Austria, 1939

A SETTEMBRE i nazisti invasero la Polonia e Francia e Inghilterra dichiararono guerra alla Germania. Kristoff avvertì uno strano sollievo quando ricevette la notizia da Josef. Perché ora c’erano altre persone a combattere i tedeschi, soldati veri. Non erano più soli.

«Forse possiamo smetterla una volta per tutte», disse a Elena nel laboratorio una mattina di settembre. «Francesi e inglesi sconfiggeranno i tedeschi.» Nonostante avesse insistito perché le carte che avevano falsificato per Robert e Elisa fossero le ultime, lui ed Elena stavano già lavorando a due nuove serie di documenti: una per una coppia di amici dei cugini di Josef, che erano stati informati della loro attività clandestina da Robert, e l’altra per l’amico ebreo di uno studente che Schwann aveva conosciuto all’università. Inoltre Josef aveva fatto stampare cinquanta esemplari del nuovo francobollo di Kristoff, che raffigurava la cattedrale di Santo Stefano con la stella alpina sul campanile: un brutto segno a dimostrazione che tutti, tranne Kristoff, progettavano di continuare a falsificare parecchie altre carte.

In aggiunta a quei documenti, i due ragazzi stavano anche terminando una nuova matrice per Herr Bergmann. L’uomo sarebbe potuto tornare da un giorno all’altro, e ogni mattina Kristoff si svegliava con il terrore di vederlo ricomparire.

«È un’utopia, Kristoff», commentò Elena a proposito delle sue speranze che il resto d’Europa salvasse l’Austria. E sospirò. Kristoff sapeva che i suoi continui timori la sfinivano. «E poi te l’ho detto, non sei obbligato ad aiutarci se non vuoi», proseguì.

«Non è che non voglio», replicò lui. Gli sarebbe piaciuto che tutti gli ebrei lasciassero il Paese sani e salvi. E ancora di più che tutti i nazisti se ne andassero e che l’Austria e la casa dei Faber riacquistassero la loro bellezza e tornassero a brillare. «Però sono convinto che Josef non si sbagliava quando ha detto che se continuiamo a falsificare documenti, prima o poi ci beccheranno. E ci uccideranno tutti.»

Elena scosse la testa. «Perché ancora non avevi realizzato i tuoi straordinari francobolli.»

«Ma se un soldato tedesco dovesse accorgersi della stella alpina…» Gli vennero in mente le parole di Josef: Se notassero la modifica nel francobollo… ti ucciderebbero. Le aveva stampate nella mente e gli procuravano una costante fitta al petto.

«Non baderanno ai francobolli», replicò Elena senza la minima esitazione. E Kristoff avrebbe tanto desiderato crederle.

«Chi te lo dice? E poi non puoi combattere i tedeschi se sei morta», proseguì Kristoff. Era una discussione vana, come al solito. Lui voleva progettare concretamente la fuga di Elena, o meglio di entrambi, mentre lei si rifiutava persino di parlarne.

Elena posò il bulino e gli porse la mano. Un’offerta di pace. Non voleva litigare. Era l’ora del tramonto e nel laboratorio stava calando il buio. La sera, quando lasciavano quella stanza, Elena e Kristoff non erano più due ragazzi che trascorrevano la giornata lavorando senza sosta per contribuire, nel loro piccolo, alla sconfitta della Germania. Erano soltanto due persone che si amavano. E che desideravano amarsi il più a lungo possibile.

Ogni volta che terminavano dei nuovi documenti falsi e Kristoff sperava di riuscire a convincere Elena a espatriare, puntualmente Josef si presentava con un’altra richiesta, e ogni storia era più triste della precedente, ogni persona più bisognosa di lasciare l’Austria. Kristoff non poteva proprio rifiutarsi. Anzi, lui ed Elena presero ad attardarsi sempre di più nel laboratorio e divennero via via più veloci nel fabbricare i documenti. Ogni volta che finivano delle matrici, Josef le faceva stampare e inventava una lettera insulsa in cui raccontava del tempo o delle condizioni del gregge alla fattoria dei Bauer, dopodiché scriveva l’indirizzo sulla busta e vi apponeva, in un angolo, il francobollo con la stella alpina di Kristoff. Infine spediva la lettera all’ufficio postale mentre Schwann portava i documenti falsi a Vienna, per recapitarli ai destinatari presso la cattedrale di Santo Stefano.

Kristoff aveva spesso la sensazione di vivere con il fiato sospeso nell’attesa che i tedeschi venissero a prenderli, ad arrestarli per i loro crimini. Fu tentato di chiedere a Josef di restituirgli la pistola, ma a dire il vero non avrebbe saputo che farci, né come usarla. E poi sarebbe uscito perdente da qualsiasi scontro a fuoco, ne era sicuro.

Una mattina di ottobre, i due ragazzi furono svegliati da una serie di colpi alla porta di casa; Kristoff balzò sul letto e per poco non gli si arrestò il cuore. I tedeschi.

La settimana precedente avevano saputo da Josef che a Vienna centinaia di ebrei erano stati deportati: correva voce che fossero stati trasferiti nel ghetto polacco. Perciò il loro lavoro era diventato ancora più importante, sosteneva lui. O forse, aveva pensato Kristoff, di lì a poco sarebbero stati scoperti.

Nell’udire altri colpi, Kristoff si convinse che avessero individuato il suo francobollo.

Poi riconobbe la voce di Josef che chiamava Elena e, sentendosi mancare per il sollievo, si appoggiò per un attimo al bordo del letto.

Udendo che Josef la chiamava, Elena s’infilò in fretta la lunga camicia di Kristoff e i suoi pantaloni, e scese con lui ad aprire la porta.

Josef entrò in casa e guardò dritto Elena, che si strinse nella camicia come se a un tratto si sentisse in imbarazzo, messa a nudo. «Che succede?» domandò sulla difensiva.

«Ho ricevuto questo», rispose Josef porgendole un biglietto postale con le mani che gli tremavano, cosa che non era da lui; il cuore di Kristoff si mise a battere all’impazzata: era finita, in qualche modo li avevano scoperti. Quanto ci metteremmo a scappare? si domandò. «È di tua madre», disse Josef a Elena con la voce incrinata dall’emozione.

«Cosa?» replicò lei afferrando la lettera. «Come?»

«Leggi», la esortò Josef. Kristoff sbirciò da sopra la spalla di Elena e vide che sul biglietto c’era scritto Konzentrationslager Mauthausen. Sotto quella scritta erano riportate le istruzioni per comunicare con il prigioniero. Il prigioniero? Ma la signora Faber non aveva fatto niente di male se non vivere la propria vita, essere un’ebrea in Austria. Nella parte destra del biglietto, vicino all’indirizzo di Josef, era stato apposto uno dei francobolli realizzati da Kristoff: la versione autentica sovvenzionata dai tedeschi, che ritraeva la cattedrale di Santo Stefano.

«Il francobollo», disse Kristoff, e si sentì sopraffare dalla disperazione al pensiero che fosse stato usato dalla signora Faber nella condizione in cui si trovava, di «prigioniera».

Elena capovolse il biglietto. Sul retro trovò un messaggio per Josef e sfiorò le parole con le dita, come se accarezzando la scrittura della madre potesse avvertirne di nuovo la presenza, viva e reale. Lesse il messaggio ad alta voce: «Caro Josef, ti scrivo per avere notizie delle mie figlie. Io sto bene e lavoro con impegno. Mangio e non patisco ancora troppo freddo. Sono fiduciosa, ma ogni giorno penso senza sosta alle mie figlie e prego per loro, che siano sane e salve. Ti prego, dimmi che lo sono. E scrivimi quando riceverai questo biglietto. Con affetto, Minna Faber».

Elena strinse il biglietto al petto e inspirò profondamente. Sua madre era viva e stava bene, almeno per il momento. «Le scriverò oggi stesso», decise.

«Non puoi», obiettò Josef. «I tedeschi censurano tutta la posta, e poi sono convinti che tu te ne sia andata. Non puoi scriverle.»

«Ma devo farlo», esclamò lei. «Devo farle sapere che Miri è in Inghilterra, che papà è vivo in America, e che io sono qui. Che continuo a combattere per lei. E per l’Austria.»

Guardò Kristoff in cerca di sostegno, ma lui si dichiarò d’accordo con Josef. «Mi dispiace», le disse. «Josef ha ragione.»

«Le scriverò io», proseguì Josef. «Le comunicherò che tu e Miri siete partite per Londra. Che siete tutte e due in salvo.»

«Ma non è vero! E che le racconterai di papà? Mamma è convinta che sia morto.»

«È meglio per tutti noi, e anche per lei, se la verità su tuo padre resta un segreto, almeno per il momento. I tedeschi lo credono morto. Ed è preferibile che continuino a crederlo.»

Josef le cinse le spalle con il braccio e Kristoff fu infastidito dal gesto, ma non si mosse. «Ascolta», insistette. «Tua madre è viva. Dice di essere in forze. Sono tutte buone notizie.»

«Già», concordò titubante Elena.

«Oggi le risponderò, le scriverò di non preoccuparsi e di essere prudente», proseguì Josef. «È la cosa più importante, per tutti noi. Dobbiamo essere prudenti.»

Per una volta, Kristoff si trovò d’accordo con lui.

«Raccontami qualcosa del nostro futuro», disse Elena a Kristoff qualche sera dopo. Erano sdraiati sul letto, al buio. Elena aveva intrecciato la coscia nuda a quella di lui; aveva la pelle fredda e Kristoff avvolse ancora di più i loro corpi nella coperta. Con l’arrivo dell’autunno, in mansarda l’aria stava rinfrescando.

«Be’», esordì Kristoff. «Andremo in America, troveremo tuo padre. Ci compreremo una casetta. Più piccola di questa, forse, ma sarà tutta nostra.»

«Vicino al mare», aggiunse Elena con voce dolce e sognante. «Ho sempre desiderato abitare vicino al mare.»

«Vicino al mare.» Kristoff non conosceva abbastanza bene la geografia dell’America, ma le promise che il giorno dopo avrebbe studiato una cartina per trovare un posto che potesse piacerle. La baciò sulla testa, inspirando il profumo di albicocca dei suoi capelli.

Elena si accoccolò contro di lui e il suo corpo si rilassò. «Ritroveremo anche la mamma e Miri. E poi avremo un bambino, anzi, una bambina», disse. «O magari due. Una femmina e un maschio.»

«Una femmina e un maschio», mormorò Kristoff cercando di immaginare che effetto gli avrebbe fatto non avvertire più quel macigno costante sullo stomaco. Quel terrore continuo e insostenibile. Cercò di immaginare di sentirsi leggero, libero. E che anche Elena provasse la stessa sensazione, come madre, con i loro bambini. Che aspetto avrebbero avuto? Li vide entrambi con gli stessi occhi verdi di Elena e gli stessi capelli mossi castano chiaro. Due meravigliose creaturine che correvano in mezzo alla schiuma del mare e lanciavano sassi scintillanti fra le onde, mentre la risata di Elena riecheggiava nel fragore dell’acqua.

Restarono in silenzio per un po’, persi nelle loro fantasticherie. Kristoff si rese conto di non aver mai desiderato qualcosa più ardentemente della fantasia che aveva appena descritto a Elena.

«Voglio che t’innamori di nuovo», disse lei alla fine, strascicando la voce assonnata. «Se mi dovesse succedere qualcosa, tutto quello che hai detto lo farai con un’altra.»

«Non amerò mai nessun’altra donna», obiettò Kristoff. «Non voglio. Tutte quelle cose le voglio soltanto con te.»

Ma Elena non aggiunse altro. Il suo respiro si regolarizzò. Dopo intere serate trascorse a lavorare fino a tardi, si era finalmente addormentata.