UNA mattina di fine gennaio vengo svegliata alle sette dal telefono che squilla. Benjamin, penso subito. Invece apro gli occhi e lo trovo addormentato accanto a me. Per un attimo sorrido e poi mi angoscio all’idea che sia capitato qualcosa alla nonna o a mio padre, così balzo giù dal letto e corro in cucina a rispondere.
«Signorina Lawrence», dice la voce di donna all’altro capo. «Sono Gretchen, la chiamo da Willows.»
«Mio padre sta bene?» chiedo allarmata. Sally si è sposata, si è trasferita e ha lasciato il lavoro alla fine del mese scorso, perciò non la conosco ancora, questa Gretchen, né so se mi chiamerebbe subito vedendo mio padre agitato.
«Sì, sì, suo padre sta bene. Mi scusi, non volevo spaventarla.» Guardo l’orologio pensando di aver visto male l’ora su quello della camera, ma no, sono proprio le sette del mattino. «È solo che… qui c’è una persona che pretende di vedere suo padre. Non è nella lista degli autorizzati e, come sa, l’orario di visita non comincia prima delle otto. Si è molto arrabbiata con me e ha iniziato a sbraitare in un’altra lingua. Io volevo chiamare la polizia, ma la signora mi ha detto che avrei fatto meglio a telefonare a lei…» Gretchen lascia la frase in sospeso nel dubbio di aver commesso un errore a non chiamare la polizia, invece.
E io resto per un attimo a bocca aperta, incapace di spiccicare parola. Elena?
«Insomma, devo chiamare la polizia o no?» mi domanda Gretchen.
«No, no, non la chiami. Sarò lì il prima possibile.»
Quindici minuti dopo, io e Benjamin varchiamo trafelati l’ingresso del centro. Benjamin ci è già stato con me una volta il mese scorso, quando a Willows hanno deciso di accendere una menorah la prima sera dell’Hannukah e l’ho invitato a conoscere mio padre. Insieme hanno parlato di francobolli e papà si è illuminato tutto, anche se non credo abbia capito che io e Benjamin stiamo insieme, e dubito che oggi si ricorderà di lui. Però sono felice che ora sia qui con me.
Mentre entriamo, mi viene il sospetto di aver travisato le parole di Gretchen. «Magari non è lei», dico a Benjamin.
«Quale altra donna sbraiterebbe in tedesco pretendendo di vedere tuo padre?» replica lui.
«Gretchen non ha mai detto che l’ha fatto in tedesco. Ha detto solo in un’altra lingua. Sono io che l’ho supposto.»
«È lei», conferma Benjamin, e naturalmente, calmo e razionale com’è, ha ragione lui. Appena svoltiamo l’angolo dell’area accoglienza, la vedo seduta in sala d’aspetto. Indossa un lungo abito floreale dai colori troppo sgargianti e i capelli grigi e ondulati le incorniciano il viso. Stringe l’enorme borsone nero che ha sulle ginocchia come se Gretchen o un’altra delle infermiere volessero rubarglielo.
Appena mi vede comparire e salutarla con la mano, si rivolge accigliata a Gretchen: «Visto? Sono eccome nel posto giusto».
Mi rendo conto di aver già conosciuto Gretchen quando sono stata qui la settimana scorsa, è solo che non sapevo il suo nome. È una ragazza minuta che sembra troppo giovane per aver già preso il diploma di infermiera. Non le avrei dato più di sedici anni e ora mi sembra terrorizzata da Elena.
«Non si preoccupi», le dico. «La signora Faber – pardon, March – in effetti conosce mio padre. Non ero al corrente del suo arrivo, altrimenti l’avrei aggiunta alla lista.»
«Io gliel’avevo detto», sbraita Elena rivolta a Gretchen.
«Ci sono delle regole, signora», ribatte lei. «E io devo attenermi a quelle.»
«Regole», brontola Elena. Lei non le segue, le regole.
«E poi mancano ancora trenta minuti all’inizio dell’orario di visita», ribadisce Gretchen, e batte il dito sul quadrante del proprio orologio fissando apertamente me.
«Venga», dico a Elena sfiorandole il braccio. «Possiamo berci un caffè al bar di fronte e alle otto in punto torniamo qui.» Mi guarda scettica e stento ancora a credere di averla davanti. «Promesso», aggiungo.
Da Pete’s ci sediamo nell’area fumatori per far piacere a lei. Appena ci accomodiamo, infatti, si accende subito una sigaretta e soffia fuori il fumo.
«Non mi sarei mai aspettata di vederla qui», le dico. «Avrebbe dovuto telefonare. Avvisarmi del suo arrivo.»
«Sì. Be’, non volevo farne un affare di Stato.» Dà un altro rapido tiro alla sigaretta e poi la spegne. «Sto smettendo di fumare. In realtà ho già smesso.»
«Sì, lo vedo», commenta Benjamin, e lei lo guarda storto.
«La segue dappertutto come un cagnolino?» gli domanda Elena, guardando prima lui, poi me e poi di nuovo lui, come se intendesse sgridarlo.
«No», replica lui arrossendo leggermente. Invece è proprio quello che sta succedendo ultimamente.
«Dovrebbe farlo, allora», sentenzia lei. «Siete proprio una bella coppia, voi due.» Sfrega le dita tra loro. Evidentemente ha voglia di un’altra sigaretta, però non la prende. Ha smesso. «Il mese scorso ho visto mia sorella», dice poi rivolta ancora a me.
«È stata a Cardiff?» Ripenso alla nebbia che laggiù ha accompagnato i miei passi, quelli che considero i primi passi che ho compiuto per uscire dal tunnel della mia vita di un tempo.
«Sì», risponde Elena. «Sono stata a Cardiff. Miri vi manda i suoi saluti.»
«Come sta?» chiedo titubante.
«Il femore sta guarendo, è tornata a casa con il marito.»
«Ah, bene.» Mi fa piacere che Miriam abbia lasciato la deprimente casa di cura in cui era ricoverata.
«È stato meraviglioso ritrovarla e sapere che sta bene, è felice ed è salva. Dopo tutto questo tempo. E solo grazie a voi.» Elena guarda prima me e poi di nuovo Benjamin. «L’avete trovata. E avete trovato me.» Si schiarisce la voce, sforzandosi di non piangere. Batte le palpebre e per un attimo distoglie lo sguardo. Però riacquista subito la compostezza e, rivolgendosi di nuovo a me, prosegue il discorso. «Miri mi ha chiesto di te, della lettera che mi hai dato. Voleva sapere che cosa c’era scritto. In verità non l’avevo ancora aperta, però. E neppure avevo intenzione di farlo. Ma lei ha insistito. Mi ha detto che ero pazza a non leggerla. A non venire qui, ora che potevo.»
«E alla fine l’ha letta?» domanda Benjamin.
Lei annuisce e la estrae dalla borsa. Poi tira fuori un paio di occhiali da lettura, li inforca e, aperta la busta, dispiega il foglio che contiene.