Los Angeles, 1989

DOMENICA ho un normalissimo incontro con mio padre. Non accenno né alla sua collezione di francobolli né alla lettera né alla mia visita alla nonna. Sa di nuovo chi sono, ma sembra non ricordare niente della mia visita di qualche sera fa e del suo monito a non tornare mai più. Parliamo del tempo: è un novembre freddino per Los Angeles. Parliamo del film che per lavoro dovrò guardare stasera, A spasso con Daisy, e dell’attrice protagonista, Jessica Tandy, che tutti e due abbiamo apprezzato nel film Cocoon di qualche anno fa. Parliamo del Ringraziamento, che arriverà in men che non si dica, e a quel punto papà mi chiede se per allora saremo già a casa e se ho trovato i biglietti aerei, giusto per sapere quando è previsto di preciso il nostro viaggio di ritorno.

«Li sto cercando», gli rispondo come sempre. Poi mi chino, lo bacio sulla testa ormai quasi calva e gli dico che tornerò domenica prossima.

«Lo so», replica lui, e mentre lascio la stanza spero che sia davvero così.

* * *

Appena arrivo a casa, nel mio vialetto trovo un’auto sconosciuta, una Ford bianca. Parcheggio sulla strada e, mentre mi avvio alla porta, vedo Benjamin seduto all’interno dell’auto. Busso al finestrino del posto guida e lui sobbalza e lo abbassa per metà. «Non eri in casa e ho pensato di aspettare che tornassi», mi spiega imbarazzato.

«È tanto che sei qui?» domando. Dal modo in cui fa spallucce deduco che è un bel po’. «Ma non dovevi essere a un convegno a San Francisco?»

Lui scende dall’auto e mi segue fino alla porta d’ingresso. «Ci sono stato. Sono tornato stamattina», mi dice. «E ho scoperto qualcosa.»

«Qualcosa?» Apro e lui mi segue dentro casa. È in disordine come non lo è mai stata quando ci viveva anche Daniel, che è un maniaco della precisione. I libri della biblioteca sono sparsi sul tavolinetto del soggiorno e sul divano c’è una pila di biancheria che non ho ancora riposto. Se non altro è biancheria pulita. Impilo i libri e porto i panni in cucina per appoggiarli sul piano di lavoro, lontano dalla sua vista.

«Bella casa», commenta Benjamin, mostrando di non fare caso al disordine.

«Grazie.» Ha ragione, nonostante il caos, è una splendida casa in stile Craftsman completamente ristrutturata, che i precedenti proprietari avevano rimodernato per farne una versione anni Ottanta di quella originale. Però evito di raccontare a Benjamin che sto valutando di venderla, da quando Daniel se n’è andato e me l’ha gentilmente ceduta.

«Caffè?» gli chiedo invece. Si è accomodato sul divano e sta fissando i miei libri, le mie cartine dell’Austria.

«Volentieri», risponde, e io scaldo un nuovo bricco di caffè prima di tornare in soggiorno e sedermi accanto a lui. Imbarazzata dalla nostra vicinanza, mi allontano un po’ per evitare che le nostre gambe per sbaglio si sfiorino.

«Allora, raccontami di questo qualcosa che hai scoperto a San Francisco», gli dico.

«Ho mostrato il tuo francobollo a tutto il convegno», replica lui, ma anziché guardarmi in faccia continua a fissare i miei libri. «Nessuno ne aveva mai visto uno uguale. Con il fiore sulla guglia, intendo.» Non mi sembra una grande scoperta. Benjamin distoglie gli occhi dai libri e mi fissa con un’espressione più animata del solito. È eccitato per quello che ha scoperto, qualunque cosa sia. «Ma poi ho cominciato a chiedere a tutti notizie di Faber, per scoprire se qualcuno aveva una collezione dei suoi francobolli e sapeva cosa gli fosse successo dopo l’Anschluss.»

«È morto», ribatto io, ripensando alle date indicate sul manuale di filatelia che ho preso in biblioteca.

«D’accordo, ma allora come ci è finito il suo fiore su questo campanile?»

«Be’, non sarà opera sua», replico. A me sembra ovvio, ma dal modo in cui Benjamin si stringe nelle spalle fiuto la sua incertezza e mi viene il dubbio che il famoso francobollo sia stato realizzato prima di quanto lui pensi. «Aspetta, prendo il caffè e torno.» Entro in cucina, ne verso due tazzone e le porto in soggiorno. Benjamin prende la sua e mi ringrazia.

«Insomma, ho conosciuto un grosso collezionista del periodo della Seconda guerra mondiale. Aveva il francobollo originale con la cattedrale di Santo Stefano. Quello senza il fiore. Se ti ricordi, te ne ho parlato.» Tira fuori una Polaroid dalla borsa e mi mostra la fotografia del francobollo originale che deve aver scattato a San Francisco. È così simile a quello sulla mia lettera che avrei difficoltà a distinguerli. Però una differenza c’è. In questo mancano i piccoli petali sulla cima della guglia.

«E questo che significa? Che il francobollo di mio padre è una sorta di edizione speciale?»

Benjamin beve un sorso di caffè. «Non lo so ancora, però la parte interessante deve ancora arrivare. Questo collezionista mi ha detto di essere stato contattato da una donna, qualche anno fa. Cercava i francobolli di Faber. Voleva sapere quali aveva e si è offerta di comprarglieli a un prezzo esorbitante. Più alto del loro valore effettivo.»

Mi racconta tutto in fretta e sembra eccitato. Ma ancora le sue parole non mi suggeriscono niente. «Fammi capire, e questo che c’entra?»

«La donna che l’ha contattato ha detto di essere la figlia di Faber.»

«Fräulein Faber?» Mi sforzo di immaginare questa ragazza, che ormai sarà una donna anziana e, molto probabilmente, non più «signorina». Però è viva e, in qualche modo, dev’essere riuscita a lasciare l’Austria. «Dove si trova adesso? Lo sai?»

«Be’, lui mi ha detto che un paio di anni fa viveva a Cardiff.»

Ci sono appena passata da Cardiff-by-the-Sea, mentre andavo a trovare la nonna. «A San Diego?» Il pensiero che si trovi qui, così vicina, ha dell’incredibile.

«No, Cardiff in Gran Bretagna. Nel Galles.»

Ed è di nuovo lontanissima. Dall’altra parte del Paese e dell’oceano, addirittura. Se la spedissi oggi, la mia lettera, dovrei metterle tanti di quei francobolli per fargliela recapitare! Non sono neanche sicura che troverei il coraggio di comprare dei francobolli per posta aerea e di infilarla nella buca delle lettere perché giunga in volo dall’altra parte del mondo. E se andasse perduta?

«Jack mi ha detto che appena torna a casa cerca l’indirizzo tra i suoi contatti e la settimana prossima me lo invia. Voglio scriverle e chiederle di questo francobollo in particolare, della lettera che hai tu.» Finisce il caffè e posa la tazza sul tavolinetto, accanto ai miei libri della biblioteca. «Sempre che a te stia bene, chiaro.» Io annuisco. «Se è particolarmente prezioso, è logico che sia disposta a pagartelo fior di quattrini. E se anche non dovesse esserlo, Jack mi ha detto di averle venduto tutti i suoi Faber a prezzo più che maggiorato.»

Una gemma, diceva sempre mio padre. È questa la ragione che mi ha spinto a rivolgermi a Benjamin. Se c’era anche la minima probabilità che la sua collezione ne contenesse una, volevo saperlo. Pensavo, innanzitutto, alle spese che avrei dovuto sostenere per garantirgli un’assistenza continua. Adesso però non posso vendere questa lettera alla donna a cui è probabile che in origine fosse stata indirizzata. Se anche fosse disposta a pagarla profumatamente, non potrei mai accettare i suoi soldi per una busta destinata a lei.

Jason era convintissimo che dietro questa lettera ci fosse una storia. Possibile che la storia in questione non riguardi il francobollo, bensì questa vecchia signora gallese che un tempo abitava in Austria ed era giovane e innamorata? Come ci sarà arrivata nel Galles e che fine avrà fatto l’uomo che amava?

«Non posso vendergliela, se le appartiene di diritto», mi decido a dire. «Ho intenzione di restituirgliela, ma preferirei scriverle io stessa e farmi raccontare la sua storia. Appena ricevi l’indirizzo da questo Jack, me lo passi?»

«Volentieri», replica lui, più affabile di quanto mi sarei aspettata, considerato il tempo che devo avergli fatto perdere e la caccia infruttuosa che ha intrapreso per mio conto e per cui non sarà mai retribuito. «Però le chiederai anche del francobollo? E del fiore che contiene?»

«Perché ti interessa tanto, se non ho intenzione di venderlo?» Non è scortesia la mia, ma semplice senso pratico. Ormai che cosa ci guadagna?

«Ci tengo a saperlo. Giusto per capire.» Per la prima volta incontra il mio sguardo. Ha gli occhi di un blu intenso, quasi nero, come l’oceano a Santa Monica. Sono splendidi ma anche un po’ tristi, più colmi di sentimento di quanto mi sarei mai aspettata. E di colpo mi rendo conto che in fondo non lo conosco affatto, che al di là dei francobolli deve avere una vita che un po’ mi incuriosisce. «Sai», aggiunge, «non è detto che in futuro non mi capiti qualcos’altro del genere.» E mi concede un mezzo sorriso.

«Certo», replico io. «Certo che le chiederò del francobollo.» E mi viene il dubbio che anche lui ci tenga a svelare il mistero e che, come me, sia più interessato alla storia di questa donna che al resto, ormai.