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Come Sophie aveva previsto, la taverna era assolutamente silenziosa. Tutti i suoi compagni di viaggio dovevano essere da tempo scivolati fra le braccia di Morfeo.
In punta di piedi scese le scale, illuminate soltanto da una candela in una nicchia nel muro, e arrivò al piano di sotto. Andò verso la sala da pranzo, ma trovò la porta chiusa.
Non voleva svegliare i padroni, che dormivano in una stanza lì vicino, così spinse piano piano la maniglia ed entrò.
Il pavimento di legno scricchiolò sotto i suoi piedi, ma alla tenue luce delle ultime braci che bruciavano nel caminetto vide la sua borsetta esattamente dove si ricordava di averla lasciata, sul davanzale della finestra.
Con una rapida corsa andò a prenderla.
«Bene, bene, chi c’è qui? Una bella signorina che è venuta a farmi compagnia! Molto gentile da parte vostra!»
Sophie si girò di colpo sentendo l’inaspettata voce maschile, e si trovò davanti un uomo che sembrava avere l’intenzione di toglierle lo scialle di dosso. Arretrò spaventata, stringendosi l’indumento sulle spalle, tuttavia lui non voleva desistere.
«Non così in fretta, mia cara!» esclamò, e con un rapido gesto riuscì a lasciarla vestita soltanto della sottile sottoveste di mussolina.
«Siete venuta per allietare la mia solitudine, non è vero? E allora non fingete inutilmente di essere riluttante. Non perdiamo altro tempo.» La prese fra le braccia e tentò di baciarla.
Sophie cercò di difendersi, ma lo spavento e l’indignazione vennero presto sostituite da altre sensazioni sorprendenti. Le venne la tentazione di abbandonarsi al bacio del suo assalitore, mentre emozioni confuse avevano quasi il sopravvento su di lei. Solo quando sentì che le sue mani scendevano dai fianchi alle natiche, reagì di soprassalto e riuscì a liberarsi da quella stretta.
Ancora ansimante cercò di allontanarsi, ma lui fu molto rapido ad afferrarle un polso. «Lasciatemi andare! Vi prego, lasciatemi andare!» lo supplicò.
Il volto dell’uomo cambiò espressione al suono della sua voce. Non era una cameriera, come aveva creduto. Era una fanciulla colta, di buona famiglia. Le lasciò andare la mano e ritornò in fretta alla sedia da cui si era alzato.
«C’è stato un errore» la informò sedendosi di nuovo accanto al caminetto. «Sembra che vi abbia scambiato per...»
Sophie non intendeva restare a sentire le sue scuse, qualunque spiegazione potesse darle per essersi comportato in quel modo abominevole. Raccolse in fretta lo scialle finito sul pavimento e si diresse verso la porta. Salì le scale per tornare in camera sua come se fosse inseguita da mille diavoli.
Marcus Wolfe, Visconte Helstone, con un gemito di disapprovazione vide sparire la giovane donna dalle belle caviglie da cui aveva sperato di ricevere un po’ di conforto.
Era stata una follia partire da Bradfield Hall quella notte, con quel maltempo, e ne stava pagando le conseguenze. Era vero che soltanto un’altra ora in compagnia di suo padre lo avrebbe spinto a dire e a fare cose che poi avrebbe rimpianto, ma aveva bevuto così tanto che solo all’ultimo momento si era accorto di avere scambiato una donna onesta per una cameriera desiderosa di guadagnarsi qualche scellino facendogli compagnia.
Doveva essere uno dei passeggeri della diligenza che pernottavano nella taverna a causa della bufera.
Non che fosse preoccupato delle eventuali conseguenze della sua azione. Passate esperienze gli avevano insegnato che bastava una certa quantità di banconote per fare chiudere un occhio anche ai mariti e ai padri più devoti, considerò con una scrollata di spalle.
E poi la vita era troppo breve per permettere che simili inezie la rovinassero. Non per niente tutti lo soprannominavano Helstone, il dissoluto.
Dopo avere ingoiato quello che restava della bottiglia di pessimo brandy che gli aveva fornito il padrone della taverna, probabilmente per scusarsi di non avergli potuto offrire una sistemazione migliore, Marcus sospirò scontento.
Per lui la vita non era troppo breve, a volte, anzi, gli sembrava troppo lunga visto quello che doveva subire da parte di suo padre. Lo aveva definito un buono a nulla, uno scapestrato, un fannullone dalle mani bucate. Preferiva di certo Giles, il figlio più piccolo. Giles, il coraggioso, l’eroe, quello che non aveva mai fatto niente di sbagliato in vita sua.
Santo cielo, si disse! Era così ubriaco da prendersela perfino con il fratello, che amava e rispettava con tutto il cuore?
Guardò le braci che si stavano spegnendo nel caminetto, sentendo profondo disprezzo per se stesso. Sembrava che il troppo bere, il troppo giocare d’azzardo e il correre dietro alle donne stessero per avere la meglio su di lui.
Giles, che per sei anni e più aveva combattuto in due continenti per il re e per la patria, senza mai rimanere ferito e guadagnandosi una medaglia dopo l’altra, era degno di tutta la considerazione possibile.
Nei suoi confronti lui provava davvero ammirazione, ma anche invidia, visto che gli era stato consentito di intraprendere la carriera militare che a lui invece era stata proibita, in quanto erede del casato.
Troppi giovani aristocratici erano morti sui campi di battaglia nel tentativo di liberare il mondo dalla tirannia di Napoleone. Dunque il Conte di Bradfield, temendo di perdere entrambi i figli, aveva costretto il maggiore a rinunciare al suo sogno.
Sembrava che Marcus, dopo quella decisione, avesse voluto dimostrare a suo padre che c’erano molti modi in cui un giovane poteva sacrificare la propria vita. Se non sui campi di battaglia, nei vizi e nella dissolutezza peggiore che uomo potesse conoscere.
In contrasto con il volere paterno, aveva infatti giocato a lungo a dadi con la morte negli ultimi anni, affrontando duelli all’alba in cui sarebbe potuto rimanere ucciso, oppure gravemente ferito. La sua abilità con le armi gli aveva sempre permesso di sopravvivere, senza mai uccidere nessuno. Gli era bastata una ferita alla spalla o al braccio per mettere fine vittoriosamente allo scontro.
Come sapeva padroneggiare la spada e la pistola, così aveva imparato anche a dominare l’alcool. Sapeva sempre fermarsi al momento giusto per non essere tanto ubriaco da perdere al tavolo da gioco, o per avere ancora sufficienti energie per altre attività più piacevoli.
Infatti aveva ben due amanti fisse, in due diversi appartamenti a Londra, ma non per questo si negava la compagnia fuggevole di altre donne disponibili ad allietare le sue notti. Sembrava che le nobildonne avessero un debole per lui, e che l’altezza del loro rango fosse inversamente proporzionale alla fedeltà nei confronti dei mariti. Quello era uno dei motivi che lo costringevano spesso a duellare.
Se non fosse stato molto abile anche con le carte, sarebbe stato già in miseria. Non poteva perdere la fortuna che aveva ereditato dalla nonna materna, perché in quel caso sarebbe stato costretto a dipendere finanziariamente dal padre. Una situazione che desiderava evitare a tutti i costi.
In fondo suo padre aveva avuto ragione a definirlo un buono a nulla, un fannullone dalle mani bucate, considerò. E pensare che proprio quell’insulto lo aveva spinto a lasciare la dimora quella notte, in preda a un attacco di furia.
Era così arrivato, in mezzo al gelo e alla neve, in quella infima taverna sulla strada per Reading, solo per scoprire che non c’era più una camera libera. A sua disposizione soltanto una sedia accanto al fuoco e una bottiglia di pessimo brandy per passare la nottata. Si era tolto le scarpe e aveva cercato almeno di scaldarsi davanti al caminetto. Il mattino seguente, aveva pensato, probabilmente la neve si sarebbe sciolta e lui sarebbe potuto tornare nella sua dimora di Grosvenor Square per l’ora di pranzo.
Quando aveva visto arrivare la giovane donna dalle belle caviglie, aveva ritenuto che il padrone stesse cercando di scusarsi per non avergli dato un letto, come quando gli aveva portato la bottiglia di brandy. C’era sempre qualche ragazza disponibile, in quelle taverne, pronte ad accontentare i clienti. Peccato che non lo fosse stata, perché era proprio il tipo che gli piaceva. Bei fianchi rotondi, labbra morbide e profumate.
Si alzò, prese due pezzi di legno e li aggiunse al fuoco perché non si spegnesse. Poi trovò un cuscino e se lo sistemò dietro la testa, appoggiò i piedi alla grata del caminetto e cercò di dormire un po’. Era meglio che si svegliasse presto, la mattina dopo, e se ne andasse in fretta per non correre il rischio di doversela vedere con il padre o il marito di colei che aveva baciato.
Alla fine, il visconte dovette cambiare i suoi piani. Il mattino dopo, alle sei, tirò le tende alla finestra per vedere com’era il tempo e, con sua grande delusione, la neve non era affatto sparita. Anzi, era aumentata durante la notte, aveva coperto ogni cosa tutto intorno con un mantello bianco e spesso, a perdita d’occhio.
Il vento gelido sembrava essersi fermato, tutto era immobile e splendido nel suo candore. Il paesaggio lo lasciò senza fiato, in ammirazione della bellezza della natura. Poi si rese conto che sarebbe stato impossibile tornare a Londra, come aveva sperato. La neve sembrava così alta che ci sarebbero voluti tre o quattro uomini che lavorassero per l’intera mattinata per spalare il sentiero che portava alla strada maestra. E la strada maestra, certamente, non era in condizioni migliori.
Da quando era sveglio non aveva sentito passare nessuna carrozza, segno che era impossibile viaggiare.
Soffocò uno sbadiglio e si passò una mano sulla barba che gli stava spuntando. Quanto tempo ci sarebbe voluto perché gli portassero dell’acqua calda per radersi e lavarsi? Dalla cucina veniva già un delizioso aroma di caffè e si sentivano dei passi nel corridoio.
Per prima cosa doveva infilarsi gli stivali, e non era una impresa da poco, senza nemmeno l’aiuto di un valletto e di un calzastivali.
Stava cercando di sistemarsi la cravatta, dopo essere riuscito nell’impresa, quando si accorse di qualcosa a terra, vicino a una gamba del grande tavolo.
Si chinò a raccoglierla, incuriosito. Era una borsetta da donna, e con un sorriso si rese conto della ragione per cui l’ignota viaggiatrice della notte prima era scesa al piano di sotto.
Se si era avventurata a cercarla, doveva contenere qualcosa di grande valore, pensò.
Rovesciò il contenuto nella mano, e ci rimase male quando vide che conteneva pochissimo denaro, meno di cinque scellini in tutto, di sicuro niente che potesse spingere qualcuno a lasciare il letto nel bel mezzo della notte.
Rimise il denaro nella borsetta, la richiuse tirando i lacci, poi se la infilò in tasca.
Uscì nel corridoio, che trovò deserto. Si avventurò in direzione di quella che credeva la cucina, per cercare una tazza di caffè caldo di cui sentiva un grande bisogno.
Spalancò la porta e notò che all’interno c’era soltanto una cameriera con la cuffietta di pizzo e un grembiule bianco, che stava mescolando qualche cosa dentro un pentolino sul fuoco.
«Una tazza di caffè, se non vi dispiace» le ordinò. «E poi uova, prosciutto e funghi» aggiunse accomodandosi al grande tavolo di abete che troneggiava al centro della stanza.
Sophie trasalì spaventata, e si voltò di scatto a guardare il suo aggressore della notte precedente. Era lui, non avrebbe mai dimenticato la sua voce, anche se non aveva potuto vederlo bene in faccia. Adesso le sembrò un bell’uomo, nonostante fosse un po’ trasandato. Ci volle qualche istante prima che riuscisse a ritrovare la calma necessaria per rispondergli.
Aveva trascorso la maggior parte della notte cercando di razionalizzare quello che le era successo, quando era scesa a riprendere la borsetta. L’uomo che l’aveva assalita puzzava di alcool, perciò aveva sperato che non si ricordasse nemmeno di lei il mattino seguente, dopo che la sbronza gli fosse passata.
Non che fosse successo qualcosa di particolarmente grave. Si era limitato a un contatto fugace, di cui si era prontamente scusato. Niente di così tremendo che non potesse essere dimenticato, soprattutto paragonato ai ripetuti tentativi di baciarla da parte di Arthur Crayford, tutte le volte che la sua matrigna non era presente, e che di certo erano stati molto più ripugnanti e sgradevoli.
«Dormite ancora, ragazza mia? Vi ho detto di darmi una tazza di caffè. Muovetevi!» si spazientì il giovane.
Non l’aveva riconosciuta, proprio come aveva sperato. Non c’era da meravigliarsi, con i suoi riccioli castani legati in uno chignon e quella brutta cuffietta in testa. Aveva preso l’abitudine di mettersela per tenere lontano il giovane Crayford, purtroppo senza molto successo.
«Non c’è più caffè, mi dispiace» gli rispose. «Mr. Webster l’ha finito. È scivolato sul ghiaccio mentre andava a prendere la legna per il fuoco e si è fatto male alla schiena. Adesso è a letto. Il fuoco si sta spegnendo; se andate voi a prendere la legna vi preparerò il caffè che mi avete chiesto.»
Marcus si scandalizzò. Nessuna cameriera aveva mai osato parlargli in quel modo. Si alzò e si piantò davanti a lei, per esprimerle tutto il proprio disappunto. «Chi vi credete di essere?»
«E voi chi vi credete di essere?» replicò Sophie, che non intendeva sopportare le sue cattive maniere.
Allora Marcus la guardò più da vicino. «Come vi permettete di parlarmi in questo tono? Siete la cameriera? Dunque è vostro dovere servire i clienti di questa taverna.»
«Non sono la cameriera. Per dire la verità, anch’io sono una cliente di questa taverna, proprio come voi.»
Finalmente lui si rese conto di chi avesse davanti. «Buon Dio! Siete voi, maledizione! Vero che siete voi?»
«Se vi state riferendo alla donna che ieri notte vi ha inavvertitamente disturbato mentre eravate nella sala da pranzo, è a lei che state parlando.»
Marcus sembrò esasperato. «Allora fate apposta a dare l’impressione di essere una cameriera... per ingannare la gente?»
«Siete stato voi a crederlo, nessuno vi ha ingannato» gli fece sapere voltandosi a mescolare di nuovo il porridge che cuoceva sul fuoco. «Tutto quello che sto facendo è dare una mano ai padroni, che sono soli e anziani, e che si sono ritrovati la taverna piena di clienti che non sono in grado di servire. A parte il cocchiere e il suo uomo, che si sono dati da fare a spazzare la neve nel cortile, gli altri non sono capaci di dare una mano.»
«Ah, adesso capisco!» esclamò Marcus. «È per questo che vi siete infilata il grembiule e vi siete messa in testa questa mostruosità.»
«Che cosa?» fu la replica indignata. «Questa mostruosità, come la chiamate voi, è una cuffia che trovo assolutamente indicata alla mia posizione.»
«E quale sarebbe la vostra posizione?» le chiese dando un’occhiata alle sue mani, dove non c’era alcuna traccia di anelli. «Non siete vedova, e mi sembra che vi manchino ancora alcuni anni prima di poter essere definita una zitella.»
«Badate alle vostre parole!» lo mise in guardia Sophie, ormai seccata da quell’insopportabile insolenza. «Non vi riguarda affatto chi io sia e quale sia la mia posizione!»
Effettivamente sarebbe stato considerato poco corretto rivolgere tali domande a una giovane donna, in normali circostanze. Marcus, però, si disse che, nella situazione straordinaria in cui si trovavano, le convenienze sociali potevano essere trascurate.
«Avanti, non fate così!» protestò con un sorriso che avrebbe aperto il cuore di qualunque donna di sua conoscenza. «Chissà per quanto tempo dovremo restare qui. Non sarebbe meglio comportarsi da persone civili e presentarci a vicenda?» E, per dare il buon esempio, le fece un impeccabile inchino. «Mi chiamo Marcus Wolfe, al vostro servizio» si presentò.
Un sorriso davvero devastante, considerò Sophie. In ogni caso era cresciuta nell’esercito e la sua educazione poco convenzionale le aveva insegnato a riconoscere fin dalla più giovane età un pericoloso dongiovanni e i suoi modi falsamente cortesi.
«Miss Sophie Flint, istitutrice» gli rispose con un’altrettanto formale riverenza. «Se vi piace.»
Lui rise mostrando i bei denti bianchi. «Mi piacete, e molto. È un onore conoscervi, Miss Flint. Se mi permettete, vorrei cogliere l’occasione per scusarmi. Ieri notte eravate di certo scesa per riprendervi questa» le disse prendendo dalla tasca della giacca la sua borsetta e mostrandogliela. «È vostra, vero?»
Lei era lievemente arrossita quando lui aveva accennato agli avvenimenti della notte precedente, tuttavia quando rivide la borsetta il rossore sparì e gli occhi azzurri come un cielo estivo si illuminarono. Sorrise con una tale dolcezza che il visconte, per qualche attimo, perse il dono della parola.
«Oh, grazie, Mr. Wolfe!» esclamò avvicinandosi. «Cominciavo a temere che non l’avrei più rivista.»
Marcus aveva preferito non presentarsi con il suo titolo, e non corresse Sophie. In fondo nessuno lì sapeva chi fosse in realtà, non aveva perso tempo a presentarsi a Mr. Webster, troppo dispiaciuto di non potergli offrire una camera per la notte.
Lanciò un’occhiata verso il fuoco che si stava spegnendo.
«Ho tanto bisogno di quella tazza di caffè che mi avete promesso che andrò subito a procurarmi della legna» dichiarò.
Sbadigliò e si stiracchiò, come se l’idea non gli sembrasse affatto allettante. A dire la verità sembrava stanco ancora prima di andarci, pensò Sophie.
«Come vi ho accennato, il cortile è stato spazzato. La legnaia è qui di fronte e, se volete del latte nel caffè, troverete Daisy nella stalla.»
«Daisy?»
«La mucca dei Webster. Dovrete mungerla.»
Il visconte la guardò talmente sbigottito che Sophie pensò fosse meglio precisare che aveva scherzato.
«Non credo che siate in grado di mungere una mucca, Mr. Wolfe, per quanto non dubiti che siate abile nel fare molte cose.»
«Forse sareste molto sorpresa, se sapeste in che cosa sono davvero abile, Miss Flint. Se riuscissi a persuadervi a togliervi quella mostruosità dalla testa, forse ve lo potrei dimostrare.»
Le guance di Sophie avvamparono. Si ricordò del modo in cui l’aveva baciata e preferì cambiare discorso. «Andate a prendere la legna» gli ordinò spingendolo verso la porta. «E fate presto, prima che il fuoco si spenga.»
Lui le mandò un bacio sulla punta delle dita, prima di uscire. «Ai vostri comandi, milady» mormorò, e chiuse la porta.
La giovane rimase a guardare la porta chiusa, chiedendosi perché quell’uomo le procurasse quelle strane sensazioni. Incapace di darsi una risposta soddisfacente, tornò a occuparsi del porridge. Ormai era pronto, perciò lo versò in una scodella da portare a Lydia, unendo il poco latte che era avanzato.
Marcus Wolfe sembrava un dongiovanni d’alto rango, uno di quei libertini eleganti a cui Arthur Crayford ambiva invano di somigliare, anche a giudicare dall’ottima qualità dei suoi vestiti e dei suoi stivali, che non le era sfuggita.
Il tipo di uomo, pericoloso e affascinante, da cui le donne giovani e serie dovevano stare alla larga, se non volevano rovinarsi irrimediabilmente la reputazione. Le sarebbe costato molto riuscirci, perché il suo fascino era davvero magnetico.
Nessun uomo aveva mai avuto quell’effetto su di lei, e ne aveva conosciuti tanti mentre suo padre era nell’esercito. E pensare che Wolfe era solo un estraneo che aveva appena incontrato. C’erano stati alcuni giovani ufficiali che l’avevano corteggiata, un tempo, ma nessuno era riuscito a turbarla come lui.
Quando sua madre era rimasta vedova e si era vista costretta ad affittare le camere della loro casa di Dulwich per consentire a Roger di continuare a studiare, un buon matrimonio sarebbe stato il benvenuto per Sophie.
Purtroppo scarseggiavano i pretendenti, soprattutto da quando era stata assunta come istitutrice dalla famiglia Crayford e aveva scarsa possibilità di conoscere dei giovani scapoli.
Senza contare che quei pochi che aveva incontrato, per esempio Arthur Crayford, avevano cercato di prendersi delle libertà con lei, proprio perché era semplicemente un’istitutrice...
Quelli erano i pensieri di Sophie mentre saliva al piano di sopra con il porridge per Lydia e, con il cuore ancora in tumulto, si ricordava del sorriso di Marcus Wolfe.