DAL bollitore traboccava l’acqua e Kristoff lo allontanò dal fornello. Mentre lo posava sul bancone, qualche schizzo bollente gli ustionò leggermente la mano, ma non ci fa quasi caso.
Dov’erano la signora Faber e le figlie?
Le chiamò per tutta la casa, correndo su e giù per i tre piani dell’abitazione, ma la sua voce riecheggiò nei corridoi e nelle stanze vuote. Nessuno rispose. Tornò di corsa alla porta d’ingresso e la esaminò di nuovo. Possibile che fosse stato il vento a spalancarla? Macché, al centro c’era un’impronta, la grossa orma di uno stivale, e Kristoff immaginò un soldato tedesco buttare giù l’uscio con un calcio e trascinar via la signora Faber, Miriam ed Elena.
Si arrese e, senza fiato, si sedette con la schiena contro la porta. Sulla mano gli era già comparsa una vescica, così la infilò nella neve per calmare il bruciore. Le ragazze erano sparite. Non era possibile. Elena non l’avrebbe mai permesso.
Forse erano scappate quando avevano sentito arrivare i tedeschi? Ma dove potevano essere andate? Qual era il posto che Elena avrebbe ritenuto più sicuro? Il capanno segreto nel bosco, dove suo padre giaceva sdraiato sul pavimento?
Elena l’avrebbe ucciso, se avesse scoperto che sapeva della presenza di Frederick nel capanno; sempre che non ci avesse pensato Josef a ucciderlo prima, per non aver sorvegliato con più attenzione le due sorelle lasciandole sole per andare in città. Erano forse nel laboratorio? Lì non aveva ancora controllato.
Si alzò, attraversò di corsa tutta la casa, uscì dalla porta sul retro e percorse il cortile innevato. «C’è nessuno?» gridò mentre apriva la porta.
Ma il laboratorio era buio e deserto. Così si sedette sulla vecchia poltrona di Frederick, il corpo scosso da tremiti di paura e di rammarico. «No, no, no», si disse. La sua voce riecheggiò di nuovo nella stanza vuota.
Non poteva fare altro che andare al capanno nel bosco, da Frederick, e pregare di trovarle tutte là. Perché l’unica alternativa sarebbe stata quella di dire a Frederick che la moglie e le figlie erano sparite, che non sapeva dove trovarle e che sulla porta di casa c’era l’impronta di uno stivale tedesco.
Poi udì un rumore, un lieve squittio. Lo sentì di nuovo, ma che cos’era? Un singulto? Era forse… Miriam?
Accese una candela e alla luce della fiamma perlustrò con lo sguardo ogni angolo. Però non le vide. «Miri, Elena?» gridò. «Siete qui?» Nessuno rispose, ma lui insistette. «I tedeschi se ne sono andati. Sono io. Kristoff. Sono solo. Lo giuro. Siete qui?»
La stanza restò immersa nella quiete e nel silenzio per qualche altro istante, fin quando Kristoff sentì scricchiolare un’asse del pavimento e avvertì la terra smuoversi leggermente. Una delle tavole accanto ai suoi piedi fu scostata e da sotto emersero Elena e Miriam.
Kristoff non aveva idea che nel pavimento del laboratorio ci fosse un’intercapedine. «Papà custodiva le matrici qui sotto», gli spiegò Elena mentre si ripuliva i vestiti da polvere, ragnatele e chissà che altro. «Lo spazio è poco, ma è bastato a nasconderci.»
«Sembrava di essere già nella tomba», commentò Miriam. Era tutta sporca, con il viso striato di terra e di lacrime.
Elena abbassò lo sguardo e per un po’ non disse altro, come ammutolita dalle parole della sorella. Dal pensiero della tomba. Appena la sera prima aveva detto di non temere la morte. Non la sua, ma quella di Miri? Quella era tutta un’altra storia, Kristoff lo sapeva bene.
«L’hanno portata via, vero?» chiese Elena con voce tremante quando si decise a parlare, tuttavia senza alzare lo sguardo. «Hanno chiesto alla mamma notizie di papà e l’ho sentita rispondere che è morto. Però poi ho preso Miri per mano e siamo corse qui a nasconderci prima che riuscissi a sentire altro.» Finalmente alzò lo sguardo e, alla luce della candela, Kristoff poté vederla in viso. Al contrario di Miri, non piangeva. I suoi occhi verdi erano imperturbabili, risoluti. «L’hanno presa, vero?»
«Non lo so.» Kristoff deglutì a fatica, quasi certo che Elena avesse ragione, che la signora Faber fosse stata portata via. «Al mio ritorno non ho trovato nessuno, in casa. La porta d’ingresso era aperta. Il bollitore era ancora sul fuoco, con l’acqua che traboccava…» Non terminò la frase. Sapevano tutti e tre con certezza che, se la signora Faber fosse stata in casa, una cosa del genere non sarebbe mai successa.
«Abbiamo perso la mamma e il papà così. In un attimo.» Miriam alzò la voce. «Siamo sole al mondo. Siamo due orfane.»
«No», replicò Kristoff porgendole la mano. «Non è così. Venite con me.»
* * *
Mentre conduceva le ragazze al capanno nel bosco, Kristoff non si preoccupò dei timori di Frederick né della rabbia di Josef. Pensò soltanto a Miriam e a Elena, all’urgenza di informarle che il padre, in realtà, era ancora vivo. Tenerglielo nascosto era stato stupido, fin dall’inizio. A detta di Josef sarebbe servito a proteggerle nel caso fossero tornati i tedeschi, ma con la signora Faber non era servito a un bel niente. E il peggio era che l’avevano portata via comunque ed era ancora convinta che il marito fosse morto. Kristoff non si sarebbe mai perdonato di non averle detto la verità, e non intendeva continuare a nascondere Frederick alle figlie.
«Che ci facciamo qui?» domandò Elena quando si rese conto che erano diretti al capanno. Si fermò, poggiò le mani sui fianchi e si aggrappò al braccio di Miri con tanta forza da costringerla a fermarsi.
Kristoff non voleva raccontarle di Frederick, voleva mostrarglielo direttamente, come Josef aveva fatto con lui. Sperava che, trovandolo in vita, la ragazza si sarebbe concentrata su di lui, più che sul segreto che le aveva taciuto. «Fidati di me», le disse. Lei esitò e accostò Miri ancora di più a sé. «Ti prego.» Kristoff le poggiò una mano sulla spalla, e finalmente Elena lasciò andare la sorella e ricominciò a seguirlo fino alla porta del capanno.
Fu lui a entrare per primo e usò la fiamma della candela per illuminare Frederick, ancora disteso per terra. Sembrava addormentato, ma al loro arrivo aprì gli occhi e guardò dritto nella loro direzione. «Che cos’hai fatto, ragazzo mio?» domandò roco, con la gola stretta dall’emozione.
Kristoff distolse lo sguardo per non vedere la delusione sul viso stanco del maestro e si rivolse a Miri. «Non sei un’orfana», le disse, ma la ragazzina non lo ascoltava. Era troppo impegnata a gridare, saltare e abbracciare il padre.
«C’è un treno in partenza da Vienna la prossima settimana», disse Josef a Kristoff una sera mentre tornavano insieme al capanno, dopo essere stati a casa Faber a prendere un po’ di provviste. Erano passati giorni, settimane. Della signora Faber non c’era ancora traccia, ma neppure i tedeschi erano più tornati. A detta di Josef, il massimo che potessero sperare era che la signora fosse stata portata al campo di lavoro di Mauthausen, nell’Alta Austria; ma se quella era la prospettiva migliore, Kristoff non osava pensare quale fosse la peggiore. Le poche volte che era tornato in città, aveva appreso che altri erano stati trasferiti a Mauthausen o uccisi in mezzo alla strada. Si mormorava anche che un soldato tedesco avesse sparato al signor Himmle proprio su Wien Allee, mentre l’uomo tentava di sottrarsi all’arresto. Kristoff non sapeva se la notizia fosse vera oppure no, però a gestire l’emporio di Himmle adesso c’era un tedesco, e le forniture erano molto meno abbondanti di prima.
«Un treno?» domandò, non avendo ben chiaro a che cosa si riferisse Josef.
«Gli inglesi. Inaugurano un Kindertransport, accettano minori fino a diciassette anni e ne finanziano il trasferimento a Londra. Perché vivano per un po’ con delle famiglie affidatarie. È stato annunciato dalla Kultusgemeinde.» Kristoff riconobbe il nome di un’organizzazione ebraica con sede a Vienna. L’ufficio della Kultusgemeinde si trovava a un isolato di distanza dall’orfanotrofio, da bambino ci era passato davanti tante volte. «Prenderanno sia Miri sia Elena», continuò Josef. «Mi sono già procurato i biglietti.»
«E li hai trovati così, senza problemi?» domandò Kristoff.
«Danno la priorità agli orfani», rispose l’altro.
«Ma Elena e Miri non sono orfane.»
Josef si fermò e lanciò a Kristoff un’occhiata severa. Era ancora arrabbiato perché aveva portato le ragazze da Frederick. Ma sarebbero state ancora al sicuro in casa loro? Solo finché non fossero tornati i tedeschi, forse. E non c’erano dubbi che sarebbero tornati. «Sono orfane, invece», replicò Josef. «A tutti gli effetti.»
Kristoff non avrebbe mai rivelato a Josef di non sopportare l’idea che Miri ed Elena se ne andassero, salissero su un treno e poi presumibilmente su una nave, e raggiungessero Londra. Perché, pur sapendo che là avrebbero avuto una vita migliore, di questo era convinto, proprio non voleva che partissero. «L’hai già detto a Elena?» domandò a Josef.
«No. Penso che dovresti farlo tu. Ecco perché ho voluto informarti.»
«I-io?» balbettò Kristoff.
«Tu le piaci. Ti ascolterà.»
«Ma io credevo che voi due foste…»
«Elena?» Josef scoppiò a ridere. «Mi considera un fratello.» Esitò un istante, quanto bastò a Kristoff per intuire che i suoi sentimenti per Elena fossero invece ben altri. «Non solo lei, ma anche Miriam. Mio padre e Frederick erano vecchi amici… un tempo dipingevano insieme.»
«Tuo padre è un artista?» Kristoff non riuscì a nascondere il proprio stupore per il fatto che un uomo rude come Josef fosse cresciuto in una famiglia di artisti.
«Lo era, sì», replicò lui, ma non volle dirgli altro sulla sorte del padre. «Conosco Elena da quando eravamo bambini e insieme scorrazzavamo su per la collina in estate, e ci lanciavamo giù con lo slittino in inverno», proseguì. Poi abbassò lo sguardo. Forse non tollerava ricordare i bei tempi. Le estati e gli inverni traboccanti di libertà.
Avevano ormai raggiunto il capanno, ma Josef si fermò un attimo prima di entrare. «Porterò Miriam a casa, a prendere una borsa e qualcos’altro, perché fra qualche giorno sia pronta a partire. Tu convinci Elena», ordinò, come se fosse la cosa più facile del mondo.
Kristoff invitò Elena a passeggiare con lui nel bosco e la ragazza accettò, anche se faceva freddo e stava ricominciando a nevicare. Il capanno era un’unica stanzetta, fortunatamente provvista di un camino che teneva tutti quanti al caldo. Ma non c’era altro. E Kristoff sapeva che Elena non sopportava di dover restare al chiuso tutto il giorno. Le aveva portato una pila di romanzi inglesi che aveva trovato in camera sua, e poi ovviamente abiti e cibo per tutti. Ma lei non era tipo da trascorrere la vita fra quattro anguste pareti, con tutto quello che le stava capitando intorno.
Camminarono per un po’ in silenzio, appaiando passi e impronte nella neve, finché Kristoff non si decise a parlare. «Josef ha trovato una via d’uscita per te e Miri», annunciò sforzandosi di mantenere un tono sereno, fiducioso.
Elena si fermò e lo guardò dritto negli occhi. «Io non vado da nessuna parte.»
Alzò il viso decisa, irremovibile. Poi fu scossa da un brivido e Kristoff sfilò di tasca la mano calda e gliela poggiò sulla guancia: aveva la pelle gelata. «C’è un treno in partenza da Vienna, la prossima settimana», le spiegò. «Un Kindertransport, che trasferirà a Londra gli orfani per affidarli a famiglie inglesi per un po’, finché tutto questo non sarà finito.»
Elena tacque per qualche istante. Non si mosse. E, mentre la sua pelle si scaldava sotto la mano di Kristoff, restò così immobile che parve respirare appena. «D’accordo», acconsentì alla fine.
Kristoff non si aspettava una reazione del genere e, anziché sollevato, si sentì combattuto. Era contento che Elena avesse accettato senza indugio di partire, ma triste che fosse pronta a lasciarlo così, come se niente fosse. «Bene», replicò, ostentando un tono calmo e ragionevole. Ma faticò non poco a impedire che la voce gli tremasse. «Troverò il modo di trasferire anche tuo padre.»
«E aiuterai Josef», aggiunse Elena. «Li combatterai, vero, Kristoff?» Come avrebbe potuto un incisore come lui, un artista, affrontare un soldato? Tanti soldati? Il bulino poteva ben poco contro le armi, il fuoco, la distruzione. Ma Kristoff si sentì rispondere di sì, assicurare a Elena che l’avrebbe fatto, certo. Avrebbe combattuto eccome.
La ragazza lo guardò, con le guance colorite per il freddo e le labbra più rosse del solito. Kristoff notò solo adesso che aveva tre lentiggini sul dorso del naso. E resistette all’impulso di sfiorarle con il dito.
Elena se ne sarebbe andata. Non si era neanche opposta alla prospettiva di partire, non con convinzione. Sarebbe stata al sicuro, e di questo c’era da essere grati, eppure lui non riusciva a staccarle la mano dalla guancia né gli occhi dal viso, da quelle labbra bellissime, da quelle lentiggini.
Si chinò e fece ciò che desiderava da mesi. La baciò sulle labbra fredde. Però lei si ritrasse di scatto. L’aveva colta alla sprovvista, o forse il pensiero di baciarlo non l’aveva mai sfiorata, come invece era capitato tante volte a lui.
Elena alzò le mani e gliele poggiò sul viso. Kristoff aveva le guance ruvide, con un accenno di barba. Non si rasava da settimane, dalla Notte dei Cristalli. Come se il ricordo delle abitudini avute fino ad allora fosse stato cancellato dalle fiamme che avevano distrutto quasi tutta Grotsburg.
La ragazza gli accarezzò le guance, poi accostò il viso a quello di lui e lo baciò. Le sue labbra erano morbide ma volitive. Proprio come lei. Il bacio durò solo un breve istante, finché Elena si staccò e si premette la mano sulla bocca. «Che cosa stiamo facendo?» mormorò con voce tenera, priva della sua solita fermezza.
«Non lo so», replicò Kristoff. «Scusami. Ti stavo… dicendo addio, credo.»
Elena indietreggiò e infilò le mani nelle tasche del cappotto di lana. «Non mi piacciono gli addii.»
«Allora non era un addio», si corresse lui. «Era un arrivederci a presto.»
La ragazza non aggiunse altro e, senza aspettarlo, si voltò e si avviò di nuovo a passo svelto verso il capanno nel bosco.