. «E non credo di averla mai capita neanch’io.»

«Allora perché tutto questo interesse? Perché proprio ora, gioia mia?»

Mi stringo nelle spalle. Io stessa non sono certa di conoscere la risposta. «Papà mi ha sempre detto che nella sua collezione stava cercando una gemma. Da piccola pensavo intendesse qualcosa di prezioso, qualcosa che ci avrebbe fatto diventare ricchi.» La nonna se la ride e io sorrido imbarazzata. Da bambina ero convinta che l’avrebbe trovata. Che saremmo diventati come quei milionari che abitavano nelle ville su in collina a Malibù. «Ma forse non è questo che intendeva», continuo, poi taccio e mi riprendo la busta di plastica. «Forse per lui il valore risiedeva nelle storie che nascondevano.» Non ho idea se sia davvero così o se invece io stia solo imponendo la mia opinione, rafforzata dalla convinzione di Jason che in realtà ci sia una storia nell’originalità di questo francobollo e nella famiglia che ha alle spalle.

«Dev’essere dura vedere tuo padre, adesso che dimentica tutto», mi dice la nonna. L’ultima volta che si sono incontrati è stato due anni fa, mi pare, quando l’ho portato qui in occasione del compleanno della nonna. Papà aveva già iniziato a perdere colpi mentre lei, più anziana di ben tredici anni, era ancora vispa come sempre. Nel giro di un’ora le aveva posto più volte le stesse domande, dimenticando di conoscere già le risposte. Ma all’epoca lei aveva minimizzato dicendo che era stanco e che, in una giornata così calda, non aveva bevuto abbastanza acqua.

La nonna si leva gli occhiali, li posa sul petto e si strofina gli occhi lucidi. «Uno di questi giorni mi porti a Los Angeles a trovarlo, vero?» mi chiede in tono malinconico.

«Certo», le rispondo, ma credo che non lo farò. Era in condizioni pessime l’ultima volta che sono andata da lui, quando mi ha urlato che non sarei più potuta tornare. Perché sconvolgerla inutilmente? Meglio che se lo ricordi com’era quando l’ha visto qui, a casa sua. Quando più o meno era ancora se stesso.

«Vieni. Andiamo a fare colazione», mi dice. «Le guarderemo là, le tue carte geografiche in tedesco.»

* * *

Ci sediamo nel ristorante fronte mare dell’Hotel del Coronado a sorseggiare i nostri Mimosa con gli occhi fissi sulla fresca distesa azzurra di fronte a noi. La nebbia mattutina si è già dissipata quasi del tutto e splende il sole, ma l’aria è frizzantina e la nonna si è infilata sull’esile corpicino un maglione di lana pesante. Il mio giubbotto di jeans è troppo leggero per il vento freddo che soffia dal mare, e appena finisco il cocktail ordino una tazza di caffè per scaldarmi.

Non diciamo molto altro su mio padre, sulla caduta del muro di Berlino e sulla lettera. La nonna si dedica piuttosto alle carte geografiche e, ogni tanto, al riaffiorare di un ricordo improvviso, mormora qualcosa in tedesco… così, semplicemente.

«Guarda qua», mi dice dopo un po’, cerchiando con il dito una città o un paesino.

Quando mi avvicina il libro, mi accorgo che non sta indicando l’Austria ma la Germania. «Hertzscheimer.»

Pronuncio il nome a voce alta, forse nel modo sbagliato, ma lei non mi corregge.

«È questo il posto in cui siamo nati io e tuo nonno. In cui siamo cresciuti.»

«Lo stesso dove è nato il mio papà?» le chiedo. Anche se so che all’inizio sono state le comuni origini tedesche ad attrarre i miei genitori l’uno verso l’altra, oltre a questo nessuno dei due mi ha mai detto niente al riguardo.

Lei scuote il capo. «No, gioia mia. Il tuo papà è nato a Brema, credo. La nostra era una cittadina molto piccola. Ci conoscevamo tutti. Ne è passato di tempo… Ormai non si trova più sulle cartine. L’hanno data alle fiamme dopo che siamo partiti.» Al solo parlarne le trema la mano. «Erano anni che non vedevo il suo nome scritto su una carta geografica. Come se fosse un posto reale!»

Le accarezzo la mano rugosa, ma lei continua a sfogliare il libro senza aggiungere altro, per poi passare finalmente dalla sua madrepatria all’Austria.

Ho sempre saputo che i miei nonni erano cresciuti in quella che era poi diventata la Germania Est comunista, ma di questo la nonna mi aveva sempre parlato in termini generali con un fugace senso di tristezza. Niente che fino a stamattina mi avesse mai indicato con precisione su una carta geografica. A parte il lieve accento e il delizioso strudel di mele che preparava per la cena del Capodanno ebraico quando ero piccola, non ho mai dato un gran peso alle sue origini tedesche, né tantomeno alle mie. «Davvero hanno bruciato l’intera città?» le domando, curiosa di sapere degli amici e dei parenti che dev’essersi lasciata alle spalle. «Non me l’avevi mai detto.»

«Non mi piace parlarne», mi risponde, e continua a sfogliare le cartine senza aggiungere altro. «Ah, ecco a cosa si riferisce», annuncia poi.

«Che cosa?»

«L’indirizzo sulla tua lettera.» Il suo dito ricurvo è posato su un altro cerchietto, dove c’è scritto Grotsburg. Dalla posizione che occupava sulla lettera, avevo pensato che Grotsburg fosse il nome della strada, invece dalla carta risulta essere il nome di una cittadina. «Nei paesini non mettevamo mai il nome della strada sulle lettere», mi spiega la nonna, avendo colto la mia perplessità. «All’epoca non ce n’era bisogno.» Si schiarisce la voce e chiude i volumi. «Una volta ci siamo stati, in Austria. Te l’ho mai detto?»

«A Grotsburg?» le domando. «Lo conoscevi?»

«Oh, no. A Vienna. Mi ci portarono i miei genitori in vacanza quando ero piccola. Andammo a vedere un’opera. Die Frau ohne Schatten. La donna senza ombra. Una meraviglia. Non me la dimenticherò mai.» L’ironia delle sue parole coglie nel segno, alla luce di quello che è successo a mio padre. E mi auguro che sia davvero così. Che non dimentichi mai. Che viva tanti anni ancora con la memoria intatta. «È stato distrutto durante la guerra, sai. Il Teatro dell’Opera.» Scuoto la testa. Non lo sapevo. Forse avrei dovuto saperlo, e magari una volta l’avrò anche letto o sentito da qualche parte, ma nel caso devo averlo dimenticato. «L’hanno ricostruito, però scommetto che non è mai tornato com’era prima. Niente è più tornato come prima.»

La nonna finisce il cocktail e fissa l’oceano. Io la osservo, lì seduta come se niente fosse. È fuggita dalla sua città in Germania prima che fosse rasa al suolo, prima che l’intera regione finisse dietro la cortina di ferro. Adesso è una californiana del Sud come lo sono io, abituata ai brunch sulla spiaggia e a infagottarsi nella lana quando la temperatura scende a diciotto gradi nelle ventose giornate invernali. Qui ha una casetta e una vita tutte sue. Chissà se anche le due Faber si sono rifatte una vita da qualche parte, mi chiedo.

Quella sera, tornata a casa, tiro fuori la carta geografica su cui la nonna ha trovato Grotsburg e l’atlante aggiornato che Daniel ha lasciato qui e che ho scovato sullo scaffale di quello che un tempo era il nostro studio comune. Non sono certo una patita della geografia e della storia come lui e mio padre, l’unica cosa che li accomunava e di cui discutevano tranquillamente, però trovare l’atlante ancora in casa mi rincuora. Almeno mi risparmio un altro viaggio in biblioteca.

Confronto la carta prebellica con quella attuale e trovo Vienna nell’identica posizione di un tempo, anche se, considerato quello che ha detto la nonna del Teatro dell’Opera, immagino che nella realtà sia molto diversa da allora. Con il dito mi sposto verso ovest, ma nel punto in cui sulla carta risalente al 1932 compare Grotsburg non esiste niente sulla mappa attuale. Proprio come non esiste Hertzscheimer, il paese natale della nonna nella Germania Est.

Passo con lo sguardo da una carta all’altra e noto le differenze. Anche altre cittadine sono scomparse. E mentre osservo le due cartine così, fianco a fianco, ho l’impressione di avere la prova tangibile degli orrori subiti da questi Paesi durante la Seconda guerra mondiale e oltre. Ne prendo coscienza come mai prima d’ora. I puntini sulla carta rappresentano case, attività commerciali, esseri umani. Spazzati via così. Come se niente fosse.

Il consiglio di Jason di cercare negli archivi notizie dei Faber mi sembra inutile. Di certo non esistono archivi relativi a una cittadina scomparsa da anni. Le figlie di Faber e ogni documento che le riguardi saranno senz’altro stati distrutti insieme alla città. Eppure non potrebbe esistere la remota possibilità che siano riuscite a fuggire prima che questo accadesse?

Mi corico ancora ossessionata dalle parole di Benjamin sul fatto che in Austria, in tempi come quelli, le figlie di Faber possano aver fatto una brutta fine. E cado in un sonno inquieto e profondo, pieno di città in fiamme e di donne sconosciute che scompaiono con i corpi che vanno in fumo.