Raven Sable, magro, barbuto e vestito di nero, se ne stava sul sedile posteriore della sua limousine, nera e affilata, in contatto con la sua sede sulla costa occidentale, grazie al suo telefono cellulare, nero e affilato.
«Come va?» chiese.
«Buone prospettive, capo» rispose il direttore del marketing. «Domani ho una colazione di lavoro con i responsabili acquisti delle maggiori catene di supermercati. Nessun problema. Nel giro di un mese venderemo i nostri MENU® ovunque.»
«Bel lavoro, Nick.»
«Non c’è problema. Davvero. Basta sapere che tu ci copri le spalle, Rave. Sei un grande leader, amico mio. Con me funziona sempre.»
«Grazie» rispose Sable, e interruppe la connessione.
Era particolarmente fiero dei suoi MENU®.
La Newtrition era una azienda modesta, aveva iniziato dal basso, solo undici anni prima. Una piccola squadra di nutrizionisti, un gruppo foltissimo di addetti al marketing e alle pubbliche relazioni, e un logo come si deve.
Due anni di investimenti e di ricerche erano approdati a GNAM®. GNAM® conteneva proteine centrifugate, attorcigliate e riannodate, camuffate e occultate, progettate con il preciso scopo di eludere gli enzimi dei più famelici apparati digerenti; dolcificanti senza calorie; oli minerali in sostituzione di quelli vegetali; materiali fibrosi, coloranti e aromatizzanti. Il risultato era una serie di cibi quasi indistinguibili gli uni dagli altri, tranne che per due particolari. Primo: erano leggermente più costosi della media; secondo: il loro valore nutrizionale corrispondeva sostanzialmente a quello di un registratore Sony. Spuntino o scorpacciata, la ciccia se ne sarebbe andata.a
Gli obesi l’avevano comprato. I magri, che non volevano ingrassare, l’avevano comprato. GNAM® era il cibo dietetico definitivo: scomposto, ricostituito, rielaborato e bilanciato in modo da imitare qualsiasi ingrediente, dalle patate alla carne di daino, benché il prodotto più venduto fosse il pollo.
Sable aveva fatto il suo dovere e si era goduto i soldi che entravano dalla finestra, a palate. Aveva seguito GNAM® nell’ascesa che gradualmente gli aveva consegnato la nicchia ecologica occupata, fino ad allora, dal vecchio cibo senza marchio registrato.
Dopo GNAM®, ecco il momento degli SNACK®: cibo spazzatura ricavato da vera spazzatura.
E l’ultimo parto della mente di Sable era il MENU®.
MENU® aveva la stessa base di GNAM® con aggiunta di zuccheri e grassi. L’idea era che una dieta regolare a base di MENU® avrebbe portato: a) a ingrassare molto, e, in fretta; b) a morire per malnutrizione.
Era questo paradosso a entusiasmare Sable più di ogni altra cosa.
I MENU® erano, al momento, in prova in tutta l’America. Pizza MENU, Fish MENU, Szechuan MENU, MENU di riso macrobiotico. Persino Hamburger MENU.
La limousine di Sable era parcheggiata di fronte a un Burger Lord di Des Moines, nell’Iowa; il locale faceva parte di una catena di fast food di sua proprietà. Proprio lì, sei mesi prima, era iniziata la sperimentazione degli Hamburger MENU. Sable voleva toccarne i risultati con mano.
Si chinò in avanti, diede un colpetto al séparé di vetro. L’autista premette un pulsante e il vetro si abbassò.
«Signore?»
«Marlon, vado a dare un’occhiata alle nostre operazioni. Questione di dieci minuti. Poi rientriamo a Los Angeles.»
«Sissignore.»
Sable passeggiò tranquillo fino all’entrata del Burger Lord. Era perfettamente identico a qualsiasi Burger Lord d’America.b McLordy, il pagliaccio, danzava nel Paradiso dei Piccoli. Sulle labbra di ogni inserviente c’era il medesimo sorriso, che arrivava quasi agli occhi. Dietro le casse, un uomo paffuto di mezza età, in uniforme Burger Lord, spalmava gli hamburger sulla griglia, fischiettando a bassa voce, soddisfatto del proprio lavoro.
Sable si avvicinò a una cassa.
«Buongiorno-mi-chiamo-Marie» disse la ragazza al banco. «Posso-esserle-utile?»
«Un Doppio Rombo di Tuono, patatine grandi, niente maionese» disse.
«Da-bere?»
«Uno Special Chocobanana-shake denso e morbido.»
La ragazza premette i simboli corrispondenti sulla sua tastiera. (L’alfabetizzazione non era più un requisito necessario per l’assunzione in questi ristoranti. Il sorriso sì.) Poi si voltò verso l’uomo che armeggiava alle griglie.
«D-R-T-G, P-G, no maio» disse. «Choc-shake.»
«Aha» disse il cuoco, con voce profonda. Dispose il cibo all’interno di piccoli contenitori di plastica, fermandosi solo un attimo per sistemare il ciuffo grigio che gli cadeva sugli occhi.
«Ecco qui» disse.
La ragazza prese i contenitori senza degnarlo di uno sguardo, e lui tornò sorridente alla sua postazione, cantando a mezza voce. Looove me tender, looove me long, neever let me go…
Il mormorio del cuoco, osservò Sable, strideva con la musica di sottofondo del Burger Lord, un nastro che irradiava a ripetizione il jingle promozionale della catena, e considerò l’ipotesi di un licenziamento.
Buongiorno-mi-chiamo-Marie consegnò a Sable il suo MENU® e gli augurò buona giornata.
Adocchiato un tavolino di plastica libero, si sedette sulla sedia di plastica, ed esaminò il cibo.
Fetta di pane artificiale. Carne artificiale. Patatine fritte che non avevano nessuna parentela con le patate. Salse senza componenti vegetali. Addirittura (questo dava una certa soddisfazione) una fettina di fetido finocchio artificiale, sott’olio. Del milkshake Sable non si preoccupò nemmeno. È vero, non c’era la minima traccia di ingredienti organici, ma lo stesso valeva per quelli della concorrenza.
Attorno a lui, tutti gli avventori consumavano il proprio noncibo senza evidente entusiasmo, ma di sicuro non più disgustati dei clienti di qualsiasi altra catena di fast food del pianeta.
Sable si alzò, si avvicinò al bidone con la scritta USAMI e gettò via tutto. Se qualcuno gli avesse detto che in Africa c’erano bambini che morivano di fame sarebbe stato lusingato dal fatto che qualcuno lo aveva notato.
Qualcuno lo tirò per una manica. «È lei che si chiama Sable?» chiese un ometto occhialuto, con un cappellino della International Express, che gli tendeva un pacchetto di carta marrone.
Sable annuì.
«Immaginavo fosse lei. Mi sono guardato in giro, ho pensato, un signore alto con la barba, ben vestito, difficile incontrarne in questi posti. Pacco per lei, signore.»
Sable firmò la ricevuta, con il suo vero nome: una parola, otto lettere. Fa rima con amnistia.
«Grazie mille, signore» disse il fattorino e dopo una pausa aggiunse: «Mi scusi. Quel tizio dietro il bancone, non le ricorda qualcuno?»
«No» rispose Sable. Diede all’ometto una mancia – cinque dollari – e aprì il pacco.
Era una piccola bilancia di ottone.
Sable sorrise. Fu un sorriso affilato, e scomparve all’istante.
«Era ora» mormorò. Si infilò la bilancia in tasca, senza badare al gonfiore che rovinava la linea impeccabile del suo abito nero, e si incamminò verso la limousine.
«Torniamo in ufficio?» chiese l’autista.
«All’aeroporto» disse Sable. «E prenotami un biglietto per l’Inghilterra.»
«Sissignore, andata e ritorno per l’Inghilterra.»
Sable giocherellava con la bilancia nella tasca. «Solo andata» disse. «Al ritorno ci penso io. Ah, chiama l’ufficio, e cancella tutti i miei appuntamenti.»
«Fino a che giorno, signore?»
«Per tutto il futuro prossimo.»
Nel Burger Lord, dietro alle casse, l’uomo tarchiato con il ciuffo ribelle fece scivolare un’altra dozzina di hamburger sulla griglia. Era la persona più felice del mondo, e canticchiava a voce molto bassa.
«… y’aint never caught a rabbit» mormorò, «and y’ain’t no friend of mine…»
I Quelli ascoltavano attenti. Cadeva una pioggia leggera, da cui si riparavano a malapena sotto le vecchie lamiere e i fogli di linoleum che fungevano da tetto al rifugio nella cava. Quando pioveva, toccava sempre a Adam escogitare qualcosa di interessante. E non stava certo deludendo i suoi compagni. Nei suoi occhi, infatti, risplendeva la luce della conoscenza.
Aveva resistito fino alle tre del mattino, prima di addormentarsi, sepolto da una catasta di “Riviste dell’Acquario”.
«E poi c’era uno che si chiamava Charles Fort» disse. «Che sapeva far piovere pesci e rane e cose del genere.»
«Oh» disse Pepper. «Ci scommetto. Rane vive?»
«Oh, sì» rispose Adam, sempre più appassionato dall’argomento. «Di quelle che saltano e gracidano eccetera eccetera. Alla fine l’hanno dovuto pagare per andarsene via e, e…» si spremette le meningi per ricordare qualcosa che potesse impressionare il suo pubblico; non aveva mai letto così tante pagine in una volta sola come la sera prima. «… ed è partito a bordo della Mary Celeste e ha fondato il triangolo delle Bermude. Proprio alle Bermude» precisò.
«No, non è possibile che sia stato lui» disse fiero Wensleydale, «perché io ho letto della Mary Celeste, e a bordo non c’era nessuno. È famosa perché a bordo non c’era nessuno. L’hanno trovata che galleggiava senza nessuno a bordo.»
«Non ho mica detto che lui c’era quando l’hanno trovata, no?» disse Adam, con indifferenza. «Certo che lui non c’era. Colpa dell’Ufo che è atterrato e l’ha portato via. Pensavo che tutti lo sapessero.»
I Quelli si rilassarono. Sugli Ufo andavano più o meno d’accordo. Eppure gli Ufo New Age non sembravano convincerli granché; ascoltarono educatamente le descrizioni di Adam, ma quegli Ufo moderni non possedevano, ai loro occhi, un fascino irresistibile.
«Se io fossi un’aliena» disse Pepper, dando voce all’opinione comune, «non andrei in giro a parlare a tutti di armonia mistica del cosmo. Direi» e la sua voce si fece rauca e nasale, come se avesse il viso coperto da una maschera nera e diabolica, «“quesshta è una pisshtola lassher, pehrciò obbeditehh, sshchifosi rribellih”.»
Tutti annuirono. Il loro gioco preferito, nella cava, era ispirato a una serie di film di grande successo, infarciti di laser, robot, e principesse che sfoggiavano acconciature simili a un paio di cuffie stereo®. (Un tacito accordo stabiliva, dal primo istante, che se qualcuno avesse dovuto interpretare il ruolo della principessa stupida, quella non sarebbe stata Pepper.) Il gioco sfociava sempre in una rissa per decidere chi avrebbe indossato il secchio del carbone®, e fatto esplodere i pianeti.
Adam era il migliore: quando faceva la parte del cattivo sembrava che fosse davvero in grado di cancellare mondi interi. L’indole dei Quelli li portava a parteggiare sempre per i distruttori di pianeti, a patto che potessero, al tempo stesso, salvare anche le principesse.
«Mi sa che è quello che facevano» disse Adam. «Ma adesso è diverso. Adesso emanano una luce blu e vanno in giro a fare del bene. Una sorta di polizia galattica, che ricorda a tutti di vivere in armonia universale e cose del genere.»
Ci fu un attimo di silenzio, mentre i Quelli riflettevano su questa nuova tipologia di Ufo intimamente buoni.
«Quello che mi chiedo sempre» disse Brian «è perché continuino a chiamarli oggetti, se sanno che sono dei dischi.»
«È perché il governo insabbia tutto» disse Adam. «Ci sono milioni di dischi volanti che atterrano in continuazione, e il governo non fa altro che insabbiare tutto.»
«Perché?» chiese Wensleydale.
Adam esitò. Le sue letture non gli avevano fornito una risposta rapida a questa domanda; per la “Rivista dell’Acquario” e per i suoi lettori era scontato che il governo insabbiasse ogni cosa.
«Perché è il governo» si limitò a dire Adam, «è quello che fanno tutti i governi. A Londra c’è un grande palazzo pieno di libri di cose insabbiate. Quando il primo ministro va a lavorare, la mattina, comincia subito a sfogliare la lista di tutto quello che è successo la notte precedente e ci mette il suo bel timbro rosso.»
«Scommetto che si beve una tazza di tè, e poi legge il giornale» disse Wensleydale, che in un memorabile giorno di vacanza aveva visitato l’ufficio del padre, e se ne era fatto un’idea piuttosto precisa. «E parla di quello che ha visto in in tv la sera prima.»
«Sì, be’, ma dopo tira fuori il libro e il timbro rosso.»
«Con su scritto “Insabbiare”» disse Pepper.
«C’è scritto Top Secret» precisò Adam, rifiutando il tentativo bipartisan di condivisione della creatività. «Come le centrali nucleari. Continuano a esplodere, eppure nessuno lo sa, perché il governo le insabbia.»
«Non è vero che esplodono» replicò severo Wenlseydale. «Mio papà dice che sono a prova di guasto, e che non dobbiamo vivere sotto una serra. E comunque, nel mio fumettoc ce n’è disegnata una e non dice che è saltata per aria.»
«Sì» disse Brian, «ma quando mi hai prestato quel fumetto ho visto che cosa c’era scritto.»
Wensleydale si fece incerto e replicò, con il tono greve di chi sta esaurendo la pazienza: «Brian, la scritta “vista esplosa” non significa che…».
E così scoppiò la solita zuffa.
«Ascoltate» disse Adam, severamente. «Volete o no che vi racconti dell’era dell’Acquario?»
La rissa tra i membri della confraternita dei Quelli, scherzosa come al solito, si quietò.
«Bene» disse Adam. Si grattò la testa. «Adesso mi avete fatto perdere il filo» si lamentò.
«Dischi volanti» suggerì Brian.
«Giusto. Giusto. Be’, se vi doveste imbattere davvero in un Ufo, gli uomini del governo vi porterebbero via» fece Adam, riprendendo il discorso. «Su una macchinona nera. In America succede sempre.»
I Quelli annuirono saggiamente. Perlomeno su questo non avevano dubbi. L’America, per come la vedevano loro, era il posto in cui finivano le brave persone dopo la morte. Erano disposti a credere che in America potesse succedere qualsiasi cosa.
«Chissà quante code» disse Adam, «con tutti quegli uomini sulle macchine nere, che vanno in giro a prelevare la gente che vede gli Ufo. Ti dicono che se continui a vederli avrai un Brutto Incidente.»
«Magari finisci investito da un macchinone nero» disse Brian, grattandosi una crosta sul ginocchio sporco. «Mio cugino mi ha detto che in certi posti, in America, vendono trentanove gusti di gelato.»
Quest’uscita, per un attimo, zittì persino Adam.
«Non esistono trentanove gusti di gelato» disse Pepper. «Non ci sono trentanove gusti di gelato in tutto il mondo.»
«Se li mescoli, sì» disse Wensleydale, strabuzzando gli occhi da gufo. «Lo sai. Fragola e cioccolato. Cioccolato e vaniglia.» Pensò altri gusti. «Fragola e vaniglia e cioccolato» aggiunse goffamente.
«E poi c’è Atlantide» disse a gran voce Adam.
Così catturò l’attenzione dei compagni. Atlantide era sempre stata tra i loro argomenti preferiti. Per i Quelli, le città sprofondate negli abissi marini erano proprio dietro l’angolo. Ascoltarono attenti la descrizione raffazzonata di piramidi, assurde fratellanze e antichi segreti.
«Ma è successo tutto all’improvviso, o lentamente?» chiese Brian.
«Be’, un po’ e un po’» rispose Adam, «perché parecchi degli abitanti sono scappati in barca in altri paesi e hanno imparato la matematica, e l’inglese, e cose del genere.»
«Non vedo cosa c’è di così grandioso» disse Pepper.
«Dev’essere stato uno spasso, quando tutto colava a picco» disse Brian, ricordandosi dell’unica inondazione che aveva colpito Lower Tadfield. «La gente consegna il latte e i giornali in barca, e la scuola chiude.»
«Se io fossi stato un atlantidiano, sarei rimasto» disse Wensleydale. La frase fu accolta da risate sprezzanti, ma lui non si lasciò intimidire. «Bastava indossare un casco da sommozzatore, tutto lì. E sigillare con dei chiodi tutte le finestre e riempire le case d’aria. Sarebbe stato grandioso.»
Adam reagì con lo sguardo freddo riservato di solito a chi, tra i Quelli, se ne usciva con un’idea che lui stesso avrebbe desiderato esporre per primo.
«Magari lo hanno fatto» concesse, senza troppa convinzione. «Dopo aver imbarcato tutti i professori. Forse gli altri sono rimasti lì, mentre la città affondava.»
«Non ci sarebbe neanche bisogno di lavarsi» disse Brian, i cui genitori lo obbligavano a lavarsi molto più di quanto lui giudicasse salutare. Non che gli servisse granché. C’era qualcosa di radicalmente ostinato in Brian. «Perché tutto sarebbe sempre stato pulito. E avrebbero potuto coltivare le alghe in giardino e cacciare gli squali. E avere dei polipi come animali domestici, e cose del genere. E poi non ci sarebbero state scuole o cose del genere perché i professori se ne erano andati tutti.»
«Magari sono ancora laggiù» suggerì Pepper.
Il loro pensiero andò agli atlantidi, vestiti di lunghe tuniche mistiche, a fiori, e acquari per i pesci rossi in testa, che si divertivano nel profondo delle acque increspate dell’oceano.
«Ah» sospirò Pepper, interpretando il loro stato d’animo.
«Adesso cosa facciamo?» chiese Brian. «Il cielo si è schiarito.»
Alla fine giocarono alle Scoperte di Charles Fort. Secondo le regole del gioco, uno di loro doveva camminare tenendo in mano i resti di un vecchio ombrello, mentre gli altri lo colpivano con una pioggia di rane, o meglio, di rana. L’unica che avevano pescato nello stagno. Era una rana piuttosto anziana, che conosceva i Quelli da molto tempo, e considerava il loro interessamento il prezzo da pagare per uno stagno libero da lucci e gallinelle d’acqua. Per un po’ stette al gioco, facendo appello a tutto il suo buonsenso, dopodiché scappò via saltellando fino a un nascondiglio ancora sconosciuto in un vecchio canale di scolo.
Poi i ragazzi tornarono a casa per il pranzo.
Adam si sentiva molto soddisfatto del lavoro di quella mattina. Era sempre stato certo che il mondo fosse un luogo interessante, e la sua immaginazione lo aveva popolato di pirati, banditi, spie e astronauti. Ma Adam nutriva ancora il sospetto sempre più pressante che, in fondo, queste fossero solo storie di cui leggeva sui libri, e che, in realtà, non esistessero.
D’altro canto, l’intera vicenda dell’Acquario sembrava davvero vera. Gli adulti avevano scritto montagne di libri sull’argomento (la “Rivista dell’Acquario” era piena di pubblicità) e dunque i Bigfoot, gli Uomini-mosca, gli Yeti, i mostri marini e i puma del Surrey dovevano esistere “davvero”. Se Cortez, sulla cima del picco di Darien, avesse avuto i piedi un po’ umidi a causa della caccia alle rane, si sarebbe sentito come Adam in quel momento.
Il mondo era raggiante nella sua stranezza, e lui ci si trovava nel mezzo.
Divorò il pranzo e si ritirò in camera. Gli restavano da leggere ancora alcune riviste.
La cioccolata, una poltiglia marrone e gelata, riempiva ancora metà del bicchiere.
C’era gente che aveva impiegato secoli per decifrare le profezie di Agnes Nutter. Ed erano in linea di massima personaggi piuttosto intelligenti. Anatema Device, che più di tutti si avvicinava a essere Agnes Nutter, genetica permettendo, era la migliore del gruppo. Nessuno di loro, tuttavia, era un angelo.
Le prime impressioni che Azraphel suscitava in chi facesse conoscenza con lui, erano tre: che fosse un gentleman inglese, che fosse intelligente, e che fosse più vivace di un albero pieno di scimmie intossicate da un gas esilarante. Due di queste erano errate: l’Inghilterra non è il Paradiso, checché ne dicano certi poeti, e gli angeli sono privi di sesso, a meno che non decidano il contrario. Però, è vero, Azraphel era intelligente. E la sua era un’intelligenza angelica, forse non più acuta della comune intelligenza umana, ma di gran lunga più estesa, e avvantaggiata da centinaia d’anni di allenamento alle spalle.
Azraphel era stato il primo angelo in assoluto a possedere un computer. Uno di quelli economici, lenti, di plastica, spacciati ai piccoli imprenditori come macchinari prodigiosi. Azraphel lo usava religiosamente per la contabilità del negozio che era così accurata, scrupolosa e ordinata da avere indotto i revisori fiscali a perquisirlo già cinque volte, convinti, in un qualche modo, che stesse nascondendo un omicidio.
Questi calcoli, tuttavia, trascendevano le facoltà di qualsiasi computer. Ogni tanto Azraphel scarabocchiava qualcosa su un foglio che teneva accanto a sé. Era coperto di simboli che solo altre otto persone al mondo sarebbero state in grado di decifrare; due erano premi Nobel, e una delle altre sei sbavava in continuazione e doveva essere tenuta lontana dalla portata di oggetti appuntiti, per evitare che combinasse qualcosa di brutto.
Anatema pranzò con una zuppa di miso e studiò le proprie mappe. Senza dubbio l’area attorno a Tadfield era ricca di linee di forza; anche il famoso Reverendo Watkins ne aveva individuate alcune. Eppure, a meno che lei non avesse commesso un errore, sembrava che stessero cambiando posizione.
Aveva passato la settimana a eseguire rilievi con teodolite e pendolo, e adesso la mappa di Tadfield era tempestata di frecce e puntini.
Li scrutò per qualche istante. Poi prese un pennarello indelebile e, con una rapida occhiata al suo quaderno, iniziò a unirli.
La radio era accesa, ma Anatema non vi prestava troppa attenzione. Così, molte delle principali notizie della giornata la sfiorarono appena, senza che lei si accorgesse di nulla finché un paio di parole chiave non riuscirono a filtrare nel profondo del suo inconscio.
Un certo signor Portavoce era prossimo alla crisi isterica.
«… pericolo per i dipendenti o per il pubblico» stava dicendo.
«E con esattezza quanto materiale radioattivo vi è sfuggito?» chiese l’intervistatore.
Dopo un attimo di silenzio il portavoce rispose. «Non direi “sfuggito”. Non è sfuggito. È temporaneamente assente.»
«Intende dire che non è fuoriuscito dagli stabilimenti?»
«Di certo non esiste spiegazione logica alla sua rimozione» ammise il portavoce.
«Davvero non pensate che possa essere opera dei terroristi?»
Ci fu un’altra pausa. Dopodiché il portavoce riprese a parlare, con il tono tranquillo di chi ne ha avuto abbastanza e sta per mollare tutto e andare ad allevare polli. «Sì, penso che dovremmo affrontare la questione. Ci basta solo trovare qualche terrorista in grado di estrarre dal suo alloggiamento un reattore nucleare intero e funzionante, senza che nessuno se ne accorga,. Pesa quasi mille tonnellate ed è alto dodici metri. Quindi stiamo parlando di terroristi piuttosto forti. Forse preferirebbe telefonare direttamente a loro, signore, e rivolgere loro le sue domande con quel tono accusatorio e arrogante.»
«Ma lei ha detto che la centrale non ha smesso di produrre energia» lo interruppe l’intervistatore.
«Esatto.»
«Com’è possibile, se mancano i reattori?»
Lo si poteva quasi vedere, il ghigno folle del portavoce, anche alla radio. Si poteva vedere la sua penna, posata sulla rubrica Fattorie in vendita di “Mondo Pollaio”. «Non lo sappiamo» disse. «Speravamo che qualche brillante sapientone della Bbc se ne uscisse con un’idea.»
Anatema fissò la mappa.
Quella che aveva appena disegnato somigliava a una galassia, o a una delle incisioni riportate sui monoliti celtici, di classe superiore.
Le linee di forza si stavano davvero spostando. Stavano formando una spirale.
Il suo centro – con una certa approssimazione e un minimo margine di errore, si trattava di centro – corrispondeva a Lower Tadfield.
A parecchi chilometri di distanza, quasi nello stesso istante in cui Anatema fissava la spirale, la nave da crociera Morbilli si era incagliata in un punto in cui la profondità del mare avrebbe dovuto essere di seicento metri.
Questo era l’ennesimo problema di una lunga serie, per il capitano Vincent. Egli sapeva, per esempio, che avrebbe dovuto mettersi in contatto con i proprietari della nave, ma non sapeva, da un giorno all’altro – o di ora in ora, nel nostro mondo computerizzato – chi fossero i veri proprietari.
I computer, quelli erano il vero guaio. I documenti della nave erano informatizzati, e potevano essere convertiti automaticamente, in pochi millisecondi, in modo da battere sempre la bandiera più conveniente. Anche la rotta era computerizzata, e la navigazione era sorvegliata costantemente dai satelliti. Il capitano Vincent aveva spiegato paziente ai proprietari, chiunque essi fossero, che qualche centinaio di metri quadrati di fogli di lamiera e una cassa di chiodi sarebbero stati un investimento migliore, ed era stato informato che il suggerimento non era in linea con le correnti previsioni di evoluzione del rapporto costi/ricavi.
Il capitano Vincent nutriva il forte sospetto che, nonostante l’apparecchiatura elettronica, la nave fosse più sotto che sopra il pelo dell’acqua, e che probabilmente l’affondamento sarebbe passato alla storia come il naufragio meglio localizzato di tutti i tempi.
A rigor di logica, questo significava che lui stesso avrebbe avuto più valore da morto che da vivo.
Se ne stava alla sua scrivania, rilassato, a sfogliare i Codici marittimi internazionali, le cui seicento pagine contenevano brevi ma intensi messaggi studiati apposta per diffondere in tutto il mondo i particolari di qualsiasi evenienza nautica, con il minimo coefficiente di confusione e, soprattutto, il minimo dei costi.
Ciò che tentava di comunicare era questo: sto navigando in direzione SSO, coordinate 33° N 47°72’ O. Il primo ufficiale, che come ricorderete mi è stato assegnato in Nuova Guinea contro la mia volontà ed è probabilmente un cacciatore di teste, mi ha indicato a gesti che qualcosa non quadrava. A quanto pare, una vasta area del fondo marino si è sollevata nella notte. Contiene un elevato numero di edifici, alcuni dei quali di struttura vagamente piramidale. Noi ci siamo incagliati prorio nel cortile di uno di questi. Siamo circondati da statue dall’aspetto poco piacevole. Alcuni anziani, educati e agghindati con tuniche e caschi da palombaro, sono saliti a bordo della nave e si stanno amabilmente intrattenendo con i passeggeri, i quali sono convinti che sia stato tutto organizzato da noi. Per favore, datemi un consiglio.
Le sue dita percorsero lentamente tutta la pagina, fino a fermarsi. I buoni, vecchi Codici internazionali. Li avevano introdotti ottant’anni prima, ma già all’epoca i redattori avevano preso in considerazione tutti i pericoli che le profondità marine potevano riservare.
Afferrò la penna e scrisse: “XXXV QVVX”.
Tradotto, significava: “Trovato il Continente Perduto di Atlantide. Gran Sacerdote vittorioso in torneo di quoit”.
«No che non lo è!»
«Invece sì!»
«Invece no, lo sai!»
«Certo che sì!»
«Invece… va bene, e allora cosa mi dici dei vulcani?» Wensleydale si sedette, nei suoi occhi uno sguardo trionfante.
«Cosa c’entrano?» chiese Adam.
«La schiuma esce dal centro della Terra, dove è tutto incandescente» disse Wensleydale. «L’ho visto in un programma. C’era David Attenborough, quindi è vero per forza.»
Gli altri Quelli fissarono Adam. Come se stessero seguendo un incontro di tennis.
La Teoria della Terra Vuota non stava riscuotendo molto successo, nella cava. L’idea intrigante, che aveva resistito alle obiezioni di pensatori del calibro di Cyrus Read Teeth, Bulwer-Lytton e Adolf Hitler, stava finalmente cedendo di fronte all’impeto dell’eccitata logica occhialuta di Wensleydale.
«Io non ho detto che è tutta vuota» replicò Adam. «Nessuno dice che è vuota fino in fondo. Magari bisogna scendere per chilometri e chilometri, giù dove ci sono il petrolio, il carbone, i tunnel tibetani e roba del genere. Ma dopo è vuota. È quello che pensano tutti. E c’è un buco al Polo Nord, da cui entra l’aria.»
«Mai visto sull’atlante» insinuò Wensleydale.
«Il governo non vuole che lo si metta sulle mappe, così nessuno va a curiosare» disse Adam. «Il fatto è che le persone che vivono all’interno del pianeta non vogliono che quelli fuori continuino a sbirciarli.»
«Cosa vuol dire tunnel tibetani?» chiese Pepper. «Hai detto tunnel tibetani.»
«Ah. Non ve ne ho parlato?»
Tre teste fecero cenno di no.
«È incredibile. Avete presente il Tibet?»
Tutti annuirono, dubbiosamente. Nelle loro menti si era accesa una galassia di immagini: gli yak, l’Everest, la gente chiamata Cavalletta, i vecchietti seduti sulle montagne, altra gente che apprende il kung fu in templi antichi, e poi la neve.
«Be’, avete presente tutti quei professori che hanno abbandonato Atlantide, quando è sprofondata?»
Annuirono ancora.
«Be’, alcuni sono andati in Tibet e ora dominano il mondo. Vengono chiamati Antichi Maestri. Forse perché erano professori. E hanno questa città segreta sotterranea, che si chiama Shambala, e tunnel che arrivano in tutte le parti del mondo e da cui controllano quello che succede. Alcuni dicono che vivono proprio sotto il Deserto dei Gobi» disse altezzoso, «ma secondo le autorità più competenti il luogo vero è il Tibet. È lì che scavano i tunnel migliori.»
I Quelli si fissarono istintivamente le piante dei piedi, sporche e incrostate di gesso.
«Come fanno a sapere tutto?» chiese Pepper.
«Gli basta ascoltare, no?» azzardò Adam. «Gli basta origliare e ascoltare. Lo sapete quanto ci sentono i professori. Riescono a sentire un sussurro dall’altra parte dell’aula.»
«Mia nonna metteva un bicchiere contro il muro» disse Brian. «Diceva che era disgustata da quanto riusciva a captare dall’altra parte.»
«E questi tunnel vanno dappertutto?» chiese Pepper, senza staccare lo sguardo da terra.
«In tutto il mondo» rispose Adam, sicuro.
«Dev’esserci voluto parecchio tempo» replicò Pepper, con qualche dubbio. «Vi ricordate di quando abbiamo provato a scavare quel tunnel nel campo, ci abbiamo messo tutto il pomeriggio, e per entrarci bisognava accartocciarsi?»
«Sì, ma loro lo fanno da milioni di anni. Se hai milioni di anni a disposizione, puoi scavare tunnel perfetti.»
«A me risulta che i tibetani sono stati conquistati dai cinesi e che il Dalli Lama è dovuto scappare in India» disse Wensleydale, senza troppa convinzione. Wensleydale leggeva il giornale di suo padre tutte le sere, ma la prosaica quotidianità del mondo sembrava sempre squagliarsi nel crogiolo delle spiegazioni di Adam.
«Scommetto che adesso sono là sotto» disse Adam, ignorando l’ultima considerazione. «A quest’ora saranno dappertutto. Seduti sottoterra ad ascoltare.»
Si scambiarono degli sguardi.
«Se scavassimo in fretta…» disse Brian. Pepper, che non era così dura di comprendonio, sbadigliò.
«Perché devi dire una cosa del genere?» disse Adam. «Bella trovata cercare di sorprenderli adesso, se ti metti a gridarlo così ai quattro venti. Stavo giusto pensando che potevamo metterci a scavare, e tu li avverti così!»
«Secondo me non è vero che scavino tutte quelle gallerie» obiettò Wensleydale, sempre più ostinato. «Non ha nessun senso. Il Tibet è lontano centinaia di chilometri.»
«Oh, sì. Oh, sì. E scommetto che ne sai più tu di Madame Blatvatatasky, vero?» insinuò Adam.
«Senti, se io fossi un tibetano» disse Wensleydale, con tono ragionevole, «scaverei solo fino al punto in cui è tutto vuoto, e da lì correrei fin dove voglio arrivare, poi ricomincerei a scavare.»
La proposta fu presa seriamente in considerazione.
«Devi ammettere che è più sensato dei tunnel» disse Pepper.
«Sì, be’. Magari fanno così» disse Adam. «È probabile che abbiano fatto una scoperta così facile.»
Brian fissava sognante il cielo, mentre con un dito analizzava il contenuto del proprio orecchio.
«È davvero buffo» disse. «Uno passa tutta la vita ad andare a scuola e a imparare, e non ti raccontano mai del Triangolo delle Bermude e degli Ufo o degli Antichi Maestri che si rincorrono sottoterra. Chissà perché si ostinano a inculcarci tutte quelle materie noiose quando potrebbero insegnarci questi incredibili segreti, vorrei proprio saperlo.»
La risposta fu un coro di intesa.
Poi uscirono e giocarono a Charles Fort e agli Atlantidi contro gli Antichi Maestri del Tibet, benché i Tibetani dovettero lamentarsi del fatto che usare antichi laser mistici fosse del tutto sleale.
Ci fu un’epoca in cui i Cacciatori di Streghe erano rispettati, e purtroppo non durò a lungo.
Matthew Hopkins, per esempio, Generale dei Cacciatori di Streghe, batteva l’Inghilterra orientale intorno alla metà del XVII secolo, esigendo da ogni città e villaggio in cui scopriva una fattucchiera, una ricompensa di nove pence a cattura.
Ecco il problema. I Cacciatori di Streghe non erano pagati a ore. Qualsiasi cacciatore avesse passato una settimana intera a esaminare le bruttone locali e riferito al signore: “Ben fatto, nemmeno l’ombra di un cappello a punta” avrebbe ricevuto un caloroso ringraziamento, un piatto di zuppa e un sentito arrivederci.
Così, per sistemare i conti, Hopkins fu costretto a catturare parecchie streghe in più. Questo lo rese assai impopolare agli occhi delle amministrazioni cittadine, finché lui stesso non fu impiccato per stregoneria da certi contadini dell’East Anglia, i quali intuirono, con un certo acume, che sbarazzandosi dell’intermediario avrebbero ridotto le spese.
L’opinione diffusa è che Hopkins sia stato l’ultimo Generale dei Cacciatori di Streghe.
Aessere pignoli, è vero. In termini generali, però, non è proprio così. L’Esercito dei Cacciatori di Streghe marcia ancora, ma con maggior circospezione.
Non esiste più un Generale dei Cacciatori di Streghe.
Né esistono, tra i Cacciatori, un Colonnello, un Maggiore, un Capitano, e nemmeno un Luogotenente (l’ultimo morì precipitando da un albero molto alto a Caterham, nel 1933, nel tentativo di guadagnare una visuale migliore di quella che riteneva essere una delle più degenerate orge sataniche di tutti i tempi, ma che in realtà era il festeggiamento annuale, con tanto di cena e balli, dell’Associazione dei Mercanti di Caterham e Whyteleafe).
In ogni modo, un Sergente dei Cacciatori di Streghe esiste ancora.
E, da poco, esiste anche un Soldato Semplice dei Cacciatori. Si chiama Newton Pulsifer.
A conquistarlo è stato l’annuncio sulla “Gazette”, tra quelli di un frigo in vendita e di una cucciolata di quasi-dalmata:
UNISCITI AI PROFESSIONISTI. CERCASI COLLABORATORE PART-TIME PER COMBATTERE LE FORZE OSCURE. UNIFORME E ADDESTRAMENTO BASE GRATUITI. PROMOZIONE SUL CAMPO SICURA. SII UOMO!
Durante la pausa pranzo chiamò il numero telefonico indicato dall’annuncio. Rispose una donna.
«Pronto» esordì goffamente. «Ho visto l’annuncio.»
«Quale, amore?»
«Ehm, quello sul giornale.»
«Bene, amore. Dunque, Madame Tracy scopre il velo tutti i pomeriggi, escluso il giovedì. Sconti comitive. Quando gradiresti Esplorare i Misteri, amore mio?»
Newton esitò. «Sulla pubblicità c’è scritto “Unisciti ai professionisti”» disse. «Non parla di nessuna Madame Tracy.»
«Allora devi rivolgerti al signor Shadwell. Un secondo, vedo se è in giro.»
Qualche tempo dopo, quando ebbe stretto un’amicizia formale con Madame Tracy, Newt scoprì che se le avesse citato un altro annuncio, comparso su un settimanale, Madame Tracy sarebbe stata disponibile per massaggi intimi e discipline particolari, tutte le sere escluso il giovedì. Non solo. Da qualche parte, in una cabina del telefono, c’era un terzo annuncio. E quando, svariati mesi più tardi, Newt le domandò che cosa quest’ultimo riguardasse, lei rispose: «I giovedì». Alla fine, Newt sentì un calpestio di passi su un pavimento non rivestito, un profondo colpo di tosse, e una voce del colore di un vecchio impermeabile:
«Sì.»
«Ho letto l’annuncio. “Unisciti ai professionisti”. Vorrei saperne di più.»
«Sì. In tanti vorrebbero saperne di più, e in tanti…» la voce si affievolì drammaticamente, poi tornò di colpo al massimo volume, «…in tanti NON VORREBBERO.»
«Ah» gracchiò Newton.
«Come ti chiami, marmocchio?»
«Newton. Newton Pulsifer.»
«LUCIFER? Cosa? Appartieni forse alla Progenie dell’Oscuro, sei tu un seduttore, un tentatore venuto dal profondo con le tue licenziose membra sguscianti dal calderone dell’Ade, in torturata e lubrica servitù dei tuoi padroni stigi e infernali?»
«Ho detto Pulsifer» chiarì Newton. «Con la “P”. Di tutto il resto non so niente, tranne che i miei sono del Surrey.»
La voce al telefono sembrò vagamente delusa.
«Ah. Sì. Be’, dunque. Pulsifer. Pulsifer. Ho forse già sentito un nome simile?»
«Non so» disse Newton. «Mio zio ha un negozio di giocattoli a Hounslow» aggiunse, nel caso potesse servire.
«Davveeero?» chiese Shadwell.
Era impossibile localizzare l’accento di Shadwell. Attraversava tutta la Gran Bretagna come il giro delle consegne di un lattaio. Qui un pazzo sergente istruttore gallese, là un anziano di High Kirk che aveva appena adocchiato qualcuno di sospetto nel giorno di domenica, e tra uno e l’altro un austero pastore del Daleland, o un arcigno spilorcio del Somerset. Non importava dove andasse l’accento, tanto il tono non migliorava.
«Possiedi tutti i tuoi denti?»
«Oh, sì. Ho un paio di otturazioni.»
«Ti senti idoneo?»
«Credo di sì» balbettò Newt. «Voglio dire, è il motivo per cui volevo unirmi alla milizia territoriale. Brian Potter, della Contabilità, arriva quasi a cento flessioni da quando ne fa parte. E ha anche partecipato alla parata in onore della Regina Madre.»
«Quanti capezzoli?»
«Prego?»
«Capezzoli, marmocchio, capezzoli» disse la voce in tono di sfida. «Quanti capezzoli possiedi?»
«Ehm. Due?»
«Bene. Possiedi un paio di forbici tue?»
«Cosa?»
«Forbici! Forbici! Sei sordo?»
«No. sì. Voglio dire, ho le forbici. Non sono sordo.»
La cioccolata si era quasi completamente solidificata. All’interno della tazza prosperava della muffa verde.
Anche Azraphel era coperto da un sottile strato di polvere.
Accanto a lui, la pila di appunti cresceva. Le Belle e accurate profezie erano infarcite di segnalibri improvvisati, fatti di striscioline di carta prese dalle pagine del “Daily Telegraph”.
Azraphel ebbe un fremito, e si pizzicò il naso.
C’era quasi.
Ne aveva individuato i contorni.
Non aveva mai conosciuto Agnes. Era stata troppo intelligente, questo è ovvio. Di solito, il Paradiso o l’Inferno individuavano con grande tempestività i temperamenti profetici, e mandavano in onda, sui loro canali mentali, disturbi sufficienti a prevenire qualsiasi esattezza indesiderata. Adire la verità, non era sempre necessario; i profeti stessi, solitamente, trovavano il modo di generare campi di forza in grado di difendersi dalle visioni che echeggiavano nelle loro teste. Il povero vecchio san Giovanni utilizzava i funghi, per esempio. Madre Shipton la birra. Nostradamus la sua collezione di stuzzicanti preparati orientali. San Malachia il suo distillatore.
Il buon vecchio Malachia. Era stato un bravo ragazzo, sempre lì seduto a sognare i papi del futuro. Ovvio, era un ubriacone di professione. Senza tutto quel distillato, avrebbe potuto diventare un pensatore serio.
Che fine triste. Avolte bisognava sperare che il piano ineffabile fosse davvero architettato nei minimi dettagli.
Architettato. Ora doveva fare qualcosa. Oh, sì. Telefonare al suo contatto, attivarlo.
Si alzò, si stirò, e fece una telefonata.
Poi pensò: perché no? Proviamoci.
Tornò al tavolo e sfogliò la pila di appunti. Agnes era stata davvero brava. E intelligente. Le profezie accurate non interessavano a nessuno.
Appunti alla mano, chiamò il servizio informazioni.
«Pronto? Buon pomeriggio. Molto gentile. Sì. È un numero di Tadfield, credo. O di Lower Tadfield… ah. Forse di Norton, non sono sicuro del prefisso. Sì. Young. Il cognome è Young. Mi dispiace, non conosco l’iniziale. Ah. Be’, può darmeli tutti, per cortesia? Grazie.»
Al tavolo, una penna si sollevò e iniziò a scarabocchiare furiosamente.
Al terzo nome, la punta si ruppe.
«Ah» disse Azraphel, aprendo la bocca per inerzia, mentre la sua mente esplodeva. «Penso sia questo. Grazie. Molto gentile. Buona giornata a lei.»
Riappese il ricevitore quasi con riverenza, fece alcuni respiri profondi, e compose un altro numero. Incontrò qualche problema con le ultime tre cifre: la mano gli tremava troppo.
Ascoltò gli squilli. Poi una voce rispose. Era una voce di mezza età, non ostile, ma nemmeno brillante, forse perché sottratta a un sonnellino.
«Tadfield sei sessantasei» rispose.
La mano di Azraphel cominciò a tremare.
«Pronto?» disse la cornetta. «Pronto.»
Azraphel cercò di darsi un tono.
«Mi scusi» disse. «Non ho sbagliato numero.»
E riagganciò.
Newt non era sordo. E aveva un paio di forbici.
Aveva anche una grossa pila di quotidiani.
Se avesse saputo che la vita nell’esercito consisteva nell’applicare le prime ai secondi, pensava, non si sarebbe mai arruolato.
Il Sergente Shadwell dei Cacciatori di Streghe gli aveva preparato una lista, incollata a una parete del piccolo appartamento in affitto sopra Rajit-Edicola e Noleggio Video. La lista recitava:
- Streghe.
- Fenomeni Iperscruntabili. Imperscutabili. Incompresi. Roba strana, ci siamo capiti.
Newt vagliava le une e gli altri. Sbuffò e prese un altro giornale, ne osservò la prima pagina, lo aprì, ignorò pagina due (non ci si trova mai niente), poi arrossì mentre effettuava il solito obbligatorio conteggio dei capezzoli a pagina tre. Shadwell aveva molto insistito. «Non ti puoi mai fidare, di quelle dannate imbroglione» aveva detto. «Sarebbe proprio da loro, uscirsene così, allo scoperto per sfidarci.»
Una coppia in dolcevita fissava torva l’obiettivo a pagina nove. I due dichiaravano di essere a capo della più grande congrega di streghe di Saffron Walden, e di essere capaci di restituire a chiunque la potenza sessuale grazie, all’uso di certe bamboline molto falliche. Il quotidiano offriva dieci bambole ai lettori che avessero spedito alla redazione i migliori “Aneddoti imbarazzanti sull’impotenza”. Newt ritagliò l’articolo e lo incollò su un quaderno.
Si sentì qualcuno bussare piano alla porta.
Newt aprì; vi trovo un’altra pila di quotidiani. «Levati, Soldato Pulsifer» abbaiò una voce facendosi largo nella stanza. I giornali caddero a terra, rivelando così il Sergente Shadwell, che tossiva di dolore e riaccendeva la sigaretta che si era spenta.
«Devi dargli un’occhiata. È uno di loro» disse.
«Chi, signore?»
«Riposo, Soldato. Lui. Quel piccoletto marroncino. Il cosiddetto signor Rajit. Le terribili arti straniere. Il rubino dell’occhio del piccolo dio giallo. Donne con troppe braccia. Streghe, tutte quante.»
«Però ci lascia i giornali gratis, Sergente» replicò Newt. «E non sono nemmeno troppo vecchi.»
«E il vudù. Scommetto che fa il vudù. Sacrifica i polli a Baron Samedi. Hai presente, quel tizio alto e scuro col cappello a cilindro. Riporta indietro la gente dal regno dei morti, sì, e li costringe a lavorare nel giorno dello Sabbath. Vudù.» Shadwell tirò su col naso, assorto.
Newt cercò di immaginarsi il padrone di casa di Shadwell nei panni di un sacerdote vudù. Che il signor Rajit lavorasse anche nel giorno di riposo era ovvio. A dirla tutta, lui, la paffuta e silenziosa moglie e i paffuti e allegri figli lavoravano ventiquattro ore al giorno, feriale o festivo, sempre diligenti nel soddisfare le esigenze del quartiere in materia di bibite, pane, tabacco, dolci, quotidiani, riviste, e il genere di pornografia da scaffale più alto, al cui pensiero Newt aveva gli occhi lucidi. La cosa peggiore che ci si potesse aspettare dal signor Rajit, alle prese con un pollo, era che lo vendesse dopo la data di scadenza.
«Ma credo che Rajit venga dal Bangladesh, o dall’India» disse Newt. «Se non sbaglio il vudù proviene dalle Indie Occidentali.»
«Ah» esclamò il Sergente Shadwell, e aspirò dalla sigaretta. Forse. Newt non era mai riuscito a scorgere le sigarette del suo superiore, forse per come le teneva nascoste nel palmo della mano. Addirittura, riusciva a farne sparire i mozziconi quando le finiva. «Ah.»
«Be’, non è così?»
«Saggezza occulta, marmocchio. Segreti militari dell’esercito dei Cacciatori di Streghe. Dopo l’iniziazione, sarai introdotto alla verità nascosta. Certi vudù verranno anche dalle Indie Occidentali, questo te lo concedo. Oh, sì, questo te lo concedo. Ma il tipo peggiore. Il tipo più oscuro, quello arriva, ehm…»
«Dal Bangladesh?»
«Ugh! Certo, marmocchio! Mi hai tolto le parole di bocca. Del Bangladesh. Esatto.»
Shadwell fece scomparire la cicca della sua sigaretta, e riuscì furtivamente a rollarne un’altra, tenendo nascoste sia le cartine sia il tabacco.
«E allora. Trovato qualcosa, recluta?»
«Be’, c’è questo.» Newton estrasse il ritaglio di giornale.
Shadwell strabuzzò gli occhi. «Oh, quelli» disse. «Un mucchio di spazzatura. Quei farabutti hanno il coraggio di chiamarsi streghe? Li ho controllati l’anno scorso. Sono andato laggiù con la mia corazza di virtù e un pacchetto di carbonella, ho forzato la serratura con un piede di porco, ma il posto era immacolato. Cercano di risollevare la vendita per corrispondenza di gelatina d’api. Un mucchio di spazzatura. Non riconoscerebbero uno spirito familiare nemmeno se gli masticasse l’orlo dei pantaloni. Spazzatura. Non è più come una volta, marmocchio.»
Si sedette e si versò una tazza di tè dolce da un thermos lurido.
«Ti ho mai raccontato come mi sono arruolato, io?» chiese.
Newt lo prese come un invito a sedersi. Scosse la testa. Shadwell si accese la sigaretta rollata con un Ronson derelitto, e tossì in segno di apprezzamento.
«Fu il mio compagno di cella. Il Capitano Ffolkes, Cacciatore di Streghe. Dieci anni per incendio doloso. Aveva bruciato una congrega di streghe a Wimbledon. Le avrebbe anche prese tutte, se non avesse sbagliato giorno. Bravo ragazzo. Mi raccontò della battaglia… la grande guerra tra Paradiso e Inferno… fu lui a rivelarmi i segreti dell’Esercito dei Cacciatori di streghe. I demoni familiari. I capezzoli. Tutto il resto… Sapeva che stava per morire, capisci. Doveva trovare qualcuno che continuasse la tradizione. Come per te, adesso…» scosse il capo. «Ecco a cosa mi sono ridotto, marmocchio» disse. «Poche centinaia di anni fa, vedi, noi eravamo potenti. Una barriera tra il mondo e l’oscurità. La sottile linea rossa. Sottile linea rossa di fuoco, ecco.»
«Pensavo che le chiese…» fece per dire Newt.
«Ohibò!» disse Shadwell. Newt aveva sempre, e solo, letto un’esclamazione del genere, questa era la prima volta che la sentiva pronunciare da qualcuno. «Le chiese? Cos’hanno mai fatto di buono? Non sono buone a niente, neanche loro. Gira e rigira, gli interessi sono sempre gli stessi. Non puoi sperare che si sbarazzino del Male, perderebbero tutto il loro interesse. Se vai a caccia di tigri, non vorrai che i tuoi compagni di viaggio le affrontino buttandogli bistecche in bocca. No, marmocchio. È compito nostro. Lottare contro l’oscurità.»
Per un istante tutto tacque.
Newt cercava sempre di esaltare il lato migliore delle persone, ma già pochissimo tempo dopo il suo arrivo all’Esercito dei Cacciatori si era reso conto che la mente del suo unico superiore e commilitone era stabile come una piramide capovolta. “Pochissimo tempo dopo”, in quel caso, significava meno di cinque secondi. Il quartier generale dell’Esercito era una stanza fetida dai muri color nicotina, di cui erano impregnati, e dal pavimento color cenere, da cui era ricoperto. Per terra c’era un tappetino quadrato. Newt evitava di calpestarlo, perché ogni volta gli risucchiava le scarpe.
Appesa a una parete campeggiava una mappa ingiallita delle Isole Britanniche, con qualche bandierina fatta a mano, attaccata qui e là; la maggior parte dei luoghi segnalati era raggiungibile con un biglietto di corsa semplice, andata e ritorno.
Eppure, di settimana in settimana, Newt si era affezionato a quel luogo, perché, ecco, il gusto per l’orrido era diventato compassione e, infine, disgustato affetto. Shadwell non era che un ometto alto un metro e mezzo con indosso abiti che, qualsiasi cosa fossero, la memoria breve trasformava sempre in un vecchio impermeabile. L’unica ragione possibile per cui il vecchio aveva ancora i denti era che nessuno li avrebbe mai voluti; uno solo, messo sotto il cuscino, avrebbe costretto alle dimissioni qualsiasi fatina.
Pareva che potesse campare solo di tè dolce, latte condensato, sigarette rollate a mano, e una sorta di astiosa vitalità interna. Shadwell aveva una Causa, che seguiva con tutte le risorse del suo animo e del suo Abbonamento Ridotto Pensionati. Ci credeva. Gli dava la stessa energia di una turbina.
Newton Pulsifer non aveva mai avuto una causa in vita sua. Né, per quanto si ricordasse, aveva mai creduto in niente. Si era sempre sentito in imbarazzo, perché desiderava davvero credere in qualcosa, dal momento che riteneva le fede il salvagente migliore per attraversare le profonde acque della Vita. Gli sarebbe piaciuto credere in un Dio supremo, anche se prima di prendere l’impegno avrebbe preferito farci una chiacchierata, giusto per chiarire un paio di questioni. Aveva frequentato ogni genere di chiesa, in attesa di quel particolare lampo di luce blu che, in realtà, non era mai arrivato. Poi aveva provato a diventare ufficialmente ateo, ma non era riuscito a dimostare né la resistenza granitica e riflessiva, né la fiducia necessarie per esserlo. Ogni partito politico gli era sembrato disonesto quanto gli altri. L’ecologia l’aveva abbandonata quando il settimanale specializzato a cui era abbonato aveva pubblicato il progetto di un giardino autosufficiente, piazzando la capra ecologica a un paio di metri dall’alveare ecologico. Newt aveva trascorso molto tempo nella casa di campagna di sua nonna e sapeva una cosa o due riguardo alle abitudini di capre e api, e pertanto concluse che il settimanale era diretto da un branco di maniaci in salopette. I quali, tra l’altro, utilizzavano troppo spesso la parola “comunità”; Newt aveva sempre sospettato che chi utilizzava il termine così di frequente intendesse una “comunità” molto specifica, dalla quale sia lui che le sue conoscenze erano esclusi.
Poi aveva tentato di credere nell’Universo, che gli parve un’idea abbastanza solida finché non iniziò a leggere, ignaro, libri che avevano nei titoli parole come “caos”, “tempo” o “quantistico”. Scoprì che neanche chi, con l’universo, come dire, ci lavorava, credeva fino in fondo alla sua esistenza, e anzi era piuttosto orgoglioso di non sapere cosa fosse né se la sua validità teorica fosse certa.
E per la mente tutta d’un pezzo di Newt questo era intollerabile.
Non aveva mai creduto nei Lupetti, né, quando fu più grande, negli Scout.
Era ben disposto a credere, invece, che il suo incarico di impiegato dell’ufficio Retribuzioni alla Holdings (Holdings) Spa fosse probabilmente il lavoro più noioso del mondo.
Ecco una descrizione dell’uomo Newton Pulsifer: se fosse entrato in una cabina telefonica per cambiarsi, ne sarebbe uscito, al massimo, Clark Kent.
Eppure, Newt scoprì che in fondo Shadwell gli piaceva. Adirla tutta, con suo grande fastidio, Shadwell era simpatico a molti. Piaceva ai Rajit, perché non era mai troppo in ritardo con l’affitto, non combinava guai e il suo razzismo era talmente torvo e qualunquista da risultare quasi inoffensivo; in poche parole, Shadwell odiava il mondo intero, senza distinzioni di casta, colore o credo, e non avrebbe fatto eccezioni per nessuno.
Piaceva a Madame Tracy. Newt era rimasto sorpreso nello scoprire che l’inquilina della stanza adiacente alla loro era una donna di mezza età dall’indole materna, e che i gentiluomini che la frequentavano lo facevano più per una tazza di tè e una bella chiacchierata che per le discipline particolari di cui lei ancora vantava la padronanza. A volte, in certi sabati sera passati con una mezza pinta di Guinness in mano, Shadwell si piazzava in mezzo al corridoio che li separava e urlava cose come «Puttana di Babilonia!», appellativo, questo, da cui, in realtà, Newt sapeva, lei si sentiva piuttosto gratificata, anche se il luogo più vicino a Babilonia in cui fosse mai stata era Torremolinos. Era una specie di pubblicità gratuita, diceva.
Madame Tracy raccontò anche che non le importava granché che Shadwell prendesse a pugni la parete o la insultasse, durante le sedute pomeridiane. Ormai aveva le ginocchia fuori uso, e non era più abile a manovrare il tavolino, diceva, così qualche colpetto e qualche rimbombo le facevano soltanto comodo.
Ogni domenica, Madame Tracy lasciava sulla porta di Shadwell una porzione del proprio pasto, coperta da un piatto per non farla raffreddare.
Non si poteva non voler bene a Shadwell, diceva. Eppure, per come la ricambiava lui, sarebbe stata la stessa cosa se si fosse messa a lanciare tozzi di pane in un buco nero.
Newt si ricordò degli altri ritagli. Li dispose sulla scrivania piena di macchie.
«Queste cosa sono?» chiese Shadwell, con sospetto.
«Fenomeni imperscrutabili» disse Newt. «Lei mi ha raccomandato di tenerli d’occhio. Temo che di questi tempi ci siano più fenomeni imperscrutabili che streghe.»
«Qualcuno ha sparato un proiettile d’argento a un coniglio, e il giorno dopo un suo compaesano zoppica?» chiese speranzoso Shadwell.
«No, mi dispiace.»
«Mucche stramazzate a terra dopo che una donna le ha squartate?»
«No.»
«E allora che c’è?» chiese Shadwell. Ciondolò fino all’appiccicosa credenza marrone e ne estrasse una scodella di latte condensato.
«Strani accadimenti» disse Newt.
Ci aveva lavorato per settimane. Shadwell aveva davvero accumulato carta su carta, senza badarci. Certi giornali erano vecchi di anni. Newt aveva una buona memoria, forse perché in tutti i suoi ventisei anni di vita non gli era successo granché di memorabile, ed era diventato piuttosto esperto di determinati argomenti, più o meno esoterici che fossero.
«Sembra che ogni giorno ci sia una novità» disse Newt, sfogliando a caso i ritagli rettangolari. «Sono successe cose assurde alle centrali nucleari, e nessuno riesce a capirci nulla. E c’è qualcuno che sostiene che il Continente Perduto di Atlantide sia tornato alla luce.» Sembrava fiero del proprio operato.
Il coltellino di Shadwell punzecchiava la scodella del latte condensato. Si udì lo squillo distante di un telefono. I due lo ignorarono, istintivamente. Di solito le telefonate erano tutte per Madame Tracy, e alcune non erano destinate a orecchio maschile; Newt aveva coscenziosamente risposto al telefono solo durante il primo giorno di lavoro, aveva ascoltato la domanda, risposto «Mutande Marks and Spencer’s, cento per cento cotone» e si era sentito sbattere il telefono in faccia.
Shadwell fece un profondo risucchio. «Ach, questi non sono proprio imperscrutabili. Non ci vedo dietro nessuna strega. Più che altro loro le fanno affondare, le cose, capisci.»
Newt cercò di dire qualcosa senza riuscirci, più di una volta.
«Se vogliamo essere forti, nella lotta contro la stregoneria, non possiamo farci distrarre da questo genere di cose» continuò Shadwell. «Non abbiamo niente di più stregonesco?»
«Ma le truppe americane sono sbarcate ad Atlantide per proteggerla» si lamentò Newt. «Un continente inesistente…»
«Ci hanno trovato delle streghe?» chiese Shadwell, mostrando per la prima volta una scintilla di interesse.
«Qui non lo dice» rispose Newt.
«Ach, allora è solo un problema di politica e geografia» minimizzò Shadwell.
Dalla porta spuntò la testa di Madame Tracy. «Cucù, signor Shadwell» disse, salutando Newt con un gesto amichevole. «Un gentiluomo al telefono per lei. Buondì, signor Newton.»
«Via di qui, brutta baldracca» rispose Shadwell automaticamente.
«Sembra una persona raffinata» disse Madame Tracy, facendo finta di nulla. «Dice che ci regalerà un bel pezzo di fegato per la cena di sabato.»
«Piuttosto vado a cena con il diavolo, donna.»
«Perciò, se fosse così gentile da restituirmi i piatti della settimana scorsa sarebbe perfetto, su, faccia il bravo, caro» aggiunse Madame Tracy, dopodiché zampettò insicura sui tacchi fino alla sua stanza, per riprendere qualsiasi attività avesse interrotto.
Newt abbassò gli occhi sui ritagli, con aria sconsolata, mentre Shadwell usciva dalla stanza, brontolando, diretto al telefono. C’era un articolo sulle pietre di Stonehenge che avevano cambiato posizione, come pezzi di ferro in un campo magnetico.
Senza prestarvi molta attenzione, Newt seguì la conversazione telefonica.
«Chi? Ah. Sì. Sì. Che dice? Che cosa sarebbe? Sì. Come dice lei, signore. E dove si trova questo posto…?»
Ma gli spostamenti delle pietre non erano il campo di Shadwell. Meglio quelli del latte condensato nella scodella.
«Bene, bene» disse Shadwell, con voce rassicurante. «Ci mettiamo subito al lavoro. Sceglierò i miei uomini migliori e vi annuncerò il successo quanto prima, senza dubbio. A rivederla, signore. E Dio la benedica, signore.» Si sentì il rumore della cornetta riappesa, e poi la voce di Shadwell, non più reverente e metaforicamente inginocchiata, disse : «Mamma mia! Quella checca del sud».d
Si trascinò dentro la stanza, e fissò Newt come se si fosse dimenticato il motivo della sua presenza.
«Cos’è che dicevi?» chiese.
«Tutto quello che succede…» iniziò Newt.
«Sì.» Shadwell continuò a guardarlo senza attenzione mentre si picchiettava pensieroso la ciotola del latte contro i denti.
«Be’, c’è una cittadina in cui negli ultimi anni le condizioni meteorologiche sono state davvero strane» proseguì Newt disperato.
«Cosa? Sono piovute rane o robe del genere?» chiese Shadwell, illuminandosi un poco.
«No. Solo il tempo giusto in ogni stagione.»
«E questo ti sembra imperscrutato?» chiese Shadwell. «Io ho visto cose imperscrutabili che ti farebbero rizzare i peli, marmocchio.» Ricominciò a picchiettare.
«Si ricorda dell’ultima volta che c’è stato il tempo giusto nella stagione giusta?» chiese Newt, un po’ scocciato. «La temperatura giusta al momento giusto non è una cosa normale, Sergente. Vuol dire neve a Natale. Quando è stata l’ultima volta che è nevicato, a Natale? E un agosto lungo e caldo? Ogni anno? Gli autunni freddi ma assolati? Il genere di stagione che si sogna da piccoli? Mai una goccia di pioggia il cinque novembre e sempre neve la vigilia di Natale?»
Gli occhi di Shadwell sembravano incapaci di mettere a fuoco. Fece una pausa, con la scodella del latte tra un labbro e l’altro.
«Quando ero piccolo non sognavo mai nulla» disse piano.
Newt si accorse che stava scivolando in modo pericoloso all’interno di una buca profonda e poco accogliente. Mentalmente, fece retromarcia.
«Però è così strano» disse. «L’uomo delle previsioni qui tenta di spiegare il tutto parlando di medie, norma, microclimi e cose del genere.»
«Che significa?» chiese Shadwell.
«Significa che non ci capisce niente» disse Newt, per cui gli anni trascorsi ai margini del terziario non erano passati invano. Guardò il Sergente di sottecchi.
«Le streghe sono note per la loro influenza sul clima» disse svelto. «L’ho trovato sulla “Discouverie”.»
Oh Dio, pensò, o qualunque altra entità faccia al caso mio, non lasciare che io passi un’altra serata a ritagliare giornali in questa stanza portacenere. Fai che io possa uscire all’aria aperta. Consentimi di fare qualsiasi cosa equivalga, per l’Esercito, allo sci d’acqua in Germania.
«Dista solo sessanta chilometri da qui» suggerì. «Potrei farci un salto domani. E dare un’occhiata, ha presente? La benzina la pago io» aggiunse.
Shadwell si asciugò il labbro superiore.
«Questo posto» chiese «non si chiamerà mica Tadfield, vero?»
«Sì, signor Shadwell» rispose Newt. «Come fa a saperlo?»
«A che razza di gioco starà giocando quel maledetto meridionale, adesso…” disse Shadwell tra sé. «Beeene» riprese ad alta voce. «Perché no?»
«Chi gioca a cosa, Sergente?» chiese Newt.
Shadwell lo ignorò. «Sì. Immagino che non ci sia pericolo. Hai detto che la benzina la paghi tu?»
Newt annuì.
«Allora presentati qui domattina alle nove» concluse, «prima di partire.»
«Per quale ragione?» chiese Newt.
«La tua corazza di virtù.»
Poco dopo, Newt lasciò di nuovo squillare il telefono. Stavolta era Crowley, che diede istruzioni più o meno identiche a quelle di Azraphel. Shadwell se le appuntò solo per una questione di forma, mentre Madame Tracy gli svolazzava intorno allegra.
«Due telefonate in un giorno, signor Shadwell» disse. «La marcia del suo piccolo esercito dev’essere spedita, eccome!»
«Ach, vade retro, megera ribalda tentatrice» borbottò Shadwell, sbattendo la porta. Tadfield, pensò. Uch, beeene. Basta che paghino puntuali…
Né Azraphel né Crowley erano a capo dell’Esercito dei Cacciatori di Streghe, ma entrambi lo sostenevano, o, quantomeno, ritenevano che i loro superiori lo avrebbero appoggiato. Appariva nella lista di agenzie di copertura di Azraphel perché cacciava le streghe, e sostenere gli antistreghe era obbligatorio quanto, per gli Usa, sostenere gli anticomunisti. Figurava sulla lista di Crowley per ragioni leggermente più complesse, e cioè perché individui come Shadwell erano totalmente innocui per la causa del Male. Anzi, proprio il contrario.
Tecnicamente parlando, nemmeno Shadwell era a capo dell’Esercito. Secondo i libri contabili, il capo era il Generale Smith. I suoi vice erano i colonnelli Green e Jones, e i maggiori Jackson, Robinson e Smith (nessuna parentela). C’erano anche i maggiori Casseruola, Padella, Latte e Credenza, perché a quel punto l’immaginazione limitata di Shadwell aveva iniziato a cedere. E poi i capitani Smith, Smith, Smith, Smythe e Idem. E altri cinquecento soldati semplici, caporali e sergenti. Si chiamavano per lo più Smith, ma poco importava, dato che né Crowley né Azraphel si preoccupavano di leggere fino a quel punto del registro. Si limitavano a consegnargli le paghe.
I due gli rendevano, in totale, sessanta sterline all’anno.
Shadwell non lo considerava un imbroglio. L’Esercito era un impegno sacro, e un uomo doveva pur fare qualcosa per mantenerlo. In fondo, non si poteva più permettere nove pence alla volta, come ai vecchi tempi.