KRISTOFF fissava le candele dello Shabbat appartenute alla signora Faber e ora disposte sul tavolo da pranzo: due piccole luci tremolanti. Nient’altro. Sapeva bene di rischiare di essere arrestato o ucciso, se Herr Bergmann avesse scelto proprio quel momento per tornare. Eppure recitò la preghiera a voce alta e in tono di sfida: Baruch atah, Adonai, Eloheinu melech ha’olam…
«Non è così», sentì dire da una voce di donna che gli giunse sommessa dall’oscurità, ma lì per lì pensò di averla immaginata. Così continuò a recitare la preghiera fino allo shel Shabbat conclusivo. «Non è mèlech ma melèch», disse la voce, più chiara di prima.
«Elena?» sussurrò lui nel buio, temendo che, se avesse pronunciato il suo nome a voce più alta, lei sarebbe scomparsa come un frutto della sua immaginazione, un fantasma. Perché non poteva essere lì. Era partita insieme a Miri con il Kindertransport la settimana precedente.
Udì un rumore, le sedie si mossero e lei uscì carponi da sotto il tavolo. «Ho sentito entrare qualcuno, ma non ero sicura che fossi tu finché non hai massacrato la nostra preghiera.» La ragazza si alzò, agitò le mani a coppa davanti alle candele e sussurrò in fretta la preghiera, una sola volta. Poi si rivolse a Kristoff con aria stupita: «Be’… allora? Sei diventato ebreo, adesso?»
«Elena?» Kristoff si azzardò a pronunciare il suo nome a voce un po’ più alta e le posò una mano sul viso, almeno per sincerarsi che fosse davvero lei, in carne e ossa. Aveva la pelle morbida e gelata quasi quanto il giorno in cui l’aveva baciata nel bosco innevato. Le labbra gli si scaldarono al solo ricordo. «Che ci fai qui?» le domandò. «Non dovresti essere qui.» Lui scostò la mano dal viso e le sfiorò la spalla, felicissimo di poterla toccare, di sentirla vicina, ma anche preoccupato per lei. «Dovresti essere in Inghilterra.»
«Ho fatto salire Miri sul treno. Arriverà sana e salva.»
«E tu invece?»
«Te l’ho detto, di me non m’importa.» E con queste parole si allontanò, per evitare che il calore della sua mano sulla spalla le dimostrasse che a lui importava, invece, e che anche lei avrebbe dovuto avere a cuore la propria sorte. «Qualcuno deve pur combattere, Kristoff. Se scappiamo tutti, chi resterà ad affrontarli?»
«Io», rispose lui rendendosi conto all’istante di aver detto una bugia. Che cos’avrebbe pensato Elena dei disegni che aveva già realizzato su richiesta di Herr Bergmann?
«Ma io non voglio scappare», replicò la ragazza. «Questa è casa mia.» Al pronunciare la parola «casa» la voce le s’incrinò leggermente, come se di colpo dubitasse di poter tornare a chiamare «casa» il luogo in cui lei aveva trascorso tutta la sua vita e Kristoff l’anno migliore della propria. Frederick viveva nascosto in misere condizioni, Miri era in viaggio verso l’Inghilterra e la signora Faber era scomparsa.
«Dev’esserci un altro treno in partenza», disse Kristoff. «Salirai sul prossimo. Ti porterò a Vienna io stesso.»
Elena rise e incrociò le braccia al petto. Avrebbe fatto di testa propria. Come sempre. Si voltò e s’incamminò verso la porta sul retro.
«Elena, aspetta.» Nell’udire quel richiamo, la ragazza si fermò e si voltò a guardarlo. «Dove stai andando?» le chiese Kristoff, ma lei non rispose e proseguì verso la porta. «I tedeschi sono stati qui. E torneranno. Vogliono che io disegni dei nuovi francobolli dell’Austria per conto loro.»
«I tedeschi», ripeté Elena in tono sprezzante. «Pensa se ti vedessero adesso, con le tue candele dello Shabbat.» E uscì dalla porta sul retro sbattendola con forza. Le sue parole lo avevano ferito, provocandogli un dolore fisico allo stomaco, un dolore nuovo che non si aspettava.
Impiegò un attimo per riprendersi. Afferrò una lanterna, la accese con la fiamma di una candela e poi soffiò sui ceri (pur sapendo che non bisognava farlo). Sventolò le mani sugli stoppini fumanti per assicurarsi di averli spenti a dovere, prese la lanterna e corse dietro a Elena.
All’inizio riuscì a vedere le sue impronte nella neve. Le seguì dentro il bosco e oltre la deviazione che conduceva al capanno dove era nascosto Frederick. Poi però ne perse ogni traccia, perché la neve cominciò a cadere riempiendo i solchi lasciati dai suoi passi; ma sapeva che, se non era andata dritta da suo padre, doveva essersi fermata prima a casa di Josef. O almeno lo sperava. Sperava che non fosse così stupida o sprezzante del pericolo da recarsi in città.
Raggiunse il confine della proprietà dei Bauer e vide che dentro l’abitazione le luci erano accese. Scorse Josef di schiena, che si chinava per avvolgere Elena in un abbraccio e, a quel punto, disgustato e imbarazzato, si voltò e tornò verso casa.
Restò a lungo sveglio nel letto, in attesa di sentire la porta sul retro aprirsi o le scale scricchiolare, ma non udì niente e finì per addormentarsi.
Si svegliò qualche tempo dopo, avvolto nell’oscurità. Era notte fonda. Ma Elena era tornata, ne percepiva la presenza nella stanza. La sentì salire sul letto e sdraiarsi al suo fianco, così vicina che avvertì il suo fiato caldo sul lobo dell’orecchio. Era lei, in carne e ossa. Kristoff aveva paura di parlare, paura di muoversi. Elena era lì, nel suo letto.
«Posso restare qui? Solo per stanotte?» gli domandò.
Lui si lasciò sfuggire un «Sì» roco e a malapena udibile.
Poi la sentì sospirare contro il materasso e accoccolarsi accanto a lui. Allora alzò il braccio, le cinse le spalle minute e l’accostò ancora di più a sé. Elena gli posò la testa sul petto e gli premette la guancia calda sopra il cuore. Appena si addormentò, Kristoff sentì il suo corpo rilassarsi e il respiro farsi più regolare, ma non la lasciò andare. Giurò a se stesso che non l’avrebbe lasciata andare mai più.
Quando si svegliò, il giorno dopo, con il sole che penetrava dalla finestra, si ritrovò solo. La presenza di Elena nel letto accanto a lui era stata solo un sogno, dunque? Possibile che l’avesse evocata con la sola forza dell’immaginazione, del desiderio? Eppure avvertiva ancora il peso della sua guancia sul petto, il lieve profumo di albicocca dei suoi capelli. Non l’aveva immaginata.
Si vestì e andò nel laboratorio, dove la trovò seduta al tavolo, intenta a sfogliare i disegni realizzati da lui in previsione dell’imminente ritorno di Herr Bergmann.
«Sono molto belli», commentò la ragazza senza alzare lo sguardo per accertarsi della sua presenza o per giustificare il fatto di aver trascorso la notte nel suo letto. Non che dovesse farlo, perché Kristoff era contento che fosse andata da lui, anche se adesso la sua presenza lo intimidiva. «Te la senti davvero di inciderli sul metallo, però? Con tutti questi particolari…» Elena percorse con il dito i numerosi, minutissimi dettagli, le piccole finestre e gli archi che Kristoff aveva disegnato a memoria sul Teatro dell’Opera.
«Non lo so.» Sinceramente, dubitava che sarebbe riuscito a incidere tutto a dovere. Non si era spinto tanto avanti con il pensiero. Si era preoccupato soltanto dei disegni. E del fatto che, al suo ritorno, Herr Bergmann potesse apprezzarli a sufficienza da ritenere il suo lavoro prezioso e lui stesso meritevole di conservare la proprietà di quella casa, del laboratorio e degli strumenti da incisione, nonché il ruolo di incisore di francobolli in terra d’Austria. Kristoff aveva promesso a Frederick di difendere l’integrità di quel luogo, e a quanto pareva l’unico vero modo per farlo era lavorare al fianco dei tedeschi. «Ma sarò costretto a farlo comunque», disse alla fine.
«Mmm», mormorò Elena, e chiuse il blocco da disegno. «Ieri sera ho parlato con Josef di come far uscire mio padre dal Paese.» A un tratto aveva assunto un tono brusco, come se dovesse condurre degli affari. A quanto pareva, qualsiasi emozione avesse provato a notte fonda nel buio della stanza di Kristoff era scomparsa senza lasciare traccia.
Lui fece segno di sì con la testa, chiedendosi che cosa avesse provato Josef nel rivederla. E anche Frederick. Temeva la conversazione che di lì a poco avrebbe dovuto sostenere con entrambi. Di sicuro Josef gli avrebbe dato tutta la colpa.
«Voglio che papà vada in America, a casa del suo amico.»
«In America? Perché non in Inghilterra, per stare con Miri?»
«In Inghilterra non avrebbe dove andare. Là accettano solo bambini. In America ha un amico, invece, e una volta che si sarà sistemato, Miri potrà raggiungerlo. E anche la mamma, alla fine.» Quando s’interruppe, Kristoff capì che era quella la vera ragione per cui era tornata indietro. Aveva messo in salvo la sorella e voleva fare altrettanto con i genitori. «Voglio fabbricargli dei documenti, un visto con un nome diverso, che non sia ebreo.»
«Falsificazione», commentò Kristoff. Era stato quello fin dall’inizio l’uso che Elena e Josef intendevano fare degli strumenti da incisione. L’ultima volta che la ragazza aveva sollevato l’argomento, a Kristoff era apparso come qualcosa di vago e distante. Ora invece gli sembrò un’idea così concreta e pericolosa da dargli il voltastomaco. Ma non trovò nessuna alternativa per aiutare Frederick. I tedeschi lo credevano morto, e anche se così non fosse stato, gli ebrei non potevano più lasciare il Paese senza versare un cospicuo tributo; Frederick, però, non avrebbe avuto denaro a sufficienza, soprattutto perché avrebbe dovuto pagarsi il viaggio per l’America. «Se ci beccano, ci ammazzano», commentò Kristoff.
«E mio padre morirà se resterà ancora in quel capanno», replicò Elena senza la minima esitazione. «Ha bisogno di un medico per la mano. E di cibo vero. E di aria fresca.»
Elena aveva ragione. Kristoff non sapeva quanto tempo ancora Frederick sarebbe sopravvissuto nascosto in quella baracca. E, se lei aveva lasciato Miri sul treno per tornare e combattere, lui non poteva certo mostrarsi codardo. «Se tu o Josef riuscirete a procurarvi un documento vero valido per l’espatrio, un visto, io vi aiuterò. Ne disegnerò delle copie per tuo padre, con un nuovo nome», concluse.
Elena gli sorrise e alzò il mento. «E io inciderò le lastre metalliche.» Kristoff ripensò al giorno in cui Frederick aveva criticato le incisioni della figlia attribuendole a lui e giudicandole poco precise, troppo frettolose, troppo incerte. A un occhio inesperto, però, Kristoff era sicuro che le incisioni di Elena sarebbero risultate migliori delle sue.
«Come le stamperemo?» domandò.
Frederick aveva sempre portato le matrici a Vienna, per farle stampare da Herr Schweitzer, ma loro non avrebbero certo potuto farlo, e poi chi poteva dire con certezza che la tipografia di Herr Schweitzer non fosse stata ridotta in cenere? Anche se fosse rimasta in piedi, di sicuro non sarebbe più stato Herr Schweitzer a gestirla. «Josef ha un amico disposto a farlo», replicò Elena.
Ma certo, Josef aveva sempre una soluzione per tutto. Kristoff cercò di non innervosirsi. Di colpo il viso di Elena gli parve più morbido, come lo aveva sentito sul petto la notte prima. «Realizzeremo dei documenti anche per te», proseguì. «Tu vuoi restare qui a combattere, ma ti serve anche una scappatoia. Non ti permetterò di batterti fino alla morte.» Elena si limitò a fissarlo con un’espressione imperturbabile. «Non te lo permetterò», ripeté lui.