Alle dieci e mezza circa, il ragazzo dei giornali depositò i quotidiani della domenica sulla porta del Jasmine Cottage. Dovette fare tre viaggi.

La serie di colpi sullo zerbino svegliò Newton Pulsifer.

Lasciò dormire Anatema. Era davvero a pezzi, povera piccola. Quando l’aveva messa a letto sembrava fuori di sé. Aveva vissuto ogni giorno seguendo le Profezie, e ora le Profezie erano finite. Doveva sentirsi come un treno che avanzava su un binario morto.

D’ora in poi, avrebbe imparato ad affrontare la vita tenendo conto delle sorprese, come tutti. Che fortuna.

Il telefono squillò.

Newt corse in cucina e sollevò la cornetta al secondo squillo.

«Pronto?» disse.

Una voce forzatamente amichevole e disperata farfugliò qualcosa.

«No» rispose, «non sono io. E non è Devisse, è Device. Come in “Nice”. Sta dormendo.»

«Be’» disse, «sono abbastanza sicuro che non sia interessata all’ultimo ritrovato per l’isolamento delle intercapedini. O ai doppi vetri. Voglio dire, non è lei la proprietaria, ecco. È in affitto.»

«No, non ho intenzione di svegliarla per chiederglielo» aggiunse. «E mi dica, signorina, ehm… sì, signorina Morrow, perché la domenica non si prende un giorno libero, come chiunque altro?»

«Domenica» disse. «Certo che non è sabato. Perché dovrebbe essere sabato? Sabato era ieri. Giuro che oggi è domenica, davvero. Cosa dice, che ha perso un giorno? Non capisco. Secondo me le telefonate le hanno un po’ preso… pronto?»

Grugnì qualcosa, e riattaccò.

Piazzisti telefonici! Si meritavano le pene dell’Inferno.

Fu assalito da un dubbio momentaneo e improvviso. Quel giorno era domenica, no? Uno sguardo ai quotidiani lo rassicurò. Se quelli del “Sunday Times” dicevano che era domenica, era sicuro che fosse così. E il giorno prima era stato sabato. Certo. Era stato sabato, e non si sarebbe dimenticato quel sabato per tutto il resto della sua vita, se solo si fosse ricordato perché non avrebbe dovuto dimenticarsene.

Dato che era in cucina, Newt decise di preparare la colazione.

Si mosse cercando di non fare rumore, per non svegliare l’intera casa, ma ogni suono che produceva gli sembrava amplificato. La porta del frigorifero d’epoca si chiuse con un oscuro rombo di tuono. Il lavandino gocciolava come un gerbillo incontinente, ma l’effetto sonoro pareva quello di un geyser. E Newt non trovava nulla. Alla fine, come tutti gli esseri umani che dall’inizio dei tempi si ritrovano a fare colazione da soli nella cucina di qualcun altro,a si accontentò di una tazza di caffè solubile, senza zucchero.

Sul tavolo della cucina c’era un tizzone vagamente rettangolare, rilegato in pelle. Leggibili a malapena, sulla copertina bruciacchiata, erano le lettere “Be le e Acc”. Come cambiavano le cose da un giorno all’altro, pensò Newt. Poche ore per passare da guida definitiva a mero residuo di barbecue.

Bene, allora. Com’era arrivato fin lì? Si ricordava di un uomo che puzzava di fumo e indossava gli occhiali scuri anche al buio. E c’erano altre cose che si confondevano… ragazzini in bicicletta… un ronzio fastidioso… un visino assorto che fissava qualcosa… Tutte immagini che vagavano nella sua mente, non del tutto dimenticate ma sempre e soltanto prossime a essere rammentate, come il ricordo di qualcosa che non era accaduto.b Com’era possibile?

Si sedette a fissare il muro, finché il rumore di qualcuno che bussava alla porta non lo riportò sulla terra.

Sulla porta di casa c’era un ometto azzimato e vivace, con indosso un impermeabile nero. Portava con sé una scatola di cartone e salutò Newt con un ampio sorriso.

«Il signor…» consultò un biglietto che teneva in mano «… Pulzifer?»

«Pulsifer» rispose Newt. «Con la “esse” sorda.»

«Mi scusi tanto» rispose l’uomo. «Non l’ho mai sentito pronunciare. Be’. Dunque. Si direbbe che questo pacco sia per lei e per la signora Pulsifer.»

Newt lo fissò senza capire.

«Non c’è nessuna signora Pulsifer» rispose freddo.

L’uomo si tolse la bombetta.

«Oh, sono davvero addolorato» si scusò.

«Voglio dire… be’, ci sarebbe mia madre» disse Newt. «Ma non è morta, è a Dorking. Io non sono sposato.»

«Strano. Eppure la lettera sembra molto, ehm, precisa.»

«Lei chi è?» domandò Newt. Aveva indosso solo i pantaloni, e fuori faceva fresco.

L’uomo tenne goffamente in equilibrio la scatola e pescò un biglietto da visita dal taschino della giacca. Lo offrì a Newt.

GILES BADDICOMBE

Studio legale Robey, Robey, Redfearn e Bychance

13, Demdyke Chambers,

PRESTON

«Sì?» chiese educato. «E in cosa posso esserle utile, signor Baddicombe?»

«Potrebbe farmi entrare», rispose Baddicombe.

«Lei non è qui per eseguire un mandato, vero?» chiese Newt. Gli eventi della notte precedente gravavano sulla sua memoria come una nube, in costante mutamento anche quando gli sembrava di distinguere una forma, e Newt non riuscì a scacciare la vaga sensazione di avere rotto qualcosa, la sera prima, che avrebbe dovuto in qualche modo ripagare.

«No» rispose Baddicombe, un po’ infastidito. «Abbiamo altre persone che se ne occupano.»

Passò oltre Newt e depositò la scatola sul tavolo.

«A essere onesti» aggiunse, «siamo tutti molto interessati a questa faccenda. Il signor Bychance in persona avrebbe voluto essere presente, ma di questi tempi non viaggia molto volentieri.»

«Senta» lo interruppe Newt, «io non ho davvero la minima idea di quel che lei sta dicendo.»

«Questo» disse il signor Baddicombe, mostrando la scatola e illuminandosi come avrebbe fatto Azraphel nell’eseguire un gioco di prestigio, «è suo. Qualcuno ha voluto che lei lo ricevesse. E quel qualcuno è stato molto preciso.»

«Un regalo?» chiese Newt. Studiò con fare circospetto la scatola di cartone chiusa con il nastro adesivo, e poi rovistò nel cassetto della cucina in cerca di un coltello affilato.

«Più che altro, credo si tratti di un’eredità» disse il signor Baddicombe. «Vede, l’abbiamo in custodia da trecento anni. Mi scusi. Ho detto qualcosa di inopportuno? Forse è meglio che lo tenga sotto l’acqua corrente.»

«Che diavolo significa tutto questo?» sbottò Newt, assalito da un sospetto agghiacciante. Si succhiò il taglio sul dito.

«È una storia strana. Le dispiace se mi siedo? Naturalmente non ne conosco i particolari perché lavoro per lo studio da soli quindici anni, ma…»

… Quando il pacco fu consegnato, con molta cura, quello era ancora un minuscolo studio legale; Redfearn, Bychance e i due Robey, per non dire del signor Baddicombe, erano ancora di là da venire. Il giovane contabile in carriera che aveva ricevuto il pacchetto fu sorpreso di trovarvi, legata con dello spago in cima alla scatola, una lettera indirizzata proprio a lui.

Conteneva determinate istruzioni, e cinque fatti interessanti della storia dei dieci anni successivi, i quali, se sfruttati da un giovane talentuoso, gli avrebbero assicurato soldi a sufficienza per intraprendere una carriera ricca di successi nel campo legale.

Doveva solo fare in modo che la scatola fosse ben custodita per poco più di trecento anni, e poi spedita a un certo indirizzo…

«… per quanto, ovviamente, lo studio sia passato più volte di mano nel corso dei secoli» concluse il signor Baddicombe. «La scatola, tuttavia, ha sempre fatto parte dei beni immobili, come doveva.»

«Non immaginavo che producessero già omogeneizzati Heinz, nel XVII secolo» disse Newt.

«Questa l’ho usata solo per non danneggiare nulla, durante il viaggio in auto» chiarì Baddicombe.

«E in tutti questi anni nessuno ha aperto la scatola?» chiese Newt.

«Solo in un paio di circostanze, mi pare» rispose Baddicombe. «Il signor George Cranby, nel 1757, e il signor Arthur Bychance, padre dell’attuale signor Bychance, nel 1928.» Tossì. «A quanto pare il signor Cranby ci trovò una lettera…»

«… indirizzata proprio a lui» concluse Newt.

Il signor Baddicombe saltò sulla sedia. «Oddio. Come faceva a saperlo?»

«Riconosco lo stile» disse Newt, sconsolato. «Cosa è successo a chi ha aperto la scatola?»

«Ne ha già sentito parlare?» chiese sospettoso il signor Baddicombe.

«Non così diffusamente. Non saranno saltati per aria, vero?»

«Be’… il signor Cranby fu stroncato da un attacco di cuore, così dicono. E il signor Bychance impallidì, rimise la lettera nella busta, per quel che ne so, e impartì istruzioni molto rigide, ordinando che la scatola non fosse più aperta per il resto della sua vita. Disse che chiunque ci avesse provato sarebbe stato licenziato senza referenze.»

«Minaccia tremenda» commentò, sarcastico, Newt.

«Nel 1928 lo era. Comunque, le lettere sono ancora nella scatola.»

Newt aprì l’involucro di carta.

Conteneva una cassetta di ferro. Senza lucchetto.

«Vada avanti, la tiri fuori» disse agitato il signor Baddicombe. «Devo confessarle che sono molto curioso anche io di conoscerne il contenuto. Ci abbiamo anche scommesso, in ufficio…»

«Le dico una cosa» propose generoso Newt. «Io faccio un po’ di caffè per entrambi, e lei apre la scatola.»

«Io? Crede sia il caso?»

«Non vedo perché no.» Newt diede un’occhiata alle casseruole appese sopra i fornelli. Una era grande a sufficienza per quel che aveva in mente.

«Avanti» disse. «Faccia pure. Non mi interessa. Lei… lei dovrebbe essere protetto dalla legge, o qualcosa del genere.»

Il signor Baddicombe si sfilò il soprabito. «Be’» disse, torcendosi le mani, «se la mette così… sarà qualcosa da raccontare ai miei nipotini.»

Newt afferrò una casseruola e posò la mano, con delicatezza, sulla maniglia della porta d’ingresso. «Lo spero» aggiunse.

«Ecco qui.»

Newt sentì un debole scricchiolio.

«Cosa vede?» chiese.

«Ci sono le due lettere aperte… oh, e una terza… indirizzata a…»

Newt avvertì il rumore impercettibile di un sigillo di cera che veniva rimosso, seguito dal tonfo di qualcosa posato sul tavolo. Poi sentì un colpo di tosse, una sedia che sbatteva per terra, dei passi che si affrettavano nell’atrio, una portiera sbattuta, e il ringhio del motore di un’auto che sfrecciava a tutta velocità lungo il vialetto.

Newt si tolse la casseruola dalla testa e sbucò da dietro la porta.

Prese la lettera, e non fu del tutto sorpreso di scoprire che era indirizzata al signor G. Baddicombe. La aprì.

Ecco cosa c’era scritto: “Ecco un fiorino, avvocato; ora, corri ƒvelto, o il mondo ƒaprà la verità su di te e sulla ƒerva Spiddon, la ƒchiava della macchina per ƒcrivere”.

Newt osservò le altre lettere. La carta stropicciata di quella indirizzata a George Cranby diceva: “Tieni lontana la tua mano di ladro, Maƒtro Cranby. So bene come hai truffato la Vedova Plashkin nell’ultima feƒta di San Michele, brutto piccolo vecchio ruba-dolcezze”.

Newt si chiese cosa fosse un ruba-dolcezze. Era incline a ritenere che non avesse nulla a che fare con la pasticceria.

Quella che spettava al curioso signor Bychance recitava: “Li hai lasciati, o codardo. Rimetti queƒta lettera nella ƒcatola, o il mondo conoscerà gli eventi del ƒette giugno, mille novecento ƒedici.”

Sotto le lettere c’era un manoscritto. Newt rimase, per un attimo, a guardarlo.

«Quello cos’è?» chiese Anatema.

Newt si voltò. La ragazza era in piedi sulla soglia della cucina, come un attraente sbadiglio con le gambe.

Newt si avvicino al tavolo. «Oh, niente. Indirizzo sbagliato. Niente. Solo una vecchia scatola. Posta spazzatura. Hai presente…»

«Di domenica?» chiese lei, scostando Newt con un gesto.

Lui si strinse nelle spalle mentre Anatema prendeva tra le mani il manoscritto ingiallito e lo estraeva dalla scatola.

«Le Nuove belle e accurate profezie di Agneƒ Nutter» lesse lentamente. «Riguardanti il Mondo che Verrà; La Saga Continua! Oh, cielo…»

Posò il libro con reverenza sul tavolo e ne sfogliò la prima pagina.

Newt appoggiò dolcemente una mano sulla sua.

«Prova a vederla così» bisbigliò. «Vuoi essere una discendente per il resto dei tuoi giorni?»

Lei alzò gli occhi. I loro sguardi si incontrarono.

Erano le undici e mezza circa di domenica mattina, il primo giorno del resto del mondo.

St James Park era tranquillo, rispetto al solito. Le anatre, che si cibavano di pane come di Realpolitik, ne attribuirono la causa a una diminuzione delle tensioni internazionali. C’era stata davvero una diminuzione delle tensioni internazionali, in effetti, ma negli uffici di mezzo mondo decine e decine di esperti stavano tentando di capire perché, e perché Atlantide fosse scomparsa nel nulla assieme alle tre delegazioni internazionali che la stavano visitando, e perché il giorno prima i loro computer avessero subito un totale blackout.

Il parco era deserto, a eccezione di un membro dell’MI9 impegnato ad arruolare un uomo che in seguito, con grande imbarazzo di entrambi, si rivelò essere un altro membro dell’MI9, oltre che un signore alto e distinto che dava da mangiare alle anatre.

C’erano anche Crowley e Azraphel.

Camminavano fianco a fianco sull’erba.

«La stessa cosa vale per me» disse Azraphel. «Il negozio è integro. Ci è rimasta giusto una macchia di cenere.»

«Voglio dire, non si può fare una vecchia Bentley dal nulla» disse Crowley. «Non puoi riprodurne la patina. Eppure era lì, viva e vegeta. Parcheggiata giù in strada. Identica a com’era prima.»

«Be’, io qualche differenza l’ho notata» precisò Azraphel. «Sono sicuro di non avere mai avuto in magazzino titoli come Biggles vola su Marte o Jack Cade, eroe della frontiera, oppure 101 passatempi per ragazzi e I cani sanguinosi del mare di teschi.»

«Caspita, mi rincresce» disse Crowley, che sapeva quanto la collezione di libri fosse preziosa per l’angelo.

«Non preoccuparti» ribatté Azraphel. «Si tratta di prime edizioni perfettamente conservate, ho dato un’occhiata alla guida dei prezzi di Skindle. Credo che la frase più appropriata sia ya-hooo!»

«Pensavo che avrebbe sistemato il mondo esattamente com’era prima» disse Crowley.

«Sì» confermò Azraphel. «Più o meno. Per quanto gli è possibile. E poi, anche lui ha un senso dell’umorismo.»

Crowley lo guardò di sottecchi.

«Hai sentito i tuoi?» chiese.

«No. Tu?»

«No.»

«Secondo me fingono che non sia successo nulla.»

«Anche i miei, credo. Chiamala burocrazia.»

«Già. E credo che si aspettino che accada qualcos’altro» disse Azraphel.

Crowley annuì. «Una pausa per tirare il fiato» concluse. «Una possibilità per riarmare il morale. Alzare le difese. Prepararsi per il Grande Giorno.»

Si fermarono ai bordi del laghetto, a osservare le anatre alle prese con il pane.

«Come? Pensavo che il Grande Giorno fosse ieri.»

«Io non ne sono sicuro» disse Crowley. «Pensaci. Sarei pronto a scommettere che nel vero Grande Giorno saremo tutti Noi contro tutti Loro.»

«Che? Vuoi dire Paradiso e Inferno contro l’umanità?»

Crowley si strinse nelle spalle. «Certo, se lui ha cambiato tutto, forse ha cambiato anche se stesso. Magari si è liberato dei suoi poteri e ha deciso di rimanere un essere umano.»

«Oh, lo spero proprio» disse Azraphel. «D’altro canto, non credo ci sarebbero alternative. Ehm. O no?»

«Non so. Non si può mai essere certi di ciò che è stato previsto. Piani di piani.»

«Come?» chiese Azraphel.

«Be’» disse Crowley, che ci aveva pensato così a lungo da procurarsi un’emicrania, «non ci hai mai fatto caso? Hai presente: la tua gente, la mia gente, Paradiso e Inferno, Bene e Male, e tutto il resto? Voglio dire, perché?»

«Per quel che ricordo» rispose l’angelo, irrigidito, «ci fu la ribellione, e…»

«Ah, sì. E perché è accaduta, eh? Voglio dire, non era necessaria, no?» esclamò Crowley, gli occhi strabuzzati. «Chiunque sia in grado di costruire un universo in sei giorni non lascia accadere una cosa del genere. A meno che non voglia farlo apposta, questo è ovvio.»

«Oh, avanti. Un po’ di buon senso» disse Azraphel, incerto.

«Non è un buon consiglio» rispose Crowley. «Non è proprio un buon consiglio. Perché se usi il buon senso, te ne esci con delle idee davvero strambe. Del genere: perché stuzzicare la gente, e poi mettere in bella mostra un frutto proibito con una bella freccia lampeggiante sopra, e dire “ECCO QUI!”?»

«Non ricordo niente di lampeggiante.»

«È una metafora. Voglio dire, perché fare una cosa del genere se davvero non vuoi che mangino il frutto, eh? Cioè, magari vuoi soltanto stare a vedere come va a finire. Magari fa tutto parte di un grande piano ineffabile. Tutto. Io, te, lui, qualsiasi cosa. Una grande prova generale per capire se quel che hai costruito funziona bene, no? E inizi a pensare: non può essere una grande partita a scacchi cosmica, dev’essere un solitario parecchio complicato. E non preoccuparti di darmi una risposta. Se fossimo in grado di capire, non saremmo qui. Perché è tutto… tutto…»

INEFFABILE, disse l’uomo che stava allungando del cibo alle anatre.

«Sì. Giusto. Grazie.»

Fissarono lo spilungone mentre buttava un sacchetto di plastica nel cestino, e se ne andava a grandi passi per il giardino. Poi Crowley scosse la testa.

«Cosa stavo dicendo?»

«Non so» rispose Azraphel. «Niente di importante, suppongo.»

Crowley annuì mestamente. «Lasciati tentare e vieni a pranzo con me» sibilò.

Tornarono al Ritz, a cui stranamente mancava un tavolo. E può darsi che gli scombussolamenti degli ultimi giorni avessero avuto più di un riflesso sulla realtà, perché, mentre i due mangiavano, per la prima volta in assoluto, a Berkley Square si sentì cantare un usignolo.

Nessuno se ne accorse a causa del rumore del traffico, ma quel che è certo è che era lì.

Era l’una in punto di domenica.

Negli ultimi dieci anni della vita del Sergente Shadwell dell’Esercito dei Cacciatori di Streghe, i pranzi domenicali avevano seguito una routine invariabile. Si sedeva al tavolo traballante e pieno di bruciature di sigaretta, nella sua stanza, e sfogliava la vecchia copia di un libro preso in prestito dalla biblioteca di magia e demonologiac dell’Esercito: il Necrotelecomnicon, il Liber fulvarum paginarum, o il suo preferito, il Malleus maleficarum.d

Poi qualcuno avrebbe bussato alla porta, e Madame Tracy avrebbe annunciato: “Il pranzo, signor Shadwell”, e Shadwell avrebbe bofonchiato: “Svergognata scostumata”, e atteso sessanta secondi per lasciare che la svergognata scostumata rientrasse; quindi avrebbe aperto la porta e raccolto il piatto di fegato, solitamente coperto da un altro piatto per tenerlo caldo. L’avrebbe posato sul tavolo e mangiato, attento a non sgocciolare sulle pagine.e

Era sempre andata così.

A parte quella domenica, che fu diversa.

Tanto per cominciare, non stava leggendo. Era soltanto seduto.

E quando sentì bussare, Shadwell si alzò di scatto e aprì la porta. Non c’era bisogno di affrettarsi.

Non c’era nessun vassoio. C’era invece Madame Tracy, con indosso un cammeo e un’ombra di rossetto, assai poco familiare. E una nebulosa di profumo.

«Che c’è, scostumata?»

La voce di Madame Tracy era acuta, rapida e tremava per l’incertezza. «Salve, Shad, stavo giusto pensando, dopo quello che abbiamo passato negli ultimi due giorni, mi sembra sciocco lasciarle il vassoio qui davanti, così ho apparecchiato anche per lei. Avanti…»

Shad? Shadwell, incerto, la seguì.

La notte prima aveva fatto un altro sogno. Non ne ricordava nulla, a parte una frase, che riecheggiava fastidiosamente nella sua testa. Il sogno era svanito nella nebbia, come gli eventi della sera precedente.

La frase era questa: «Non c’è niente di male nella caccia alle streghe. A me piacerebbe fare il cacciatore di streghe. Però, ecco, bisogna fare a turno. Oggi andiamo a caccia, e domani tocca a noi nasconderci e le streghe ci vengono a cercare…».

Per la seconda volta in ventiquattro ore – per la seconda volta nella sua vita – si introdusse nelle stanze di Madame Tracy.

«Si sieda lì» gli disse lei, indicando una poltrona. Era abbellita da un coprischienale, un grosso cuscino, e uno sgabellino per i piedi.

Si sedette.

Gli posò un vassoio in grembo, lo guardò mentre mangiava, e quando ebbe finito lo ritirò. Poi aprì una bottiglia di Guinness, ne versò un po’ in un bicchiere e glielo offrì, e bevve qualche sorso di tè mentre lui trangugiava la sua birra scura. Quando posò la tazza, tintinnò nervosa sul piattino.

«Ho messo da parte qualche soldo» disse Madame Tracy, continuando un discorso mai iniziato, «e, vede, ogni tanto penso che mi piacerebbe comprare un piccolo bungalow da qualche parte in campagna. Lasciare Londra. Potrei chiamarlo Gli Ulivi, o Dunroamin, o… o…»

«Shangri-La» suggerì Shadwell, e che fosse maledetto se sapeva perché.

«Esatto, Shad. Esatto. Shangri-La.» Gli sorrise. «Sei comodo, caro?»

Shadwell si accorse con orrore di essere comodo. Di una comodità terribile, appunto, orrenda. «Già» rispose, brusco. Non era mai stato così comodo.

Madame Tracy stappò un’altra bottiglia di Guinness e gliela allungò.

«Ci sarebbe solo un problema, se avessi un bungalow chiamato… qual era il suggerimento, Shad?»

«Uh. Shangri-La.»

«Shangri-La, certo, ecco, non sarebbe così bello viverci da sola, no? Cioè, dicono che tra vivere in due e vivere da soli c’è poca differenza, in termini economici.»

(O tra vivere da soli e vivere in cinquecentodiciotto, pensò Shadwell, ripensando a tutti gli stipendiati dell’Esercito.)

Lei si lasciò scappare una risatina. «Chissà se da qualche parte c’è qualcuno con cui potrei…»

Shadwell si rese conto che era a lui che si riferiva.

Ma non ne era del tutto sicuro. Aveva la netta sensazione che l’avere lasciato il soldato semplice Pulsifer con quella ragazza a Tadfield non fosse stata una buona mossa, soprattutto secondo il Libro delle norme e delle regole dell’Esercito. Il resto, poi, gli sembrava ancora più pericoloso.

Eppure, alla sua età, quando si è troppo vecchi per strisciare nell’erba alta, quando l’umidità del mattino ti prende le ossa…

(E domani tocca a noi nasconderci, e le streghe ci vengono a cercare…)

Madame Tracy stappò un’altra bottiglia di Guinness, e fece l’ennesimo risolino. «Oh, Shad» disse, «starai pensando che ti voglio fare ubriacare.»

Lui grugnì. C’era un’ultima formalità da espletare.

Il Sergente Shadwell tracannò un lungo e profondo sorso di Guinness, e le rivolse la domanda.

«Sul serio, vecchio sciocco» rispose lei, avvampando. «Secondo te quanti ne ho?»

Lui ripeté la domanda.

«Due» rispose Madame Tracy.

«Ah, be’. Allora va bene» rispose Shadwell, Sergente (in pensione) dell’Esercito dei Cacciatori di Streghe.

Era il pomeriggio di domenica.

Un 747 ronzava nel cielo d’Inghilterra, diretto a ovest. In prima classe, un ragazzino di nome Warlock posò il suo fumetto e guardò fuori dal finestrino.

Gli ultimi due giorni erano stati davvero strani. Non gli era ancora chiaro il perché del trasferimento di suo padre in Medio Oriente. Era abbastanza sicuro che non lo avesse capito neanche lui. Sarà stata una qualche faccenda culturale. Era successo che una banda di soggetti piuttosto ambigui con delle salviette in testa e denti marci li aveva portati a visitare delle rovine. Warlock ne aveva visitate di migliori. Poi, uno di questi soggetti gli aveva domandato se c’era qualcosa che desiderasse fare. Warlock aveva risposto di volersene andare.

I soggetti erano sembrati molto contrariati.

Ora stava tornando negli Stati Uniti. Doveva esserci stato qualche problema con i biglietti o con il volo, con l’imbarco all’aeroporto o qualcosa del genere. Che cosa buffa; in fondo era sicuro che il padre volesse tornare in Inghilterra. AWarlock l’Inghilterra piaceva. Era un bel posto per essere americani.

In quel momento, l’aereo stava sorvolando Tadfield e, in particolare, la stanza di Greasy Johnson, intento a sfogliare distrattamente una rivista di fotografia che aveva comprato solo perché in copertina aveva adocchiato la bella immagine di un pesce tropicale.

Poche pagine più avanti, si sarebbe imbattuto in un inserto sul football americano, fenomeno che stava prendendo sempre più piede in Europa. Il che era alquanto strano: perché quando la rivista era arrivata in edicola, l’inserto riguardava la fotografia nel deserto.

Gli avrebbe cambiato la vita.

Intanto, Warlock volava verso l’America. Si meritava una ricompensa – dopotutto, è impossibile dimenticare i primi amici, anche se li abbiamo conosciuti a poche ore dalla nascita – e la suprema potenza che in quel preciso istante decideva del destino di tutto il genere umano, pensava: “Be’, sta andando in America, no? Non vedo cosa ci sia di meglio dell’andare in America”.

Ci sono trentanove gusti di gelato. Forse anche di più.

C’erano un milione di cose divertenti che un ragazzo e il suo cane potevano fare, di domenica pomeriggio. Adam riusciva a pensarne anche quattro o cinquecento, senza nemmeno sforzarsi. Imprese che lo avrebbero appassionato, entusiasmato, pianeti da conquistare, leoni da domare, mondi perduti in Sudamerica popolati da dinosauri ancora da scoprire, e con cui fare amicizia.

Era seduto in giardino, scavava il terriccio con un sasso, e aveva l’aria abbattuta.

Suo padre, di ritorno dalla base aerea, lo aveva trovato addormentato, come se fosse stato a letto dalle prime ore della sera. Adam aveva anche russato, di tanto in tanto, per aggiungere un tocco di verosimiglianza.

Il mattino dopo, a colazione, fu però chiarito che tutto questo non era abbastanza. Al signor Young non aveva fatto piacere passare il sabato sera a zonzo, in una specie di caccia all’oca selvaggia. E se per qualche inimmaginabile caso fortuito, Adam non era responsabile dei fastidi della notte prima – di qualunque cosa si fosse trattato, poiché nessuno ricordava granché, a parte il fatto che c’erano stati dei fastidi – di sicuro c’era qualcos’altro di cui aveva colpa. Questo era l’atteggiamento con cui il signor Young se l’era cavata negli anni precedenti.

Adam sedeva in cortile, con il morale sotto i tacchi. Il sole di agosto risplendeva in tutto il suo fulgore nel cielo azzurro, e dietro la siepe cinguettava un tordo, benché a Adam quel suono sembrasse solamente peggiorare le cose.

Dog era acquattato ai suoi piedi. Aveva cercato con tutti i mezzi di ravvivarlo, perlopiù riesumando un osso sepolto quattro giorni prima per riportarlo al Padrone, ma Adam lo aveva ricambiato con uno sguardo talmente desolato che Dog si era ripreso l’osso e lo aveva interrato immediatamente. Più di così non poteva fare.

«Adam?»

Adam si voltò. Tre volti lo osservavano dal muretto di cinta del giardino.

«Ciao» disse Adam, senza entusiasmo.

«A Norton è arrivato il circo» disse Pepper. «Wensley era laggiù e l’ha visto. Lo stanno montando proprio adesso.»

«Ci sono delle tende, degli elefanti, dei giocolieri, e un sacco di animali quasi selvaggi e… c’è di tutto!» aggiunse Wensleydale.

«Pensavamo che magari potremmo andare laggiù e guardarli mentre montano il tendone» concluse Brian.

Per un istante, la mente di Adam si affollò di immagini circensi. Una volta montato, il circo era una noia. Bastava accendere la televisione in un giorno qualunque per imbattersi in qualcosa di meglio. Ma il montaggio… Certo che ci sarebbero andati, e li avrebbero aiutati a tirare su le tende, a lavare gli elefanti, e la gente del circo sarebbe rimasta così stupita dal naturale filin di Adam con gli animali che, quella sera stessa, Adam – e Dog, il Bastardino Ammaestrato più Famoso del Mondo – avrebbero guidato gli elefanti in pista, e…

Non era il caso.

Scosse il capo, tristemente. «Non posso uscire» disse. «L’hanno detto loro.»

Stettero in silenzio.

«Adam» chiese Pepper, un po’ a disagio, «cosa è successo ieri sera?»

Adam scrollò le spalle. «Niente di particolare» rispose. «Sempre la solita storia. Cerchi di dare una mano, e sembra quasi che tu abbia ammazzato qualcuno o roba del genere.»

I Quelli, di nuovo in silenzio, fissavano il loro condottiero caduto in disgrazia.

«Quando pensi che ti lasceranno uscire, allora?» chiese Pepper.

«Ci vorranno anni e anni. Anni e anni e anni. Sarò già vecchio quando mi lasceranno andare» rispose Adam.

«Che ne dici di domani?» chiese Wensleydale.

Il volto di Adam si illuminò. «Oh, domani va benissimo» dichiarò. «Domani si saranno già dimenticati. Vedrete. Va sempre così.» Alzò lo sguardo verso gli altri, un arruffato Napoleone con le stringhe slacciate, in esilio su un’Elba cinta di rose. «Voi andate pure» disse, con una risata breve, cupa. «Non preoccupatevi per me. Me la caverò. Ci vediamo domani.»

I Quelli esitarono. La lealtà era una gran cosa, ma nessun luogotenente avrebbe mai dovuto essere costretto a scegliere tra il proprio capo e gli elefanti del circo. Se ne andarono.

Il sole continuava a splendere. Il tordo continuava a cantare.

Dog si dimenticò del Padrone, e prese a inseguire una farfalla in mezzo all’erba accanto alla siepe. Era una siepe notevole, solida, impassibile, di ligustro spesso e ben potato, e Adam la conosceva da anni. Al di là di essa si stendevano i campi aperti, splendidi fossi fangosi, frutta non ancora matura, proprietari di alberi da frutto scontrosi ma riflessivi, circhi, ruscelli da guadare, e mura e alberi fatti apposta per essere scalati…

Ma non si poteva scavalcare la siepe.

Adam si rabbuiò.

«Dog» disse brusco, «stai lontano dalla siepe, perché se per caso la oltrepassassi sarei costretto a rincorrerti, e per farlo dovrei uscire dal giardino, e non ne ho il permesso. Però dovrei farlo… se tu scappassi.»

Dog balzellava per l’agitazione, ma rimase dov’era.

Adam scrutò attentamente il cortile. Poi, con ancora maggiore attenzione, guardò Su e Giù. E Dentro.

E poi…

E poi nella siepe si aprì una voragine, abbastanza ampia da accogliere un cane di piccola taglia e il suo Padrone. Una fenditura che era lì da sempre.

Adam strizzò l’occhio a Dog.

Dog si precipitò verso la siepe. E Adam, scandendo opportunamente ciascuna sillaba, gridò: «Dog, cane cattivo! Fermo! Torna indietro!» e si infilò tra i rami, dietro di lui.

Una voce gli diceva che qualcosa stava per finire. Non il mondo, certo. Solo l’estate. Ce ne sarebbero state altre, ma nessuna sarebbe stata come questa. Nessuna, mai.

Perciò, meglio godersela fino in fondo.

Si fermò in mezzo al campo. Qualcuno stava bruciando qualcosa. Osservò il pennacchio di fumo bianco che usciva dal camino del Jasmine Cottage, ed esitò. Rimase in ascolto.

Adam era in grado di udire ciò che ad altri sarebbe sfuggito.

Risate.

Non era un ghigno da strega; era la risata grassa e fragorosa di qualcuno che sapeva molte, molte più cose di quante non avrebbe dovuto.

Il fumo bianco ondeggiava e si arricciava sopra il camino del cottage. Per una frazione di secondo, Adam vide, tratteggiato dal fumo, un attraente volto femminile. Un volto che sulla Terra non si palesava da più di trecento anni.

Agnes Nutter gli fece l’occhiolino.

Il vento leggero dell’estate disperse il fumo; il volto e le risate si dissolsero.

Adam sogghignò e riprese la sua corsa.

In un prato poco distante, sulla sponda di un ruscello, il ragazzo raggiunse il cane, bagnato e incrostato di fango. «Cane cattivo» disse Adam, grattando l’animale dietro le orecchie. Dog abbaiò, entusiasta.

Adam alzò gli occhi. Sopra la sua testa svettava un vecchio albero di mele. Era tanto vecchio che sembrava lì dall’inizio dei tempi. I rami erano curvi per il peso dei frutti, piccoli, verdi, non ancora maturi.

Con la destrezza di un cobra, si arrampicò sull’albero. E atterrò pochi secondi dopo, con le tasche piene, sgranocchiando una mela matura, perfetta.

«Ehi! Tu! Ragazzino!» urlò una voce rauca alle sue spalle. «Tu sei quell’Adam Young! Ti ho visto! Racconterò tutto a tuo padre! Vedrai se non lo faccio!»

Un bel castigo era ormai garantito, pensò Adam, in fuga, con le tasche zeppe di frutta rubata, e il cane al suo fianco.

Come al solito. Ma non fino a quella sera.

E quella sera era ancora molto lontana.

Gettò il torsolo verso il suo inseguitore e frugò in tasca in cerca di un’altra mela.

Comunque, non vedeva perché alle persone dava così fastidio quando qualcuno mangiava la loro stupida frutta, anche se la vita sarebbe stata molto meno divertente se non fosse stato così. E secondo Adam, per quanto ci si potesse cacciare nei guai, non c’era mela che non valesse la pena di essere colta.

Se volete immaginare il futuro, pensate a un ragazzino e al suo cane. E a un’estate che non finisce mai.

Se volete immaginare il futuro, pensate a uno stivale… No, pensate a una scarpa da ginnastica, con i lacci che strisciano per terra, che scalcia i sassi; pensate a un bastoncino con cui curiosare in mezzo a qualcosa di misterioso, e da scagliare a un cane che potrebbe decidere di riportarlo indietro, oppure no; pensate a un fischio stonato, che storpia una sfortunata canzone popolare fino a farle perdere il senso; pensate a una sagoma, in parte angelica, in parte diabolica, del tutto umana…

che ciondola bonaria verso Tadfield…

… per sempre.

a. A eccezione di Giovanni Giacomo Casanova (1725-1798), famoso amatore e letterato, che nel dodicesimo volume delle sue Memorie dichiarava di portare con sé, sempre, una valigia contenente “una micca di pane, un vaso di marmellata sivigliana di prima scelta, un coltello, una forchetta, un cucchiaino per lo zucchero, due uova fresche conservate con cura in un panno di lana grezza, un pomodoro, un padellino, un pentolotto, un distillatore, uno scaldavivande, una scatola di latta con burro italiano e due piattini di ceramica bianca. E anche una porzione di miele, come dolcificante, per l’alito e il caffè. Prego il mio lettore di comprendermi se dico: Un vero gentiluomo dovrebbe essere sempre in condizione di godere della propria prima colazione da gentiluomo, dovunque egli si trovi”.

b. Qualcosa era successo anche a Jesse James. All’apparenza era sempre la stessa auto, a parte il fatto che ora faceva duecentocinquanta miglia con un gallone di benzina, ed era diventata così silenziosa che solo appoggiando le labbra sulla marmitta si riusciva a capire se fosse in moto o meno. La voce sintetica si esprimeva adesso con una serie di squisiti haiku, perfettamente pronunciati, ognuno adatto all’occasione, come…

Il ghiaccio tardivo brucia il germoglio

E solo il pazzo non cinge il proprio corpo

Con la cintura di sicurezza.

…oppure:

Il fiore del ciliegio

Cade dall’albero più alto.

Siamo in riserva.

c. Caporale Tappeto, bonus annuale di 11 pence.

d. “Un ƒucceƒƒo che laƒcia ƒenza fiato! Raccomandato a tutti”- Papa Innocenzo VIII.

e. Nelle mani del collezionista giusto, la biblioteca dell’Esercito dei Cacciatori di Streghe avrebbe fruttato milioni. Il collezionista giusto avrebbe dovuto esser molto ricco, e non curarsi troppo delle macchie di sugo, delle bruciature di sigaretta, delle annotazioni a margine e della passione del compianto Caporale maggiore Wotling per i disegni di baffi e occhiali su tutte le incisioni di streghe e diavoli.