Los Angeles, 1990

MI piace sempre fare tabula rasa, ricominciare da capo. È iniziato un nuovo anno, un nuovo decennio. E a gennaio, tornata da Coronado, so che per me è arrivato il momento di trovare un nuovo impiego. Prima mi procuro un agente immobiliare e metto in vendita la casa, però. Non voglio vivere con tutti quei vecchi ricordi. Voglio ripartire da zero.

Poi chiamo Jason e gli racconto tutto quello che ho scoperto sul francobollo e su mio padre. «Wow», commenta lui all’altro capo del telefono. «Lo sapevo che c’era una storia dietro.»

«Già», replico mentre mi rosicchio l’unghia del pollice. Vorrei che Jason mi proponesse un lavoro, che si offrisse di pagarmi per scrivere questa storia. Ma, visto che non si decide, sono io a domandargli: «Allora, mi assumi per scrivere il pezzo o no?»

«A una condizione», risponde lui. «Voglio sapere cosa c’è scritto nella lettera.»

«Nella lettera?» Impiego qualche istante a capire ciò che mi sta chiedendo, perché è da un bel po’ che sono concentrata solo sul francobollo.

«Quella che tuo padre ha scritto a Elena. Insieme all’articolo pubblicheremmo anche il testo della lettera», mi spiega con la voce carica d’entusiasmo.

«Non posso aprirla», replico io. «Non è indirizzata a me.»

Jason se la ride, convinto che io stia scherzando. Invece non è così.

«No, davvero. Non ho il diritto di aprirla.»

«Ma l’hai detto tu stessa che quasi certamente Elena è morta», obietta lui.

«Comunque sia… non lo trovo giusto. Mio padre le ha scritto una lettera d’amore. Non possiamo sbandierarla a tutto il mondo sulle pagine di Voice. Deve restare una questione privata.»

«Ma la tua storia non è completa se non scopriamo di più sulla relazione fra Kristoff ed Elena», mi fa notare Jason. «Non ha ancora un finale. Non sai nemmeno che ne è stato di Elena.»

«Hai ragione», ammetto. Ma in quel momento capisco che non lavorerò per lui. In fondo, non è mai stato questo lo scopo dell’intera faccenda.

Mi aggrapperò a questa lettera come a un frammento di mio padre, del suo passato, della sua storia. E se continuerò a indagare su che fine abbia fatto Elena, non lo farò né per Jason né per la rivista Voice. Lo farò per mio padre, per me stessa.

A febbraio trovo finalmente un impiego e inizio a lavorare per Gladys Weinstein, una mezza hippy più o meno dell’età che avrebbe mia madre se fosse ancora viva. Ha da poco avviato una piccola rivista, la Jewish LA, e mi ha assunto per scriverne i contenuti. Così riacquisto familiarità con la Los Angeles che conoscevo da bambina, e con quegli aspetti della mia vita legati alla religione ebraica che finora ho trascurato completamente. Compro delle candele per lo Shabbat e ogni tanto il venerdì le accendo, se sono a casa e dell’umore adatto. In questo periodo lo sono quasi sempre. Mio padre mi ha raccontato che in realtà la sua conversione all’ebraismo risale alla sera in cui pensò di aver perso Elena per sempre, e lei lo sorprese a sussurrare la preghiera nella maniera sbagliata. Furono molti i venerdì in cui la paura impedì a Elena di accendere le candele, mentre io posso accenderle quando voglio. In qualche modo, mi sento in dovere di non dimenticare per rendere onore a lei e a mio padre.

A primavera vendo la casa a una giovane coppia di sposi novelli, ancora fastidiosamente entusiasti del matrimonio, dell’amore e delle possibilità che offre il futuro, e trovo un bilocale a Santa Monica da cui posso raggiungere Willows a piedi. E che comunque fa più al caso mio.

Adotto una terrier trovata al canile, Lucky, e la porto spesso sulla spiaggia e qualche volta anche a Willows, dove ci sediamo fuori con mio padre nel giardino d’inverno. A mio padre piace la cagnolina, anche se ogni volta è convinto di non averla mai vista.

Ad aprile vado a casa della nonna per la Pasqua ebraica, che festeggiamo insieme ad alcune sue amiche del circolo di bridge. Tutte vorrebbero accasarmi con i loro nipoti, e io declino le offerte farfugliando delle scuse educate. «Non sono pronta», mi giustifico.

«Che fine ha fatto il dolce Benjamin Grossman?» mi sussurra la nonna in tono cospiratorio da una parte all’altra del tavolo. Poi racconta alle amiche di quando Benjamin mi ha accompagnato da lei e di quanto fosse carino.

«Figurati, non gli parlo da mesi», replico io, omettendo tutte le volte in cui ho pensato a lui chiedendomi che cosa stesse facendo o se fosse sveglio nel cuore della notte come me. «E poi gli interessava soltanto il francobollo», aggiungo. «E nient’altro.»

«Se lo dici tu», commenta la nonna.

Giugno porta con sé la giornata più calda mai registrata a Los Angeles, e quando in città si sfiorano i quarantacinque gradi, ringrazio il cielo che il mio nuovo appartamento con balcone sia più vicino al mare. Persino in una giornata come questa mi arriva una leggera brezza dal Pacifico. E accolgo la prossimità dell’acqua come un nuovo dono.

La mattina Gladys mi chiama per dirmi di non andare al lavoro. Il nostro piccolo ufficio è sprovvisto di aria condizionata, mentre fortunatamente il mio appartamento ce l’ha. Le offro rifugio da me, ma lei mi risponde che sta andando al centro commerciale, dove potrà godere del fresco e fare acquisti. Allora la informo che lavorerò da casa, e lei replica ridendo: «Oh, Katie, prenditi una giornata libera. Non si lavora quando fuori sembra di stare all’inferno».

Io e Lucky trascorriamo la giornata a guardare le soap opera sul divano e, verso l’ora di cena, mi stupisco di sentir bussare alla porta. Nessuno è così pazzo da fare pubblicità a domicilio in una giornata come questa, eppure sento bussare di nuovo e mi alzo per sbirciare dallo spioncino. Dall’altra parte c’è Benjamin, sudato e in disordine, con i riccioli arruffati e gli occhiali un po’ appannati per il caldo. E di colpo sento riaffiorare tutto ciò che abbiamo condiviso, quei giorni nebbiosi nel Galles.

«Hai cambiato casa», esordisce senza neanche salutarmi appena gli apro. E questo mi ricorda che è un tipo schietto, uno che va dritto al punto. Trovarmelo davanti così, identico a prima, mi fa sorridere. «Ho avuto difficoltà a rintracciarti.» Sbircia oltre le mie spalle, dentro l’appartamento tutto sottosopra, con la biancheria impilata su un lato del divano, i libri della biblioteca accatastati sul pavimento. E i piatti sporchi nel lavandino, se riesce a vedere fin là. «È più piccola della casa che avevi prima», commenta.

«Per me sola non serviva tutto quello spazio. E poi qui sono più vicino a mio padre. E al mare.» Apro di più la porta. «Vieni dentro. Fa troppo caldo per stare lì fuori.»

Benjamin entra e Lucky gli corre incontro. Lui s’inginocchia per accarezzarla e non si ritrae quando lei gli lecca la mano. Non avrei mai detto che fosse un amante dei cani. «È nuova anche lei?» mi domanda.

«Già. Nuovo decennio, nuovo appartamento, nuovo cane, nuovo impiego, nuova vita.» Gli faccio spazio sul divano piazzando un mucchio di panni sul tavolino. «Vuoi qualcosa da bere?» gli domando.

Lui declina l’offerta con un cenno della testa. «Sto bene così. Non posso fermarmi. Volevo… Volevo solo sapere come stavi, tutto qui.»

«Proprio oggi? Con i mille gradi che ci sono fuori?» Dopo avergli lasciato quel messaggio a dicembre, qualche volta sono passata in macchina davanti al suo studio o fin su dalle sue parti sperando di incontrarlo, anch’io per sapere come stava. Ma sempre con condizioni meteo più gradevoli.

«Te la cavi bene, vedo», commenta lui, rivolto più a se stesso che a me.

Annuisco. Me la cavo, sì, e sono contenta che lo abbia notato. «E tu?» gli domando. «Come te la passi?»

Invece di rispondere, occupa il posto che gli ho offerto sul divano e accenna un sorriso, come per farmi capire che anche lui sta bene. «A dire il vero, sono venuto qui per informarti che sto ancora indagando sul tuo francobollo», dichiara.

«Davvero?» replico io, e mi siedo accanto a lui. «Voglio dire, anch’io continuo le ricerche, ma credevo che tu fossi preso da altri francobolli.»

«È così, infatti. Ma il tuo francobollo era…»

«Com’era?»

«Diverso», si decide ad ammettere abbassando lo sguardo. Non lo rialza subito, perciò gli dico che sto cercando di capire che fine abbia fatto Elena. Jackie, la signora della Holocaust Society, mi ha suggerito di cercare negli elenchi della Croce Rossa conservati su microfilm nella biblioteca dell’Università della California, ma non sono riuscita a trovare il suo nome. Ho anche scritto al professor Grimes, il quale mi ha informato che a breve, quando il processo di riunificazione sarà concluso, la Germania Est renderà pubblici certi documenti relativi al periodo bellico. C’è da sperare che spuntino il nome di Elena o dei particolari sulla sua vicenda.

«Ho contattato alcuni venditori di francobolli in Germania e in Austria», mi comunica Benjamin. «Continuavo a pensare alle altre lettere. Ne esistevano quindici o venti, giusto? Che fine potevano aver fatto? Almeno una poteva essere stata conservata, da qualche parte. E ora che la Germania si sta riunificando… be’, ho pensato che uno dei nostri francobolli sarebbe potuto spuntare proprio là, addirittura nella Germania Est.»

«Una bella scommessa», commento, ricordando ciò che mi ha detto Jackie a proposito del minuzioso lavoro di setaccio che occorre fare quando si cercano dei superstiti.

Lui annuisce. «Ecco perché non ti ho detto cosa stavo facendo.» E così stava ancora cercando, stava lavorando per me badando anche a proteggere i miei sentimenti? «Ma alla fine i miei sforzi sono stati ripagati», dichiara.

«Ne hai trovato uno?» Per un attimo dimentico persino di respirare. Esiste un altro francobollo come il nostro, identico a quello di mio padre? Un altro frammento del suo passato?

«Herr Jacobs, un filatelico che ho contattato a Berlino… questa settimana ho ricevuto una sua lettera; mi ha scritto che qualche tempo fa gli è capitato fra le mani un francobollo simile. E che quel francobollo ce l’ha ancora lui. In autunno ho intenzione di andare a trovarlo», mi spiega. «Il numero di compagnie aeree che inaugurano voli di linea verso Berlino sta crescendo, o comunque crescerà dopo la completa riunificazione delle due Germanie. A quel punto potrò vedere di persona Herr Jacobs e il suo francobollo. E magari, mentre siamo là, potremo anche dare un’occhiata a quei documenti che la Germania Est è intenzionata a rendere pubblici e vedere cosa riusciamo a scoprire sul conto di Elena.» Si interrompe, come se si fosse lasciato trasportare un po’ troppo, e si accorge di aver parlato al plurale. «Intendevo dire che cosa riesco a scoprire mentre sarò lì, scusami.»

«No, in Germania voglio venirci anch’io», replico. «Ma questa volta mi pago il biglietto.» Benjamin sorride come se stesse ripensando al nostro viaggio nel Galles, e io mi chiedo se anche lui, come me, ne conservi un dolce ricordo. «Un’ultima cosa», aggiungo. «Ti dispiace se viene anche mia nonna?»