«Sai Alessandro, ora che inizio a conoscerti un po’ meglio mi chiedo se sia o meno il caso di invidiarti un po’.»
«Uà Lucià, tu invidiare me?»
«Sì, perché tu la vita che volevi l’hai vissuta sin da subito, io invece faccio parte di una particolare congrega, quella della rinascita.»
«A essere onesto, io di ’sta comitiva non ne ho mai sentito parlare.»
«Ebbene, come tutti sanno, io non nasco scrittore, ma ingegnere. Per tanti anni ho svolto un lavoro “serio”, professionale, impegnativo, mettendo a tacere o fingendo di non ascoltare quel ronzio continuo e insistente che mi suggeriva di scrivere. Mi sembra ancora di sentire mia sorella quando mi hanno assunto all’IBM: “Che bellezza, un posto sicuro; Gesù e come sei fortunato” e via dicendo.»
«E poi cosa è successo?»
«È successo che per circa vent’anni il giovanotto brillante e fortunato ha fatto quelle cose che la sua promettente carriera gli imponeva, ma sempre con quel ronzio dentro “Scrivi, scrivi, fai nascere persone, situazioni, storie…”. Ero appassionato di filosofia e mi sembrava che Democrito, Empedocle, Pitagora mi apparissero dentro al computer e mi dicessero, chiamandomi con il gesto della mano: “Facce ascì…” in napoletano, perché i miei presocratici erano un po’ napoletani anche loro.»
«Insomma, era un po’ come se la tua “natura” si scontrasse con la dura realtà del quotidiano.»
«Esattamente. Proprio così.»
«E cosa ti ha spinto a cambiare vita?»
«Un giorno ebbi l’influenza, stetti a casa una settimana, ritornai al lavoro e chiesi alla segretaria: “Chi mi ha cercato?”. E vuoi sapere quale fu la risposta?»
«Quale?»
«La segretaria mi rispose: NESSUNO. Ecco, fu in quel momento che decisi di dare le dimissioni.»
«E cosa disse tua sorella?»
«“Gesù, è uscito pazzo!” Disse proprio così».
«Sei stato molto coraggioso.»
«Non so se lo si può definire proprio coraggio. Di sicuro in quel momento cominciò una vita modestissima. Ero attento a ogni piccola spesa. Certi giorni avevo voglia di andare all’anagrafe e dire: per piacere, cancellate la mia data precedente e scrivete “Luciano De Crescenzo è nato oggi”. Poi è arrivato il successo prima del libro e poi del film Così parlò Bellavista, e la mia vita è cambiata del tutto.»
«Un po’ com’è capitato a me con Benvenuti al Sud. Sai, devo confessarti una cosa… Quando ho finito di girarlo, ho realizzato che, nonostante fossero passati diversi anni, alcuni dei meccanismi che mi hanno spinto a raccontare la storia di un milanese al Sud erano ancora gli stessi di Così parlò Bellavista. Il mio film è uscito nelle sale nel 2010, non è passato neanche un decennio, eppure oggi non sarebbe più attuale scrivere un film su Nord e Sud, e sai perché?»
«Perché?»
«Perché la differenza tra Nord e Sud oggi non è più così significativa, in quanto nel popolo italiano si annida un’idea di diverso, scaturita dalla diffidenza verso gli immigrati. Insomma, è come se queste nuove popolazioni fossero il nuovo Meridione. Che poi, se ci pensi bene, geograficamente sono effettivamente più a sud di noi.»
«Hai ragione, Alessandro, e ti dirò di più. La diffidenza, spesso, è alimentata dalla poca conoscenza. Da secoli guardiamo all’immigrazione come a qualcosa di negativo, ma non sempre è così. Pensa all’Atene del V secolo a.C.: personaggi come Anassagora, Parmenide o Eschilo, erano studiosi immigrati o di passaggio, e tutti, in un modo o nell’altro, hanno influenzato il corso della storia. Forse è per questo che Bertrand Russell ha affermato che in quell’età era possibile, come in poche altre, essere insieme intelligenti e felici. A questo punto mi chiedo e ti chiedo, perché condannare a priori le differenze, quando invece possiamo considerarle uno strumento per essere non solo più intelligenti, ma soprattutto felici?»
«Sai, Luciano, io sono un fervido sostenitore delle differenze, anzi, ho cercato di farne un elemento caratterizzante dei miei lavori. Che fossero quelle tra Nord e Sud, tra ricchi e poveri, tra sacro e profano, o tra felici o infelici, il mio intento era utilizzare la differenza per dare voce a un altro concetto fondamentale: la tolleranza. Credo, infatti, che la tolleranza sia l’elemento senza il quale non è possibile raggiungere il lieto fine.»
«Invece, sai anche cos’è importante secondo me?»
«Cosa?»
«L’empatia.»
«In che senso?»
«Ebbene, premetto che da sempre sono convinto che le persone prive di empatia siano anche poco intelligenti, perché solo chi è empatico, e in quanto tale ha la capacità di immedesimarsi nello stato d’animo altrui, è in grado di comprendere oltre ai bisogni degli altri anche il perché di certe azioni. Detto questo, spesso alcune persone guardano agli immigrati senza empatia, senza chiedersi cosa abbia spinto intere famiglie ad abbandonare la propria terra, casa e amici, affrontando un viaggio in condizioni terribili, con la speranza di arrivare vivi in un luogo in cui l’unica cosa che li aspetta è l’ignoto. Ci sono poi altri che guardano agli immigrati con tolleranza, che da un lato può sembrare una cosa buona, ma se ci rifletti bene è un’arma a doppio taglio, perché quando affermiamo di tollerare qualcuno, non facciamo altro che sottintendere che quel qualcuno abbia fatto qualcosa che potenzialmente può recarci un fastidio, ma sulla quale decidiamo di soprassedere. Ecco, la tolleranza più che l’empatia è il sentimento che per tanti anni ha alimentato il punto di vista del Nord verso il Sud.»
«In effetti è vero, Luciano. Ancora oggi si parla spesso della differenza tra Nord e Sud, di prima e dopo, di nostalgia e di futuro, eppure c’è un aspetto che rende unico il popolo napoletano e che non è cambiato nel corso del tempo. Anzi, più che un aspetto si tratta di un sentimento, qualcosa che va oltre gli umani limiti dello spazio e del tempo.»
«A cosa ti riferisci?»
«Mi riferisco alla smania o, per dirla con le parole dell’autore di Munasterio ’e Santa Chiara, Michele Galdieri, alla smania ’e turnà, quel particolare sentimento che accomuna tutti coloro i quali sono nati a Napoli, ma che per un motivo o per un altro sono stati costretti a lasciarla. Ecco, spesso mi chiedo se anche gli immigrati che arrivano sulle coste del nostro paese sono colti da questa smania, e se sì, come la definiscono. Io la nostra la definirei napolitudine.»
«Napolitudine… questo concetto non mi è nuovo, mi piace!»
«Anche a me! Se ci pensi bene, è come una parola spezzata, spaccata tra “Napoli” e “latitudine”, che viene tenuta insieme da un collante, la malinconia.»
«Che può essere la malinconia di ciò che non abbiamo, che desideriamo più di ogni altra cosa al mondo ma che siamo impossibilitati a raggiungere. I portoghesi la definiscono saudade, e chissà, probabilmente anche altri popoli avranno una parola che possa descrivere questo sentimento. L’argomento è difficile, perché è uno di quei vocaboli fraintesi continuamente, per alcuni la napoletanità è qualcosa di riprovevole, da distruggere, per altri è proprio il pregio di essere napoletani. Anni fa ho cercato di andare incontro agli uni e agli altri facendo una distinzione tra napolitudine e napoletanità, intendendo con la prima le tristi condizioni in cui versano i napoletani, con la seconda, invece, una categoria dello spirito umano, un modo di pensare che non è patrimonio esclusivo dei napoletani. Insomma, può avere napoletanità anche uno nato a Stoccolma, purché abbia una certa visione ironica della vita. Oggi la mia idea di napolitudine è un po’ cambiata. Anzi, ora che mi ci hai fatto pensare, sai cosa ti dico Alessandro?»
«Cosa?»
«In tanti hanno dato a questa parola un personale significato, ma per me napolitudine è un tipo di nostalgia inspiegabile, perché a me Napoli manca sempre, persino quando sono lì. Negli ultimi tempi non capita più così spesso, ma fino a qualche anno fa, pur vivendo a Roma, andavo a Napoli almeno due volte al mese. Anzi, ero solito dire che abitavo in un quartiere periferico di Napoli che si chiama Roma, in quanto la mia città la porto sempre con me. Eppure, non so come spiegarlo, ma io la napolitudine la sento sempre, anche mentre passeggio tra le bancarelle di San Gregorio Armeno e sfioro i pastori creati dai maestri artigiani. Mi si arrampica sulle papille gustative, stuzzicate dal profumo delle sfogliatelle appena sfornate. Mi accompagna come l’ammuina dei vicoli, che ritrovo immutata nel tempo, o come il profilo del Vesuvio, un paesaggio unico al mondo. Insomma, questa nostalgia avvolge tutti i miei sensi e mi agguanta lo stomaco come una mano fatta di tufo, la materia vulcanica nata dalla concentrazione di lava, pomici, cenere e lapilli, su cui è costruita l’intera città.»
«Sì, Luciano, l’essere napoletani non deriva soltanto dall’essere nati a Napoli, è uno stato emotivo viscerale, una forza che ci spinge ad andare avanti nonostante le difficoltà.»
«E tu quali difficoltà hai dovuto affrontare all’inizio della tua carriera?»
«Ricordo una delle mie prime serate di cabaret in un pub. Dopo lo spettacolo, decisi di fermarmi a mangiare un panino. Mi arrivò un conto salatissimo.
«“Ma come? 30 euro un panino?!” protestai.
«“Eh, ma quello stasera c’era lo spettacolo…”
«“Lo so, l’ho fatto io!”
«Si intromise un signore che stava seduto al tavolo vicino.
«“Se permettete… offro io!”
«“Vi è piaciuto lo spettacolo? Siete il proprietario?” dissi io.
«“Sì, del locale a fianco! Appena avete iniziato a fare cabaret si sono spostati tutti quanti da me!”
«“Ma io ho visto parecchia gente vicino al bar” tentai di controbattere.
«“Si prendevano il caffè per non prendere sonno!”
«Forse non mi crederai, ma nonostante ci sia rimasto male, ora non posso fare a meno di pensare che erano bei tempi e che anche quelle battute sarcastiche hanno contribuito alla mia carriera. Per non parlare quando dalle serate nei locali passai al teatro, quello vero.
«Tutti all’inizio mi dicevano: “Mi raccomando, ora che vai a teatro, porta la voce! Porta la voce!”.
«Il produttore, invece, mi chiamò e disse: “Guarda, sient’ a me, non portare la voce, porta la gente!”.»
«Un produttore pragmatico il tuo! Io, all’inizio della carriera di scrittore, avevo un incubo ricorrente. Sognavo di lavorare ancora per la IBM e di non essere mai riuscito a diventare scrittore, né tantomeno regista o intrattenitore televisivo. Pensa che a volte il sogno sembrava così reale che, quando alla fine riprendevo conoscenza, sentivo il bisogno di toccare uno dei miei libri per rendermi conto di essere davvero uno scrittore. Tutto questo per dirti che all’inizio di ogni carriera è facile soffrire di crisi d’identità, ma poi, man mano che la notorietà aumenta, cresce anche l’affetto delle persone che incrociano il nostro cammino.»
«Sì, hai ragione. Ricordo un aneddoto di quando ho girato Si accettano miracoli. Una scena era ambientata sulla Costiera amalfitana. Ovviamente, per farla dovevo bloccare tutta la Costiera, e non è stato affatto semplice. La gente non era molto felice, anzi! Comunque era la scena finale e si creò il panico: il direttore di produzione, arrabbiatissimo, se ne andò e mi lasciò da solo e c’era una fila lunghissima di macchine con automobilisti nervosissimi che partiva dalla Costiera e finiva… forse non finiva. Comunque, a un certo punto, mi avvicinai alle macchine per cercare di calmare i conducenti e uno urlando mi chiese:
«“Ma che state facendo qua? Che state facendo?”
«“Stiamo girando un film!” risposi io. Poi, il conducente, osservando meglio, mi riconobbe: “Uè, ma tu sei Alessandro Siani?”.
«“Sì sono io.”
«“E ci sta una parte per me?”
«Meraviglioso. Era bastata la mia notorietà per placare l’animo di quell’automobilista.»
«Lo sai, una cosa simile è capitata anche a me. Un giorno, in un vicolo, vedo una vecchia seduta sulla porta di un vascio: bellissima, con i capelli argentati che luccicavano al sole. Cerco di riprenderla senza che se ne accorga e perda quindi la sua naturalezza, quando uno scugnizzo si frappone tra lei e il mio obiettivo. Cerco di mandarlo via con cenni furtivi, e lui niente. Finché la vecchietta lo chiama: “’Uaglió, te ne vuoi andare sì o no? Non vedi che sto facendo la vecchia?”. Ecco, nella sua frase c’era l’ottimismo senza limite di noi napoletani: non ammetteva di essere vecchia, ma soltanto di fare la vecchia, e solo per far piacere a me.»
«Esattamente, Luciano, sono proprio episodi come questo ad avermi formato e reso più ricco, umanamente intendo, e ad avermi aiutato a portare dentro quel sentimento che mi accomuna alla gente della mia città e che ci rende unici e inimitabili. Pensa che ancora oggi, quando mi trovo a raccontare un film e sono lontano da Napoli, tra l’adrenalina di un nuovo progetto, la paura del set, le risate con la mia troupe, la stanchezza che di tanto in tanto offusca la lucidità, per non parlare poi delle lacrime dell’ultimo ciak… Ecco, proprio lì, tra le corde delle mie emozioni, in un angolo della mia anima, vibra sempre forte la napolitudine.»