HERR Bergmann tornò a inizio anno irrompendo nel laboratorio senza neanche bussare, così all’improvviso che Elena ebbe a malapena il tempo di nascondersi sotto il pavimento. Come se quel posto, un tempo appartenuto a Frederick, fosse ormai di proprietà del Reich tedesco. E forse, pensò Kristoff, lo era davvero.
Il ragazzo non fece in tempo a nascondere le matrici dei documenti per l’espatrio di Frederick, che Elena aveva quasi terminato. O meglio, dei documenti per l’espatrio di un’altra persona, un cristiano che in realtà non esisteva, Charles Darnay, e che peraltro portava il nome di uno dei personaggi di Dickens preferiti da Elena. «Potrebbe anche essere un segno», aveva detto la ragazza a Kristoff a proposito della nuova identità scelta per il padre. «Charles è l’uomo che viene salvato nel romanzo Una storia tra due città, proprio come succederà a mio padre quando finiremo i suoi documenti.» E Kristoff pregò che Herr Bergmann non si accorgesse delle lastre, non facesse domande in proposito e non le esaminasse.
«Mi auguro abbia avuto tempo a sufficienza per realizzare i disegni per il Führer, dico bene?» domandò Herr Bergmann in tono brusco, e Kristoff non osò immaginare che cosa sarebbe successo se quell’uomo – o il Führer stesso – non fosse stato soddisfatto dei suoi disegni. O avesse udito il respiro flebile di Elena provenire dal pavimento. O avesse capito che su quel tavolo da lavoro c’era la prova della loro attività di falsificazione.
«Jawohl, Herr Bergmann», rispose il ragazzo. E, preso il blocco da disegno, si sforzò di non guardare le matrici contraffatte. Se non le guardo, pensò, quest’uomo non avrà motivo di notarle. Ma, nel consegnare i disegni, non riuscì a impedire alle mani di tremare.
Herr Bergmann sfogliò l’album come aveva fatto Elena solo qualche settimana prima. Schioccò la lingua in segno di approvazione e fece un brusco cenno di assenso con la testa.
«Credo che il Führer sarà soddisfatto», disse alla fine. «Lei ha notevoli capacità.»
Non sapendo che cosa rispondere, Kristoff rimase a testa bassa, e la rialzò solo quando, con un gesto sbrigativo, Herr Bergmann gli riconsegnò il blocco. Era aperto in corrispondenza del disegno della cattedrale di Santo Stefano, una variante di quello che aveva mostrato a Frederick quando quest’ultimo si era deciso ad assumerlo come apprendista. «Cominci da questo. È una bellissima veduta dell’Austria», dichiarò Herr Bergmann. «Qui ha tutto l’occorrente per incidere la matrice?»
«Jawohl», ripeté Kristoff. C’era un’aria pesante, e Kristoff era convinto che anche Herr Bergmann l’avvertisse, la sentisse, come lui avvertiva la presenza di Elena sotto il pavimento.
Invece l’uomo non se ne accorse. Non aveva motivo di sospettare e sembrava averlo preso in parola, quando gli aveva detto che tutti i Faber erano spariti da un pezzo. Estrasse una busta dalla tasca del cappotto e la porse a Kristoff. «Mi auguro che lo reputerà un compenso accettabile.» Il ragazzo annuì senza neanche guardare all’interno. «Bene. Verrò a prendere la matrice fra qualche settimana.» L’uomo fece per andarsene ma poi si fermò e, voltatosi, posò l’enorme mano sulla spalla di Kristoff. «È un grande onore realizzare un francobollo per il Reich tedesco.»
Poi portò la mano destra alla fronte in segno di saluto, senza staccare la sinistra dalla spalla di Kristoff finché lui non si mise sull’attenti ricambiando il saluto. «Heil Hitler», si decise a dire il ragazzo con tutto l’entusiasmo di cui fu capace.
Herr Bergmann sorrise scoprendo un dente d’oro nell’arcata inferiore, poi girò i tacchi e se ne andò con la stessa velocità con cui era arrivato.
Kristoff lo guardò allontanarsi e scomparire dietro la casa, ma aspettò con le orecchie tese di sentire il rombo dell’auto prima di chiamare Elena e dirle che il pericolo era passato.
«Heil Hitler?» domandò lei rabbiosa quando uscì dal nascondiglio togliendosi la polvere di dosso. Una volta Miriam aveva paragonato quel buco sotto il pavimento a una tomba, ma Elena non sembrava altrettanto turbata. Anzi, incrociò le braccia al petto e fulminò Kristoff con lo sguardo.
«Perché, che cosa volevi che gli dicessi?» Il ragazzo le si avvicinò e le posò una mano sulla spalla, però lei si ritrasse bruscamente. «Ascolta, ho dovuto dirlo, o quello non se ne sarebbe andato.» Non riusciva a capire se era davvero arrabbiata con lui o se ce l’aveva con l’insensatezza di tutta la situazione.
Kristoff le porse la busta che aveva ricevuto poco prima da Herr Bergmann. «Che cos’è?» La ragazza ci guardò dentro, sfogliò con le dita esili i Reichsmark e, disgustata, gliela restituì. «Non voglio i loro soldi.»
«Mettili da parte per comprare a tuo padre il biglietto per l’America», le disse il ragazzo porgendole di nuovo il denaro. «Non c’è modo migliore di vendicarsi dei tedeschi che usare i loro soldi per aiutare tuo padre a lasciare il Paese.»
«Io ne conosco ben altri, di modi», replicò lei, indignata, ma poi accettò il denaro e infilò la busta nella tasca dei vecchi pantaloni di suo padre. Per lavorare indossava sempre gli abiti di Frederick, e Kristoff non capiva se lo facesse per non sporcare i propri o perché si fosse convinta che gli indumenti del padre, per quanto assurda fosse la cosa, potessero trasmetterle la sua bravura. E comunque, anche con quei vecchi abiti addosso, la treccia mezza sciolta e le guance imbrattate di terra, era pur sempre bellissima.
Kristoff ed Elena non avevano più parlato della notte in cui lei gli si era infilata nel letto addormentandosi fra le sue braccia, con i capelli all’albicocca vicini al suo naso; né a Kristoff era più capitato di vedersela comparire in camera. Nelle ultime settimane si erano evitati con discrezione, pur vivendo nella stessa casa e lavorando fianco a fianco nel laboratorio; si rivolgevano la parola solo occasionalmente o en passant o per discutere dei documenti che stavano realizzando.
Kristoff moriva dalla voglia di toccarla, di stringerla a sé. Ma non si mosse. «Sta per fare buio», si limitò a dirle. «È venerdì.»
«Non è il tuo Shabbat», replicò lei in tono accusatorio. Era ancora arrabbiata.
«Be’, e se invece lo considerassi anche mio, ormai?» Perché non avrebbe potuto esserlo? Dopotutto, Kristoff era orfano. Chi poteva sapere quale fosse il suo vero passato, il suo vero retaggio?
«Non è così che funziona», obiettò la ragazza. «Non puoi semplicemente decidere di diventare ebreo, e poi perché mai dovresti volerlo… qui, per giunta?» Alzò le mani come per abbracciare l’intimità del laboratorio, ma Kristoff capì che si riferiva a Grotsburg. All’Austria. All’Europa. A quei luoghi e a quel preciso momento, quando essere ebreo era la cosa più offensiva e pericolosa sulla faccia della Terra. Agli ebrei non era più consentito gestire attività né frequentare scuole tedesche, per non parlare della sanzione da un miliardo di marchi che Hitler aveva imposto loro per tutte le proprietà che erano andate distrutte durante la Notte dei Cristalli.
Kristoff avrebbe tanto voluto dirle che non si era mai sentito a casa quanto lì fra quelle quattro pareti. E che non si era mai sentito parte di una famiglia quanto in mezzo a loro, i Faber. E invece le disse: «Devi convincerti che non sono uno di loro».
«Ma non sei neanche uno di noi», obiettò Elena. Poi uscì dal laboratorio ed entrò in casa.
Quella sera, quando il buio dell’inverno avvolse il cortile, Kristoff si mise sulla porta del laboratorio a osservare il tremolio di due piccole candele oltre la finestra della cucina.
Si trattenne nel laboratorio fino a tardi, cercando di riprodurre sul metallo il bozzetto della cattedrale di Santo Stefano, ma Elena aveva ragione. Quel disegno aveva un’infinità di linee sottili e lui non riusciva a imporre al bulino la precisione che avrebbe voluto. Dopo qualche ora, vinto dalla frustrazione, ci rinunciò e tornò in casa.
Elena gli aveva lasciato del pane in cucina: non la challah, perché in quel periodo le uova scarseggiavano ed erano troppo costose, ma un misero surrogato, un pane integrale asciutto e non lievitato che aveva cotto al mattino. Però gliene aveva lasciato un po’ su un piatto, una piccola offerta di pace. Kristoff prese il piatto dal bancone, spalmò sul pane un velo di marmellata di albicocche, che erano ormai costretti a razionare, e lo portò in sala da pranzo. Mise un altro ciocco sul fuoco per ravvivarlo, si guardò intorno e sbirciò sotto il tavolo per accertarsi che Elena non fosse a portata d’orecchi. Ma non la vide.
E prima di mangiare il pane recitò svelto, a bassa voce e a se stesso, la preghiera dello Shabbat.
Qualche ora dopo, in camera sua, non riuscendo a prendere sonno, si mise a camminare su e giù per la stanza. Si chiedeva se sarebbe mai riuscito a realizzare un’incisione accettabile e a restare nelle grazie di Herr Bergmann.
A un tratto Elena aprì la porta senza bussare, con la stessa irruenza mostrata qualche ora prima da Herr Bergmann. Entrò e si sedette sul bordo del letto. «Kristoff», disse con gentilezza. Non era più in collera con lui.
Il ragazzo si fermò e restò dov’era, abbastanza vicino da riuscire quasi a toccarla. «Grazie per il pane», le disse. «Era buono.»
«Non è vero», replicò lei con franchezza. «Ma con quello che avevo a disposizione non sono riuscita a fare di meglio.» Ripiegò le braccia sul grembo e intrecciò le dita. «Non riuscivo a dormire. Prima non avrei dovuto prendermela tanto con te, nel laboratorio. Hai fatto così tanto per aiutare noi e mio padre.» Abbassò lo sguardo. «So che non sei uno di loro, che sei costretto a lavorare per loro.»
Kristoff mosse un passo avanti e si ritrovò tanto vicino a lei da sfiorarla. «Sai che non ti farei mai del male.» Allungò le braccia e le posò le mani sulle spalle. Scossa da un brivido, Elena si alzò, ma prima che potesse lasciare la stanza e correre giù per le scale, Kristoff la strinse a sé. La cinse tra le braccia e la tenne stretta. Era il momento più perfetto di tutta la sua vita: la sensazione di tenere Elena fra le braccia, il suo profumo, il calore della sua guancia contro di sé.
«Li combatteremo», dichiarò Elena. «E vinceremo. Insieme.»
Kristoff interpretò le sue parole come una dichiarazione: lui ed Elena sarebbero rimasti uniti perché lei desiderava stare con lui e, qualunque cosa avessero fatto, l’avrebbero affrontata uniti. Pur sapendo che lei non aveva detto esattamente così, d’istinto replicò: «Voglio che restiamo per sempre insieme, io e te».
La ragazza si alzò in punta di piedi, accostò il viso al suo e lo baciò.
Al solo tocco delle labbra di lei, Kristoff restò senza fiato. Aveva immaginato quel momento decine di volte, dal giorno in cui si erano scambiati quel bacio d’addio nel bosco, in mezzo alla neve. «Non mi piacciono gli addii», aveva detto Elena. Il bacio di allora era stato un gesto di disperazione, pieno di infinita tristezza di fronte alla possibilità di non rivedersi mai più. Il bacio che si scambiarono in quel momento, invece, fu più lento, più delicato, più dolce. Un inizio, non una conclusione.
Kristoff accostò le dita alla camicia da notte di Elena e armeggiò con il primo bottone. Ma lei posò la mano sulle sue, come se volesse fermarlo, pensò il ragazzo. Così si bloccò. Abbassò le braccia lungo i fianchi, smise di baciarla e fece un passo indietro. Ansimava e vide che lei aveva le guance in fiamme. «Mi dispiace», le disse. E invece no, non gli dispiaceva.
Lei si sbottonò la camicia da notte con sveltezza ed efficienza, la sfilò dalla testa e la lasciò cadere a terra. Sotto era completamente nuda. Alla vista dello splendido incarnato pallido, della morbida curva dei seni nudi, Kristoff restò senza fiato. «Non ti piace quello che hai davanti?» La voce di Elena aveva l’asprezza di sempre, quella durezza che la rendeva ostinata, ottusa, intelligente e bellissima. Che la spronava a combattere. Era un capolavoro. Ogni linea, ogni curva del suo corpo possedeva una perfezione che Kristoff non avrebbe mai potuto raggiungere, se in seguito avesse tentato di ritrarla affidandosi alla memoria.
Allungò di nuovo la mano, le poggiò il pollice sulla clavicola e la percorse con delicatezza, come l’avrebbe disegnata se in luogo del pollice avesse avuto un carboncino e la pelle di Elena fosse stata il foglio bianco di un blocco da disegno. Scese dalla spalla allo sterno e poi si fermò un istante prima di proseguire. Non aveva mai toccato una donna in quel modo. Eppure continuava a muovere la mano come se sapesse esattamente cosa fare, come se toccarla gli risultasse naturale quanto disegnarla. «Sei bellissima», le disse con la voce roca.
Poi la distese sul letto e sentì il suo corpo rilassarsi fra le proprie braccia. Non pensò ad altro. Né ai tedeschi, né ai francobolli, né all’imminente pericolo in cui si trovavano tutti quanti. Solo a lei. Alla sua pelle così liscia.
«Kristoff.» Elena pronunciò il suo nome in tono né perentorio né interrogativo, ma come una certezza. Sapeva ciò che voleva esattamente quanto lui.