Germania, 1990

«DA quella mattina non rividi mai più Kristoff », dice Elena. «Qualche settimana dopo, io e Josef tornammo a Grotsburg dietro mia insistenza, ma non trovammo più nulla. La casa dei miei genitori, la fattoria dei suoi… Era tutto in cenere.» Tira fuori un’altra sigaretta dalla borsa e la accende con le mani tremanti.

«Non capisco», intervengo io. «Mio padre non ha fatto parola dell’arrivo dei tedeschi, quella mattina. Ha detto di aver trovato una lettera nella neve, ai margini del bosco, e di aver pensato che le fosse caduta, visto che non era più tornata a casa. Era convinto che lei fosse stata catturata dai tedeschi.»

Elena dà un tiro alla sigaretta e punta lo sguardo in direzione del muro.

«Josef le aveva mentito sul fatto che quella mattina aveva visto i tedeschi a casa sua?» le domanda Benjamin.

«Sì», risponde lei dopo qualche istante e dopo aver dato un altro tiro alla sigaretta. «Se, come dite, Kristoff è ancora vivo… allora Josef deve avermi mentito.» Mi sarei aspettata una reazione un po’ più forte da questa donna che mio padre ha descritto come tanto indomita, questa donna che lotta ancora per la pace in Germania, dopo tutti questi anni. E invece sembra già rassegnata alla conclusione che Josef le abbia mentito. Perché non si è infuriata?

«Che ne è stato delle altre lettere, dei vostri francobolli?» le chiede Benjamin.

«Josef e io le spedimmo da Vienna, tutte eccetto quell’unica che avevamo accidentalmente lasciato nella neve a Grotsburg. Però con qualche manovra riuscimmo comunque a recapitare a chi di dovere i documenti che avevamo fabbricato. Non molto tempo dopo, il SOE britannico ci trovò e, per qualche anno, io e Josef lavorammo per loro. Contribuimmo alla realizzazione di alcuni dei loro francobolli, diffondemmo la propaganda in Germania.» Ripenso ai francobolli del libro che ci ha mostrato il professor Grimes. C’era la mano di Elena anche in quelli? «Poi la guerra finì», prosegue lei. «E io e Josef ci stabilimmo a Berlino.»

«Insieme?» le domando.

«Sì. All’inizio insieme lavoravamo soltanto, come avevamo sempre fatto. Ma con il passare degli anni, convinta che Kristoff fosse morto, cominciai a guardare Josef con occhi diversi.»

Ecco perché pochi minuti fa non ha reagito come mi aspettavo. Si era innamorata di Josef. Aveva voltato pagina. Come aveva fatto mio padre innamorandosi di mia madre. Dovrebbe farmi infuriare che Josef le avesse mentito, che avessero lasciato mio padre a se stesso, ma è probabile che il gesto di Josef abbia salvato la vita sia a lui sia a Elena. Se mio padre non l’avesse creduta morta, non avrebbe mai lasciato l’Austria, non sarebbe mai venuto in America a cercare Frederick e non avrebbe mai sposato mia madre. E adesso io non sarei qui. Di colpo realizzo la portata di quello che è accaduto e mi rendo conto di quanto le scelte e i minimi gesti di allora abbiano influito sulla mia stessa vita. Mi siedo sulla panchina, accanto a Elena.

«Per un po’ è andato tutto bene. Eravamo felici», continua lei. «Ma poi a Berlino è stato di colpo eretto il muro. Il giorno prima eravamo nella parte ovest della città per una festa, e quello dopo non c’è più stato verso di tornare indietro.» Spegne la seconda sigaretta con lo stivale, poi agita le mani vuote senza sapere più che cosa farne e si torce un po’ le dita. «Io e Josef abbiamo fatto di tutto per abbattere quel muro. Ma negli anni Settanta lui è stato arrestato con l’accusa di ‘propaganda sovversiva’. La Stasi l’ha portato via con la forza, ed è morto a Hohenschönhausen qualche anno dopo. Era un carcere durissimo della Germania Est, a detta di alcuni peggio di Auschwitz. La RDT ne ha sempre negato l’esistenza. Sulle carte non è segnalato. Però è lì che l’hanno portato, ed è lì che è morto. Ne sono certa.»

Restiamo tutti in silenzio, immobili. «Mi dispiace molto», dice Benjamin alla fine.

«Anche a me», replica lei con rassegnazione. E dopo qualche altro istante di silenzio, addolcisce il tono e riprende: «Ditemi qualcosa di più su Kristoff».

Le racconto quello che so, che è arrivato in California in cerca di Frederick e forse di lei, e invece ha trovato i miei nonni e si è innamorato di mia madre.

«Gideon Leser era tuo nonno?» Elena sorride per la prima volta. «Ha salvato la vita a mio padre.»

«Anche al mio», ribatto. Quanto vorrei che nonno Gid fosse ancora qui, che potesse assistere a questo momento. Non si prenderebbe mai il merito, nemmeno in parte, malgrado sia tutto suo. Avrei tanto voluto che la nonna fosse uscita dal caffè con noi e avesse ascoltato ogni cosa.

«Dopo la guerra, ho provato a scrivere a mio padre», continua Elena. «Ma non ho mai ricevuto risposta.» Le riferisco quanto ho saputo dalla nonna, e cioè che Frederick, Charlie, visse all’incirca un anno soltanto, dopo il suo arrivo a San Diego. «Be’», commenta lei. «Almeno non è morto come un cane assistendo alla distruzione del proprio Paese. Ringrazierò sempre il cielo per questo. Mia madre non è stata altrettanto fortunata, lei è morta a Mauthausen. Ho commesso un errore gravissimo a mandarle quel francobollo, e non me lo sono mai perdonato.»

«Non è stata colpa sua», le dico. C’erano migliaia e migliaia di nomi negli elenchi della Croce Rossa che ho letto su microfilm, tutti innocenti assassinati. «Sono morte tante di quelle persone nei campi di concentramento.»

Lei però scuote mestamente la testa, come se non mi credesse. «Ho provato anche a cercare Miriam, dopo la guerra, prima che costruissero il muro, ma non avevamo i soldi per andare nel Regno Unito e seguire le sue tracce, e dopo la proclamazione della RDT, dubito che qualcuna delle mie lettere abbia mai oltrepassato i confini del Paese.» Si volta a guardarmi. «Le avete proprio parlato? L’avete vista?» Accenno di sì con la testa e lei sorride ancora. È bellissima, quando sorride. Tutto il viso prende vita… gli anni di guerra e di sofferenza non le hanno rubato la bellezza.

«Ho il suo indirizzo nella borsa.» Lo tiro fuori e glielo porgo. L’ho già copiato sulla mia rubrica a casa; è dal viaggio nel Galles che me lo porto dietro, ormai non mi serve più.

Elena lo prende, mi ringrazia e si alza. «Meglio che rientri, adesso. Le altre cominceranno a preoccuparsi.» E fa per avviarsi verso il caffè. Come se niente fosse.

«Aspetti», la fermo io. «La sua lettera.» L’ha lasciata sulla panchina.

Lei scuote la testa. «Non sono più Elena Faber da moltissimi anni, ormai. Tuo padre preferirà tenerla per sé, probabilmente.»

«No», rispondo, mettendogliela davanti. «Vuole che ce l’abbia lei. E ci terrebbe tanto a rivederla», aggiungo. Mi preme molto mantenere la promessa che, se mai avessi rintracciato Elena, l’avrei portata da lui. «Abita in un centro di assistenza in California, a Los Angeles. Non sarebbe in condizioni di affrontare un viaggio fin qui. Ma potrebbe venire lei a trovarlo, no?»

«Oh», replica avvilita. «In un centro di assistenza? È malato?»

«Fisicamente sta bene. È la sua memoria a non… insomma, perdeva la cognizione della realtà, del tempo. Ha l’Alzheimer e non poteva più vivere da solo. Ma Willows, la struttura che lo ospita, è un posto bellissimo», la rassicuro.

Elena abbassa lo sguardo, poi prende la lettera e la mette nella borsa. «Mi ha perduta. Ci siamo perduti a vicenda tanto tempo fa. Forse è meglio non scomodare il passato.»

Ora che l’abbiamo trovata, non voglio lasciarla andare. Vorrei portarla con me in California, mostrarla a mio padre a Willows, come uno di quei premi che sarei stata felicissima di vincere al molo da bambina. Ecco la tua gemma, gli direi.

E invece la vedo prepararsi a rientrare nel caffè e capisco di non poter fare niente per fermarla. Cerco uno dei miei biglietti da visita nella borsa e glielo metto davanti. «Lo prenda. La prego almeno di tenersi in contatto.»

Seppure con un sorriso spento, Elena accetta il biglietto. «Hai l’aria di essere una brava ragazza, Katie. Tuo padre è stato molto fortunato ad averti. Fortunato a condurre una vita meravigliosa e libera con voi in America. Non ha nessun bisogno di me.»

«Sì… che ne ha», balbetto io. Vorrei tanto raccontarle che negli ultimi tempi non fa che ritrarla e rivivere il passato, ricordare l’amore che provava per lei.

«No», replica Elena prima che io possa aggiungere qualcosa. «Io non sono altro che un vecchio fantasma. Mentre lui ha te.»