Alle radici dell’io

Gli argomenti che abbiamo finora trattato riguardano alcuni dei mattoni fondamentali con cui sono edificate le neuroscienze: il neurone e i mediatori, lo sviluppo e l’evoluzione del sistema nervoso, la motricità, l’emozione, l’apprendimento e la memoria. Questa che abbiamo appena tracciato è però una descrizione di principio che non tiene conto del fatto che una delle caratteristiche più importanti del sistema nervoso è quella di essere fortemente individuale: è nell’unicità del cervello, dovuta a un’interazione tra fattori genetici e ambientali, che affondano le radici dell’io, le differenze di personalità, stili e capacità cognitive evidenti sin dall’infanzia.

Ma in che modo diveniamo noi stessi? Quali sono i passi attraverso cui viene realizzata la nostra individualità? Un aspetto fondamentale è indubbiamente la componente genetica, quelle informazioni contenute nel DNA che rendono ognuno di noi pressoché unico. L’idea che ognuno di noi ha di se stesso non è però, e giustamente, prettamente biologica, ma è legata a quel senso di unicità che deriva dalle esperienze che abbiamo fatto, dai ricordi della nostra vita. È possibile scindere i geni dall’ambiente, la natura dalla cultura? Per affrontare questo problema si può partire, come abbiamo visto, dai primi stadi di formazione dell’individualità, quelli legati allo sviluppo del cervello e del comportamento, e guardare all’io come al prodotto di diversi sistemi, reti neurali che interagiscono tra loro. Alcuni neuroscienziati e filosofi della mente, come ad esempio Jerry Fodor, considerano questi sistemi alla stregua di moduli, componenti del cervello che ne specificano alcune funzioni di base. Altri, pur essendo riduzionisti come Jean-Pierre Changeux o Gerald Edelman, muovono obiezioni nei confronti di una concezione modulare, in quanto essa implica una visione composita del cervello, priva di unitarietà: essi sostengono invece che il cervello è fatto di reti che ricevono e distribuiscono l’informazione in modo globale. Eppure, malgrado la plasticità del cervello e la mancanza di scomparti fissi, esistono strutture specifiche o reti particolari – si pensi ai sistemi di gratificazione – che si prendono carico di alcune funzioni: è possibile che l’individualità comportamentale dipenda anche dalla variabilità di queste strutture, dal maggiore o minor peso che esse esercitano sul comportamento di un individuo?

Per affrontare il problema si può partire dall’individualità dell’intelligenza, poiché questa caratteristica del comportamento è uno dei temi cui gli psicologi hanno dedicato maggiore attenzione nel tentativo di comprendere alcuni aspetti delle diversità individuali. In passato si è ritenuto che l’intelligenza coincidesse con le capacità logico-matematiche: ma accanto a questa forma di intelligenza ve ne sono altre, come quella linguistica, quella musicale, quella spaziale, quella emotiva. Anche se nella nostra cultura le forme dell’intelligenza che vengono maggiormente valutate sono quella di tipo linguistico e quella di tipo logico-matematico, le altre intelligenze, come ad esempio quella emotiva (la capacità di interagire empaticamente con gli altri e di tener conto delle loro emozioni), hanno un ruolo notevole e possono essere più o meno rappresentate a seconda dell’individuo. Secondo lo psicologo Howard Gardner, ognuna di queste forme di intelligenza ha caratteristiche fortemente individuali e dalla loro ricombinazione originerebbe l’individualità.

I tentativi di correlare l’intelligenza a una particolare struttura neurobiologica sono finora falliti: il cervello di Einstein o quello di altre persone eccezionali ci hanno rivelato ben poco, sia dal punto di vista della struttura microscopica che da quello delle caratteristiche macroscopiche del cervello come l’estensione di alcune aree, ad esempio quella frontale. Per il momento non è quindi possibile analizzare le basi dell’individualità comportamentale: malgrado ciò, il cervello ci rivela un principio organizzativo in base a cui alcune funzioni, come quella matematica, musicale o linguistica, o alcuni aspetti della motivazione dipendono da aree o nuclei che, se lesi, possono comportare la perdita selettiva di uno o più aspetti di una particolare funzione, come indicano gli studi sull’intelligenza matematica.

Capacità matematiche, musicali, linguistiche…

Le ricerche sull’intelligenza di tipo matematico indicano che essa fa capo a due diverse componenti, una visivo-spaziale e una linguistica, la prima più concreta, la seconda più astratta e simbolica; la prima più antica, la seconda più recente in termini evolutivi; la prima soggetta a uno sviluppo più precoce, la seconda a uno sviluppo più tardivo nel corso dell’ontogenesi.

Visualizzando le aree del cervello attraverso tecniche di brain imaging, si è visto che il pensiero matematico può seguire due strade. Una strada, più primitiva e indipendente dal linguaggio, è evidente nei bambini piccoli e persino negli animali che, pur non essendo in grado di contare, sanno valutare le quantità e tenerne conto sul piano operativo (ad esempio accorgersi della mancanza di piccoli dal nido). Un’altra strada va di pari passo con l’apprendimento del linguaggio e consente di fare calcoli e valutazioni sofisticate. Il dato interessante è che aree del cervello distinte sono implicate nelle due diverse forme di capacità matematica: le valutazioni per approssimazione coinvolgono le aree parietali del cervello (che controllano i movimenti delle dita utilizzati dai bambini per fare i primi calcoli o l’uso del pallottoliere), i calcoli esatti coinvolgono invece le aree frontali dell’emisfero sinistro coinvolte anche nel linguaggio.

Ciò che sappiamo sulle strutture cerebrali responsabili dell’abilità del calcolo deriva, come nel caso di tante altre competenze cerebrali, dallo studio di alcuni strani casi clinici di discalculia, un deficit della capacità di fare calcoli, anche elementari. Eseguire piccoli calcoli a mente è quanto di più facile, almeno per quanto riguarda la media delle persone che abbiano fatto un po’ di pratica. Ad esempio, non è difficile calcolare quanto faccia 10 – 2 oppure 100 + 4. Questa capacità, invece, può essere completamente perduta in alcuni soggetti colpiti da lesioni del cervello. Un profano potrebbe credere che un adulto istruito cui si chieda “Quanto fa 100 – 8?” e che non sappia rispondere sia stato colpito da una forma di demenza, oppure che prenda in giro il suo interlocutore: eppure la situazione è molto più complessa e l’incapacità di fare i calcoli più semplici non ha nulla a che vedere con la perdita di altre capacità cognitive, con la memoria o la logica. Una persona che sia stata colpita dalla discalculia dimostra di ragionare normalmente: vi darà informazioni sulla sua vita, sul suo lavoro, vi dirà persino che 1.000 – 1 è una sottrazione e che 1.000 + 1 è un’addizione, dimostrando così di conoscere il significato delle operazioni aritmetiche. Vi potrà anche dire che, rispetto a 1, 1.000 è un numero composto da un maggior numero di cifre e che se a 1.000 si sottrae 1 il risultato sarà inferiore a 1.000: ma avrà gravi problemi a enunciare quel risultato e, senza stupirsi della propria incapacità, potrà dire 997, oppure 901, oppure ammettere candidamente di non essere molto bravo nei calcoli.

Ciò significa che i numeri sono scritti nel nostro cervello e che una lesione può distruggere un centro responsabile delle operazioni numeriche? La discalculia è spesso associata all’incapacità di riconoscere le proprie dita (ad esempio indicare quale dito venga toccato o indicato dal medico). Questi due deficit compaiono insieme in quanto la discalculia dipende da una lesione del cosiddetto giro angolare (figura 2), un’area della corteccia dell’emisfero sinistro situata in prossimità della parte della corteccia implicata nella capacità di riconoscere le dita: ciò spiega la genesi del calcolo aritmetico e la sua strutturazione nei bambini piccoli, che devono contare con le dita o con oggetti concreti come le palline del pallottoliere per fare i primi calcoli. Calcoli più complessi dipendono invece dall’integrità delle aree frontali dell’emisfero sinistro, responsabili di altre funzioni astratte quali quelle linguistiche.

Anche le capacità musicali sono legate al ruolo esercitato da diverse aree della corteccia. Come altre forme di intelligenza, le capacità musicali emergono nel corso dello sviluppo attraverso tappe successive: ad esempio, ad appena quattro mesi di vita un lattante nota la differenza tra la consonanza e la dissonanza, tra suoni accordati tra loro e suoni stonati. All’età di sei mesi un bambino differenzia una struttura melodica da una non melodica, a due anni canterella canzoncine quando è soddisfatto o mentre gioca. Come si verifica per le capacità matematiche, anche quelle musicali dipendono da diverse strutture cerebrali: le aree frontali e i lobi temporali dell’emisfero destro sono responsabili della capacità di discriminare e riprodurre i toni, cosicché la loro lesione dà luogo all’amusia, l’incapacità di riconoscere i toni musicali. Come abbiamo visto, le lesioni dell’area di Broca comportano l’afasia motoria (incapacità di articolare il linguaggio) mentre quelle dell’area di Wernicke l’afasia sensoriale (incapacità di comprendere il linguaggio parlato o scritto). Questi due tipi di afasia non implicano però la perdita del linguaggio musicale, cioè l’amusia: le due funzioni mentali, il linguaggio e la musica, dipendono infatti da diversi sistemi cerebrali, anche se vi sono dei punti di sovrapposizione tra queste due funzioni.

Se ci limitiamo ad analizzare quali aree del cervello sono coinvolte nella musica, gli studi effettuati con la PET sono molto utili e indicano che nella corteccia temporale dell’emisfero sinistro di un pianista che legge ed esegue un brano musicale si attivano aree in cui sono codificate le mappe delle rappresentazioni visive (trascrizione della musica in note) e uditive (suoni) della musica. Le aree del lobo parietale superiore sono invece responsabili delle trasformazioni sensoriali e motorie che, a livello sia visivo sia spaziale, assicurano il posizionamento delle dita del pianista, mentre le aree della corteccia prefrontale organizzano la sequenza e i tempi dei movimenti della dita sulla tastiera. A esse si aggiungono quelle di Broca e di Wernicke che assicurano rispettivamente la capacità di suonare a memoria o di leggere un testo musicale, oltre ad aree dell’emisfero destro, coinvolte nella dimensione emotiva della musica. Il cervello musicale è quindi estremamente complesso e i danni che derivano da un ictus possono essere molto selettivi, purché l’infarto cerebrale interessi una ben circoscritta parte di tessuto nervoso responsabile di una delle funzioni appena esposte: ad esempio, un compositore o un esecutore può perdere soltanto la capacità di leggere la musica, di dettarla, di comporla, di eseguirla dallo spartito, di eseguirla a memoria.

La casistica dei musicisti che in seguito a lesioni cerebrali hanno perduto una qualche capacità musicale – o nei casi più gravi la capacità musicale globale – è abbastanza vasta: Maurice Ravel e George Gershwin, Benjamin Britten e Jean Langlais sono alcuni celebri musicisti contemporanei che hanno subito lesioni cerebrali, un tempo incomprensibili dal punto di vista delle neuroscienze. Oggi, invece, le caratteristiche del cervello musicale sono meno misteriose: ad esempio, la ricercatrice canadese Justine Sergent è arrivata alla conclusione che Ravel, che negli ultimi quattro anni di vita aveva completamente perduto la capacità di comporre, ma non quella di sentire e apprezzare la musica e nemmeno quella di eseguire scale musicali, riportò un diffuso danno delle aree fronto-parietali dell’emisfero sinistro, che hanno il compito di integrare tra loro le diverse modalità musicali, come il tradurre gli schemi visivi in motori o uditivi e quelli uditivi in visivi o motori. Il cervello di Ravel era infatti in grado di leggere, udire, controllare le mani del musicista ma non di associare tra di loro queste funzioni. Il celebre compositore francese poteva scrivere, ma non trasferire in segni ciò che sentiva nella sua testa: un’attività mentale che le moderne tecnologie di brain imaging avrebbero potuto rilevare senza però aiutarlo a convertire la musica che risuonava nel suo cervello in note o in appropriati movimenti delle dita.

Veniamo ora al linguaggio. Come abbiamo visto, parliamo e comprendiamo le parole che ascoltiamo grazie ai centri del linguaggio situati nell’emisfero sinistro, ma diverse aree corticali intervengono nel riconoscimento e nella produzione di parole. Il linguaggio, infatti, dipende sia dall’immediatezza delle percezioni e azioni, sia dalle memorie di oggetti e azioni: perciò le aree della corteccia cerebrale che elaborano le informazioni sensoriali e controllano i movimenti sono anche coinvolte in diversi aspetti delle memorie linguistiche. Ad esempio, proferire parole indicative di un colore (rosso, blu, giallo) significa attivare quelle aree della corteccia temporale che sono responsabili della percezione dei colori; proferire parole relative ai movimenti (correre, battere, avvitare) si accompagna all’attivazione delle aree situate anteriormente a quelle coinvolte nella percezione dei movimenti, nonché delle aree premotorie (situate anteriormente alla corteccia motoria nella corteccia frontale); proferire parole relative all’orientamento (girare, cercare l’uscita, trovare la strada) comporta l’attivazione dell’ippocampo, un insieme di nuclei nervosi situati nella profondità del cervello, responsabili dell’orientamento. Tutto ciò dimostra che il linguaggio non dipende da un sistema estremamente specifico e autonomo, vale a dire sulle sole aree motorie (Broca) o sensoriali (Wernicke): esso fa invece capo a una rete di interazioni con altri sistemi e aree del cervello specializzate nella rappresentazione di oggetti, nella percezione, nella motricità.

Il linguaggio si basa su memorie uditive e memorie motorie: ascoltare o leggere la parola “casa” innesca una memoria semantica che corrisponde al significato di casa, un luogo di abitazione che ci raffiguriamo con appropriate immagini mentali, una casetta in campagna, un appartamento in città, magari la nostra casa, cioè un’immagine in grado di suscitare emozioni. Pronunciare o scrivere la parola “casa” significa invece attivare una sequenza di azioni muscolari, quelle necessarie all’apparato vocale per emettere il giusto suono o quelle necessarie alla mano per tracciare i giusti segni. Si potrebbe quindi ritenere che a ogni parola corrisponda una memoria specifica, una di tipo sensoriale (associata appunto ai suoni che udiamo o alle lettere che leggiamo), una di tipo motorio, associata ai suoni che emettiamo o ai movimenti della mano: eppure le memorie linguistiche non hanno questa specificità, ma si basano su schemi generali e su categorie che, a volte, possono indurci a sbagliare la parola che avremmo voluto dire. Questi errori ci imbarazzano un po’, come se avessimo perduto il controllo di noi stessi, come se qualcosa dentro di noi si fosse sostituito alla nostra volontà, ma essi indicano che il linguaggio non dipende da regole o memorie ferree e, più in generale, che non esiste una incomunicabilità tra le diverse memorie, ad esempio quelle linguistiche: le memorie presentano sovrapposizioni, aspetti in comune, aree di contagio. Il linguaggio si basa su una specie di ragnatela in cui le parole sono legate tra di loro, come d’altronde avviene in un dizionario in cui ogni vocabolo è definito da altri vocaboli, sinonimi o contrari. Un adolescente, all’età di 15 anni, possiede un vocabolario che, a seconda della sua cultura, va da 10.000 a 30.000 parole, acquisite al ritmo di 2-6 parole al giorno.

Ma che cosa significa acquisire una nuova parola, comprenderne il significato e poterla utilizzare in seguito? L’acquisizione del linguaggio si basa, come dicevamo, sullo stabilirsi di connessioni tra i diversi codici che rappresentano una parola: il codice uditivo, la forma scritta, le immagini visive o percettive associate a quella parola. Il linguaggio è un sistema composto da una serie di moduli o componenti caratterizzati da una struttura gerarchica: a un livello più alto di questa gerarchia figurano le caratteristiche semantiche (vocabolario e significato delle parole), sintattiche (struttura grammaticale) e discorsive (concatenazione delle frasi). Al livello inferiore della gerarchia vi sono invece i moduli fonologici, responsabili del riconoscimento e dell’elaborazione degli elementi sonori di base, i fonemi, che formano il linguaggio.

I fonemi sono i mattoni naturali della lingua parlata e ognuno di noi, nel riconoscere una parola, ne riconosce le singole unità in modo automatico, naturale, in quanto il linguaggio è una caratteristica naturale della mente. La scrittura, invece, dipende da un apprendimento che comporta di trasformare i codici vocali (i fonemi) in codici scritti o “grafemi”: perché questo processo di trasformazione possa avverarsi, i bambini devono rendersi conto che la scrittura corrisponde alla fonologia. Il raggiungimento di questa capacità, che agli adulti appare abbastanza semplice, implica invece uno sforzo enorme: un bambino che impara a leggere deve trasformare quel linguaggio che aveva acquisito con una certa facilità e in modo giocoso in simboli visivi: ogni lettera dell’alfabeto diventa una “forma” che è necessario riconoscere e unire ad altre “forme” per comporre parole. Per leggere in circa un minuto un testo di 2.500 segni, come può esserlo una pagina a stampa, è necessario identificare 40 caratteri al secondo. Come si può intuire, l’apprendimento della lettura e della scrittura rappresenta un grande sforzo per i bambini, uno sforzo che da qualche millennio la società impone come una necessità. Malgrado queste difficoltà, la maggior parte dei bambini, tra l’età di 4 e 6 anni, divengono consapevoli della struttura fonologica delle parole parlate: ad esempio, se si chiede loro di farlo, sono capaci di privare la parola “casa” del suono “c” e di dire quindi “asa”, o di pronunciare una parola, “maestra”, senza la lettera finale (“maestr”) e via dicendo. In una certa percentuale di bambini, questa consapevolezza non si verifica: non tanto perché non siano intelligenti (anzi, possono anche essere iperdotati), ma in quanto nel loro cervello non funziona il modulo fonologico, la struttura gerarchicamente più bassa del linguaggio.

A causa di questo funzionamento imperfetto, un bambino dislessico ha problemi nella lettura delle parole più banali: ad esempio, se gli si mostra la figura di una mano alla cui base è stampata la scritta “mano” può leggere “pane” o una qualche altra parola che rassomigli, in modo vago, alla parola corretta: se gli si chiede che cosa illustrava la figura, il bambino dimostrerà di aver capito che si trattava della mano, anche se non è in grado di pronunciare la parola scritta. I problemi di un bambino – e di un adulto – dislessico originano generalmente nel suo cervello, o meglio nell’emisfero di sinistra, che è congegnato in modo tale da avere aree specifiche per le diverse funzioni linguistiche: una parte della corteccia del lobo occipitale identifica le lettere scritte, la parte media del lobo temporale identifica il significato delle parole mentre i processi di tipo fonologico si svolgono nell’ambito della parte inferiore della corteccia frontale. La dislessia fonologica, la più frequente delle dislessie, è dovuta a un deficit della corteccia frontale inferiore di sinistra: questa non è danneggiata, ma soffre di un ritardo di maturazione ed è pigra in quanto, come è stato osservato studiando l’attività dei suoi neuroni, elabora l’informazione con notevole lentezza, impiegando tempi superiori di più di dieci volte rispetto a quanto avviene in un non dislessico. Ad esempio, la maggior parte dei bambini impiega circa 40 millesimi di secondo per elaborare un fonema, poniamo “pa”, mentre un dislessico impiega quasi 500 millesimi di secondo e, se viene spinto a leggere, confonde “pa” con altri fonemi, leggendo così una parola ben diversa da quella scritta.

La dislessia e altri casi clinici sollevano il problema delle basi biologiche del linguaggio: le strutture del linguaggio e le stesse regole grammaticali hanno una base naturale? Un caso clamoroso riguarda una famiglia canadese in cui la nonna, quattro dei suoi cinque figli e undici dei suoi 24 nipoti soffrono di una strana anomalia linguistica che si trasmette con le stesse leggi che sono state descritte da Gregor Mendel nei piselli. Il disturbo genetico che ha colpito la famiglia risulta in modo chiaro dal comportamento tipico di uno dei suoi componenti, il piccolo Paul: il bambino è intelligente, dotato in matematica e abile con il computer, ma ha notevoli difficoltà a esprimersi: non sa aggiungere la s per formare i plurali, come avviene in inglese, o il suffisso ed per formare i verbi al passato (ad esempio loved, che è il passato remoto di to love, amare): così, malgrado alcuni anni di rieducazione linguistica, deve usare delle perifrasi come “l’ultima volta” per esprimere i verbi al passato e “ora” per quelli al presente. Ma Paul non ha problemi con i verbi irregolari, ad esempio per dire “egli venne” dice correttamente he came, il passato remoto di to come che, essendo irregolare, non diviene comed.

Si può escludere che Paul e gli altri membri della sua famiglia con questa anomalia del linguaggio abbiano imitato il difetto dei genitori: un certo numero dei famigliari parlano infatti correttamente. D’altronde esistono altre osservazioni su una strana malattia a base genetica, la sindrome di Williams, in cui le persone colpite hanno un difetto di tipo opposto: il loro linguaggio ha una normale struttura logica, rispetta le regole linguistiche e si adegua alla “regola dell’ed” per formare il passato remoto dei verbi regolari: ma le persone colpite applicano la stessa regola ai verbi irregolari, dicendo ad esempio sleeped anziché slept per dire “egli dormì”.

È noto che il celebre linguista Noam Chomsky sostiene che le strutture del linguaggio sono innate. Alcuni suoi allievi o linguisti “post-chomskiani” come Steven Pinker vanno ancor oltre. Ad esempio, Mark Baker della Rutgers University, indica che non soltanto alcune regole grammaticali sarebbero innate, ma che esisterebbe anche una gerarchia sulla cui base viene regolato l’apprendimento linguistico. La gerarchia grammaticale non ha nulla a che vedere con una specie di albero genealogico che stabilisca, ad esempio, quanto alcune lingue come l’italiano, lo spagnolo, il francese o il rumeno siano più o meno prossime alla loro lingua-madre, il latino: l’organizzazione gerarchica riguarderebbe invece i principi da cui dipendono i collegamenti tra parole e frasi, vere e proprie regole iscritte nei circuiti cerebrali. Per comprendere cosa Baker intenda per gerarchia delle regole, si può pensare a una serie di interruttori prefissati dai geni: se nel corso dello sviluppo un bambino impara un linguaggio particolare, scatterebbe un interruttore che privilegerebbe un particolare circuito di altri interruttori – e di regole linguistiche – piuttosto di altri.

Baker, ad esempio, ha analizzato la differenza che esiste tra l’inglese e il mohawk, parlato da tribù indiane del Massachusetts. Il mohawk è una lingua polisintetica in cui i verbi, estremamente lunghi e compositi, sono traducibili tramite molte parole: “Washakotya’tawitscheraherkva’se’” significa alla lettera: “Egli ha reso la cosa che si porta sopra il corpo brutto per lei”, il che significa “lui ha disprezzato il suo vestito”. Nella frase indiana, herkv significa “disprezzare” e tutti gli altri prefissi specificano i pronomi del soggetto e dell’oggetto: in altre parole ognuno dei prefissi viene descritto dal verbo. I Mohawk di prefissi ne hanno ben 58, ricombinabili in ogni modo possibile. Secondo Baker, e secondo molti altri linguisti, il parametro o “interruttore” polisintetico è unico per il mohawk e per poche altre lingue, alcune delle quali parlate dagli aborigeni australiani. Un passo successivo dell’albero gerarchico comporta la scelta tra una “polisintesi opzionale” (in cui è possibile ma non necessario l’uso dei prefissi polisintetici) o la “direzionalità”, vale a dire l’ordine delle parole in una frase: ad esempio, in italiano diciamo “col mio amico”, dove “col” deve precedere le altre due parole, mentre in altre lingue “col” viene dopo “amico”. Perciò la frase: “io poso la penna su il tavolo” può trasformarsi in una lingua sioux, il lakota, in: “io tavolo il su penna la poso”.

Questi sono alcuni esempi relativi alla cosiddetta gerarchia degli “interruttori”: Baker ritiene che il linguaggio universale umano sia regolato da una trentina di parametri o interruttori e che questi siano legati a regole genetiche che vengono innescate dal tipo di lingua che parliamo. In un bambino piccolo che sente parlare il mohawk scatterà l’interruttore polisintetico, in uno che sente parlare il lakota quello della direzionalità “in coda” e in un bambino che sente parlare l’italiano quello della direzionalità “in testa”. Ma perché mai, potremmo chiederci, tutte le lingue, pur avendo simili strutture, non si rassomigliano per gerarchia grammaticale? Secondo Baker e numerosi linguisti della scuola di Chomsky, il linguaggio sarebbe evoluto anche come una strategia per comunicare segretamente, per nascondere l’informazione ai competitori: e una differenza tra lingue avrebbe, anticamente, assolto a questa funzione “crittografica”.

Va detto però che numerosi linguisti si dichiarano scettici sulla possibilità che una lingua dipenda dall’attivazione di “interruttori” geneticamente determinati e sostengono che numerosi esperimenti vengono costruiti su misura per quella teoria, ignorando altri orientamenti e approcci e minimizzando altri aspetti del linguaggio. L’ipotesi genetica è in effetti in evidente contrasto con quanti sostengono ipotesi funzionaliste, ritenendo che le lingue non vadano descritte in astratto, ma in relazione a chi le adopera, al significato (si veda Simone, 1998): ci si può però chiedere se questa funzione non costituisca un aspetto di una lingua che può coesistere con la sua matrice biologica, con le regole che ne stabiliscono alcuni parametri.

Valutazione della realtà

La psicologia cognitiva è in gran parte centrata su una dimensione conoscitiva della mente, si occupa di memoria e apprendimento, di decisioni e linguaggio. Il comportamento, tuttavia, non è soltanto basato su una componente cognitiva ma anche sulle gratificazioni che derivano dal soddisfacimento delle pulsioni primarie (fame, sete, sessualità), e dal raggiungimento di obiettivi. Uno dei capitoli oggi più sviluppati delle neuroscienze riguarda proprio i meccanismi di motivazione, la conoscenza della “molla” che ci spinge a soddisfare alcuni bisogni, a ricercare alcune situazioni in quanto il loro soddisfacimento è appagante, a valutare la realtà in modo positivo o negativo. Per affrontare questo argomento si può partire dallo studio degli istinti, i comportamenti comuni ai diversi membri di una specie animale, trasmessi per via ereditaria e non dipendenti da forme di apprendimento. Gli studi in questo settore, da quelli condotti dagli etologi sul campo a quelli condotti dai fisiologi in laboratorio, hanno indicato che alla base degli istinti esiste una pulsione o stato interno che deve essere soddisfatto attraverso un “atto di consumazione” nel cui ambito si verifica la gratificazione: ad esempio, la pulsione alimentare dipende da uno stato interno legato a un basso livello di glucidi ed essa può essere soddisfatta attraverso un atto di consumazione (il mangiare) che si associa a una sensazione gratificante. In modo simile, la sete dipende da un aumento della concentrazione salina dei liquidi dell’organismo e viene soddisfatta dal bere, associato anch’esso a una sensazione di rinforzo. La stessa sessualità dipende prevalentemente da uno stato interno, il livello di ormoni sessuali, e il suo soddisfacimento comporta sensazioni gratificanti.

Sia pur nel loro meccanicismo, le teorie sugli istinti e sulle pulsioni primarie umane hanno consentito di comprendere alcuni aspetti della gratificazione e di delinearne le componenti centrali e periferiche. Ad esempio, nel caso della pulsione alimentare è stato valutato il ruolo dei recettori gustativi, dei recettori che nello stomaco indicano lo stato di distensione dell’organo, dei recettori che a livello cerebrale registrano le variazioni di glucidi circolanti: queste ricerche hanno dimostrato che per soddisfare la fame, cioè per produrre una sensazione gratificante, i recettori periferici esercitano un ruolo secondario rispetto a quelli centrali. Una soluzione di saccarina, dolce ma sprovvista di valore nutritivo, stimola i recettori gustativi ma non inganna a lungo la sensazione di fame; similmente la distensione delle pareti dello stomaco, ottenuta attraverso delle sostanze voluminose ma prive di valore alimentare, blocca soltanto per qualche tempo i morsi della fame; al contrario, la somministrazione di zuccheri, anche se effettuata per via gastrica o endovenosa, saltando cioè i recettori gustativi della bocca, induce una sensazione di sazietà. Tuttavia, malgrado la prevalenza dei fattori centrali – come nel caso della soluzione di zucchero somministrata per fleboclisi –, i fattori periferici esercitano un ruolo, e non trascurabile, il gusto è un elemento importante, come ben indica la propensione che gli esseri umani hanno per alcuni cibi piuttosto che per altri: in che modo valutiamo che un cibo sia piacevole e, più in generale, che una determinata situazione sia positiva o negativa?

Un primo aspetto da considerare è quello dei meccanismi alla base della gratificazione e delle sensazioni di piacere. Le ricerche sulle sue basi nervose hanno origine dagli esperimenti dello psicologo statunitense James Olds sulla cosiddetta autostimolazione cerebrale. Intorno alla metà degli anni Cinquanta del Novecento Olds, che studiava le basi biologiche della memoria, ritenne che l’apprendimento di una breve esperienza avrebbe potuto migliorare se il cervello dell’animale fosse stato stimolato con una tenuissima corrente elettrica: il processo di memorizzazione comporta infatti variazioni della debole attività elettrica dei neuroni che Olds intendeva appunto potenziare attraverso la stimolazione elettrica cerebrale. Nell’esperimento tipico l’animale, un ratto, veniva impiantato con un elettrodo nel cervello, percorreva un labirinto e, una volta trovatane la via d’uscita, riceveva una blanda stimolazione elettrica attraverso l’elettrodo. Osservando il comportamento di alcuni animali Olds vide che questi ricercavano attivamente il luogo in cui avevano ricevuto la stimolazione elettrica cerebrale, come se esso fosse associato a una situazione piacevole, gratificante. Lo psicologo comparato si chiese se questo comportamento degli animali non dipendesse dal fatto che egli aveva impiantato l’elettrodo stimolatore in un’area del cervello associata a una sensazione di piacere e per verificare questa ipotesi mise a punto un apparato in cui l’animale poteva premere una leva, in tal modo attivando un meccanismo che induceva una stimolazione elettrica del cervello. In questa situazione gli animali, dopo aver scoperto l’uso della leva, la premevano con un ritmo sempre più elevato: Olds notò che se si impediva agli animali di stimolarsi dopo che essi si erano abituati agli effetti dell’autostimolazione e poi si dava loro la possibilità di stimolarsi nuovamente, essi lo facevano con un ritmo superiore all’usuale, come se dovessero recuperare le stimolazioni perdute.

Studi successivi indicarono che gli effetti gratificanti per l’animale dipendevano dall’attivazione di quello che venne definito come “sistema di ricompensa – o sistema incentivante – cerebrale”. Il sistema è costituito da un insieme di neuroni localizzati nel ponte del cervello e nei gangli della base e le loro fibre giungono sino alla corteccia cerebrale (figura 3). Questi neuroni sono di tipo dopaminergico (utilizzano il trasmettitore dopamina) e possono anche essere attivati da una serie di droghe come l’amfetamina, la cocaina, la morfina che inducono sensazioni di piacere o gratificanti. Oggi gli psicobiologi ritengono che numerosi tipi di gratificazione – alimentare, sessuale, da sostanze d’abuso ecc. – siano mediati dallo stesso sistema di rinforzo, cioè dal sistema dopaminergico.

Il sistema di ricompensa è responsabile dello sviluppo della gratificazione nel corso dello sviluppo e in seguito di parte delle sensazioni di piacere che derivano dal soddisfacimento delle pulsioni primarie o dello stesso effetto piacevole legato alle droghe: tuttavia, a partire dai primi mesi di vita postnatale, gran parte delle gratificazioni umane si scindono dai loro aspetti concreti, dipendono da rinforzi di tipo immateriale, sono legate a complesse valutazioni della realtà in cui i significati, i valori, le attese giocano un ruolo fondamentale. La gratificazione, in altre parole, acquista una dimensione fortemente individuale e culturale, e il piacere che deriva dal raggiungimento di obiettivi, fini e aspettative si distacca da quegli aspetti che sono alla base delle gratificazioni delle pulsioni primarie.

Un altro aspetto della valutazione della realtà riguarda la sensazione di benessere e lo sfondo umorale di un individuo: il sentirsi a proprio agio, soddisfatti o insoddisfatti e depressi, deriva anche da un complesso bilancio tra lo stato interno e il modo in cui vengono valutati gli eventi che ci riguardano: da questo punto di vista esiste una notevole differenza tra le valutazioni della psicologia dinamica e quelle della psicologia o psichiatria orientate in senso biologico. Le teorie psicoanalitiche sostengono infatti che esiste un nesso tra le pulsioni primarie e le gratificazioni – o la mancanza di gratificazioni – infantili (e quindi il ruolo delle esperienze precoci, dei rapporti con la madre ecc.) e le caratteristiche umorali di un adulto, la sua maggiore o minore propensione a valutare positivamente o negativamente gli aspetti positivi e negativi della propria esistenza ecc. La psicologia biologica considera invece che il tono umorale, ed eventualmente lo stato depressivo di un individuo, siano prevalentemente legati a un efficiente sistema di rinforzo cerebrale (i neuroni dopaminergici) e alla funzionalità del sistema serotoninergico (il mediatore nervoso serotonina) cerebrale: a sostegno delle proprie tesi, psicologi e psichiatri biologici indicano come il sentirsi felici e/o gratificati dipenda da fattori genetici – in quanto esiste un’alta correlazione tra coppie di gemelli monozigotici per quanto riguarda la valutazione del proprio benessere o disagio umorale – e da fattori neurochimici, in quanto negli stati depressivi i farmaci che agiscono sulle ammine cerebrali (serotonina, dopamina ecc.) esercitano un effetto antidepressivo. Ovviamente, l’ambiente gioca il suo ruolo e gli stati umorali o il senso di benessere non hanno soltanto una componente endogena.

In tutte queste diverse situazioni, dai rinforzi alimentari o sessuali agli stati umorali e alla valutazione di diversi aspetti della realtà, il sistema dopaminergico esercita un ruolo critico non soltanto attraverso i meccanismi di rinforzo, ma anche facendo sì che venga prestata attenzione ad alcuni stimoli piuttosto che ad altri, esercitando un filtro sulle diverse componenti della realtà ed “etichettandola” a seconda delle situazioni. Questa attenzione selettiva caratterizza, ad esempio, il comportamento delle persone depresse che interpretano molte situazioni in modo negativo, anche quando queste sono neutre o potenzialmente positive. I gangli della base non si limitano quindi a governare la motivazione attraverso il meccanismo della gratificazione, ma esercitano anche un filtro molto raffinato su stimoli e input provenienti dal mondo esterno: in tal modo contribuiscono a determinare il tipo di realtà con cui un individuo può entrare in contatto. L’azione dei gangli della base, in particolare lo striato e il nucleo accumbens, si esplica attraverso un effetto esercitato sul talamo, la sede in cui pervengono tutte le informazioni sensoriali. Il talamo, però, non recepisce in modo neutro ogni tipo di stimolo e sensazione: l’incremento del livello di dopamina nello striato fa sì che il “filtro” del talamo si apra e che esso lasci passare una maggiore quantità di input. Quest’azione di filtro non riguarda però soltanto l’informazione di tipo cognitivo, ma anche altri aspetti del comportamento, dalla motricità all’emozione. Allo striato ventrale giungono infatti informazioni dalla corteccia frontale e dal sistema limbico e cioè da amigdala, ippocampo, corteccia prefrontale ed entorinale, cosicché esso è un crocevia tra funzioni cognitive, motorie e motivazionali. Lo striato ventrale è quindi al centro sia dei comportamenti motivati rivolti verso un fine, sia del trattamento di informazioni che riguardano il contesto, basati su complesse associazioni tra stimoli diversi. In qualche modo esso ha un ruolo critico nella vita mentale, in quanto contribuisce all’intreccio pressoché inestricabile che riguarda i prodotti della coscienza primaria e quella di ordine superiore, legata ai significati fondati sul linguaggio (si veda su questo Silvano Tagliagambe, Il sogno di Dostoevskij. Come la mente emerge dal cervello).

Il gap esplicativo

Oggetto di studio delle neuroscienze è soprattutto il cervello, ed è fin troppo ovvio ricordare come questo organo sia diverso dagli altri: non pensiamo con il “nostro” cervello come vediamo con i “nostri” occhi o afferriamo con le “nostre” mani. Le informazioni sul funzionamento del cervello ci giungono infatti dall’esterno, dalla scienza. Ci si può quindi chiedere se la disciplina che si rivolge all’organo egemonico per eccellenza non assuma un ruolo predominante: l’uomo neuronale viene affidato a uno scienziato che occupa il posto del divino, del confessore, che diviene il maestro del maestro, vale a dire del cervello che comanda il corpo? Nel porsi questi interrogativi, il filosofo Paul Ricœur ci mette in guardia nei riguardi di un possibile slittamento dal materialismo metodologico al materialismo dottrinale, ontologico, e si interroga su una prospettiva in cui ogni sapere che riguardi l’essere umano dipenda dal sapere neuroscientifico. I critici del riduzionismo spinto sostengono perciò che mente e cervello siano due entità ben distinte: la materia che si definisce materia, il cervello-mente che parla di se stesso come di un’entità neuronale, si eleverebbe al di sopra dello statuto che ha appena definito.

Nell’ambito delle neuroscienze sono a lungo convissute posizioni moniste e dualiste secondo cui mente e cervello sarebbero rispettivamente un tutt’uno oppure due entità separate. Al giorno d’oggi, invece, la maggior parte dei neuroscienziati adotta un’ottica fortemente riduzionistica, e il fatto che mente e cervello coincidano rappresenta un aspetto quasi implicito di questa disciplina. D’altronde la biologia non ha forse ottenuto incredibili successi grazie al suo riduzionismo? Il problema, per i biologi che cercano di comprendere il funzionamento del cervello è che, contrariamente ai loro colleghi che studiano il cuore o il rene, non possono affrontare i problemi che hanno di fronte senza impegnarsi in questioni di tipo filosofico: qualunque studio sul cervello si confronta infatti immediatamente con il problema mente-corpo. Di fronte a questo scoglio, la maggior parte dei neurobiologi ha spesso tentato una qualche strategia di aggiramento e ha adottato un approccio che guarda alla mente in termini di epifenomeno: si tratta di una forma di dualismo moderato secondo cui lo stato fisico del cervello è causa del mentale che, di per sé, non ha invece efficacia causale. La metafora più usuale dei sostenitori dell’epifenomeno è quella della locomotiva a vapore e del suo fischio, prodotto dalla macchina come il pensiero lo è dal cervello. Il problema di questa soluzione è che essa non spiega come gli stati mentali possano avere effetto sugli oggetti fisici; come, ad esempio, la mia intenzione di muovermi faccia sì che si attivino i neuroni della corteccia motoria che provocano il movimento.

Secondo i fautori di un approccio monista che rigettano l’ipotesi dell’epifenomeno, come ad esempio il neurobiologo Jean-Pierre Changeux, autore di un noto saggio intitolato L’uomo neuronale, la sola posizione materialista coerente è quella che considera il mentale e il neurale come due aspetti di uno stesso stato fisico materiale: la mente non causa uno stato fisico del cervello né ne è causata, in quanto i concetti di causa ed effetto non si applicano a due aspetti dello stesso stato. Così, ad esempio, Changeux indica come la percezione visiva di un albero implichi la formazione di una struttura basata sul flusso di impulsi nervosi tra determinati neuroni; se successivamente mi formo un’immagine mentale di quell’albero, si verifica un flusso di impulsi nervosi, strutturato in modo analogo in un gruppo di cellule nervose con un’analoga topologia. Changeux, e con lui Gerald Edelman, autore dell’altrettanto fortunato saggio sul darwinismo neuronale, ritiene che la similitudine topologica possa anche implicare una somiglianza logica, basata su differenti configurazioni nervose, così come si verifica per due programmi di computer che eseguono uno stesso compito.

In genere i neuroscienziati si sono soffermati sulle immagini mentali, sulla codificazione delle esperienze o sulla memoria in quanto queste funzioni possono essere più facilmente ridotte ai meccanismi neurali che ne sono alla base. I neuroscienziati, invece, rifuggono spesso da un tema più spinoso, quello della coscienza: in molti casi essi sostengono che parlare di coscienza sia un’illusione metafisica mentre ciò che ha significato sono i comportamenti manifesti, misurabili e quantificabili con gli strumenti del riduzionismo. Ma anche liberandosi dal problema della coscienza, ne restano altri di non facile soluzione: se infatti ipotizziamo con Changeux che le immagini mentali siano topologia, strutture di oscillazione tra i neuroni, come spiegare il passaggio da un’immagine all’altra, cioè l’attenzione che io posso provare per questo o quell’evento, esterno o interno che sia? Al centro del problema della mente e del cervello c’è il passaggio tra diversi stati mentali, tutti – o quasi – sotto il controllo dell’io volontario. Ad esempio, io posso smettere di scrivere queste parole, pensare al film che forse vedrò stasera, inseguire un improvviso ricordo: questi tre stati implicano che un qualche tipo di informazione sia presente nel mio cervello, ma uno solo per volta di questi stati è nella mia mente. Chi ha scelto quello stato? Io, indubbiamente: ed è altrettanto indubbio che il problema centrale delle neuroscienze è il problema dell’io.

Gli studi sul ruolo della corteccia frontale e prefrontale stanno dando un notevole contributo alla conoscenza di quelle funzioni esecutive che sono assimilabili all’io, sia che lo si consideri come un’entità centralizzata, assimilabile alla res cogitans cartesiana, sia che lo si consideri in termini di distribuzione di una serie di funzioni critiche che non necessitano di un’entità unificante, l’io appunto.

Uno dei problemi centrali in quest’ambito è la definizione di cosa ci guida nell’azione, cosa ci permette di interagire col mondo in maniera finalizzata. I comportamenti orientati verso uno scopo si basano su un continuo monitoraggio delle conseguenze delle nostre azioni sin dal momento in cui le compiamo: passo dopo passo la mente valuta se ci si sta avvicinando o allontanando dallo scopo che ci si era prefissi. Le funzioni esecutive servono appunto per controllare e regolare i processi cerebrali che elaborano l’informazione. Queste funzioni, uno dei livelli più complessi della cognizione, comprendono processi come la memoria di lavoro, la rappresentazione e la pianificazione di uno scopo, il monitoraggio delle risposte e il rilevamento degli errori: esse dipendono dalla corteccia prefrontale che negli esseri umani comprende circa metà dell’intero lobo frontale. Alla corteccia prefrontale arrivano vie nervose da tutte le altre aree della corteccia e dalle strutture sottocorticali, in particolare dai gangli della base attraverso il talamo e dal sistema limbico. Queste connessioni sono a due vie, nel senso che la corteccia prefrontale riceve input (vie afferenti) ed è sede di output (vie efferenti) da e per queste diverse strutture nervose.

La corteccia prefrontale laterale è anzitutto sede della cosiddetta memoria di lavoro, la rappresentazione temporanea di quelle informazioni che sono rilevanti per un compito particolare. Queste rappresentazioni – recenti, relative al passato, associate a qualcosa che è presente nell’ambiente – guidano il comportamento nel presente e costituiscono una specie di “lavagna della mente”. Nella lettura, ad esempio, la memoria di lavoro permette di trattenere in mente l’inizio di una frase o di una pagina sin quando si arriva alla sua fine. Nella vita quotidiana la memoria di lavoro ci consente di ricordare il motivo per cui ci rechiamo in direzione di una stanza della casa (ad esempio per cercare un oggetto) o perché ci stiamo dirigendo verso l’edicola dei giornali…

Il ruolo dei lobi frontali nella memoria di lavoro è stato studiato negli esseri umani a partire dagli otto-dodici mesi di età, quando si passa da una forma di memoria molto precaria a una forma più stabile (la memoria di lavoro, appunto) che permette di ricordare un evento per tempi più lunghi. Inizialmente la sua presenza può passare inosservata perché essa opera per periodi di tempo brevissimi e soltanto in seguito e gradualmente, con la progressiva maturazione della corteccia prefrontale, si stabilizza ed ha una durata crescente. Nei bambini piccoli la memoria di lavoro viene misurata attraverso il test di permanenza degli oggetti, un test messo a punto dallo psicologo Jean Piaget in cui un bambino osserva lo sperimentatore nascondere una ricompensa – ad esempio una caramella – in uno di due possibili nascondigli. Dopo un intervallo di tempo di alcuni secondi il bambino viene invitato a trovare la ricompensa: al di sotto di un anno i bambini non riescono a portare a termine questo compito mentre in seguito, col maturare appunto della corteccia, le prestazioni aumentano e i bambini sono in grado di rintracciare l’oggetto, dimostrando così di averne una rappresentazione mentale che non dipende più dalla sua presenza fisica.

Le persone con lesioni frontali, soprattutto se bilaterali, hanno difficoltà a risolvere compiti di questo tipo: commettono errori che dipendono dalla loro tendenza a cercare ogni volta nello stesso luogo in cui hanno visto nascondere l’oggetto. Questa propensione al comportamento perseverativo è uno dei sintomi più comuni delle lesioni dei lobi frontali che vengono dia-gnosticate, oltre che con tecniche di brain imaging, anche con test e reattivi. Gli studi di brain imaging hanno confermato che nella memoria di lavoro viene attivata la corteccia prefrontale e in particolare l’area 46, con una preferenza abbastanza costante per l’emisfero destro che, essendo più implicato nella memoria spaziale, è più attivo in quei compiti in cui si richiede ai soggetti di prestare attenzione e ricordare la sede spaziale degli stimoli. Per stabilire che la corteccia prefrontale eser-cita un ruolo specifico nella memoria di lavoro sono state presentate ad alcune persone fotografie di volti umani (normali o “rimescolati”, formati cioè da un collage disordinato di parti diverse) ed è stato chiesto loro di tenere a mente l’immagine per 8 secondi e quindi di riconoscerla dopo questo tempo tra due facce, una uguale e l’altra diversa. I risultati di questo esperimento han--no indicato che il lobo occipitale (corteccia striata) ri-spondeva transitoriamente ad entrambi gli stimoli visivi (volti normali e rimescolati); la corteccia fusiforme specializzata nel riconoscimento delle facce e situata nella regione ventrale del lobo occipitale dimostrava una risposta transitoria ma selettiva per i volti normali; infine le aree prefrontali rispondevano selettivamente alle facce e restavano anche attive per tutto il periodo del ritardo.

Un altro aspetto della corteccia prefrontale riguarda la datazione delle memorie, vale a dire il loro ordinamento nel tempo. Le persone colpite da lesioni dei lobi frontali hanno generalmente difficoltà nel datare, organizzare e separare gli eventi in memoria: questo deficit viene determinato con i cosiddetti “test di recenza” che saggiano la capacità di una persona di discriminare tra esperienze più lontane e più vicine nel tempo. Accanto alla disorganizzazione della capacità di organizzare e discriminare le memorie su scala temporale, le lesioni prefrontali interferiscono anche con la cosiddetta memoria della sorgente, il ricordo delle circostanze in cui abbiamo fatto una particolare esperienza: si tratta di un aspetto della memoria episodica che non è circoscritta al ricordo di un particolare fatto ma anche di tempi e luoghi in cui si è verificato un particolare episodio.

Una delle caratteristiche più importanti della corteccia frontale, e in particolare di quella prefrontale, risiede nelle sue capacità associative: tutte le altre aree corticali e gran parte delle strutture sottocorticali, dai gangli della base come l’accumbens a nuclei del sistema limbico, inviano infatti vie nervose (output) alla corteccia prefrontale. Queste proiezioni nervose fanno sì che in condizioni normali la corteccia prefrontale possa integrare tutte le informazioni disponibili nelle altre aree corticali e strutture sottocorticali e svolga quindi un ruolo centrale nei processi esecutivi e cognitivi, dalla presa di decisioni ai giudizi morali. Questo ruolo associativo comporta che un danno a carico di qualsiasi area corticale si rifletta sulle capacità associative e discriminative della corteccia prefrontale, riducendone quindi le competenze. In sostanza, la corteccia prefrontale contiene la tassonomia di tutti i comportamenti esecutivi, delle azioni morali e giudizi etici consentiti, per cui un danno a carico di questa corteccia produce dei deficit dovuti al fatto che essa non è più in grado di mettere insieme tutti i “pezzi”, ovverosia le informazioni cognitive ed emotive necessarie per formulare una valutazione.

Scopi e piani d’azione

Un aspetto fondamentale delle funzioni esecutive riguarda la nostra capacità di formulare un piano d’azione che risponda a un particolare scopo: questo piano d’azione implica che venga delineata una gerarchia delle azioni rilevanti e irrilevanti. Il piano può sottendere un vasto programma nel cui ambito bisogna definire obiettivi immediati, vale a dire un sottopiano coerente con l’obiettivo principale. Queste complesse funzioni implicano la pianificazione e la selezione di un’azione, il monitoraggio dello stato della sua esecuzione/andamento, il rinforzo legato al raggiungimento dello scopo che ci si è prefissi: per quanto riguarda quest’ultimo aspetto sono stati individuati dei “sistemi cerebrali di rinforzo” o di ricompensa (come già notato alle pp. 126-130) che conferiscono una valenza positiva a numerose situazioni, anche se molto diverse tra di loro, e che incentivano alcune condotte piuttosto che altre. Se il processo di “etichettatura” della realtà è di tipo negativo o al ribasso si verifica una disincentivazione del piano d’azione, se è al rialzo l’attesa positiva spinge all’azione. In sostanza, i meccanismi di rinforzo, attraverso l’interazione tra corteccia frontale, le strutture limbiche coinvolte nell’emozione e gangli della base, esercitano un ruolo chiave in funzioni esecutive come la pianificazione e la selezione di un’azione, vale a dire nei processi decisionali.

Oltre alla corteccia prefrontale, anche quella cingolata controlla l’esecuzione di comportamenti orientati verso uno scopo. La corteccia cingolata anteriore è localizzata sulla superficie mediale dei due emisferi e segue il decorso del corpo calloso, il fascio di fibre che uniscono come un ponte l’emisfero destro con quello sinistro. Oltre che negli stati emotivi, questa corteccia si attiva anche nel corso dei processi di attenzione, essenziali in funzioni come il linguaggio per selezionare le parole giuste o per cogliere il significato delle parole udite o lette. Il ruolo di questa corteccia nell’attenzione è evidente anche grazie ad analisi basate sul brain imaging: infatti, nell’ambito del linguaggio l’attivazione della corteccia cingolata cambia in rapporto al livello di attenzione necessaria per eseguire un compito. Ad esempio, si è visto che la corteccia è poco attivata quando si tratta semplicemente di ripetere una parola udita (poniamo “sedia”) ma diventa notevolmente più attiva quando si tratta di generare un verbo semanticamente associato a quel sostantivo (ad esempio “sedersi”). Sulla base dei risultati di diversi esperimenti si ritiene che la corteccia cingolata anteriore sia un sistema esecutivo nell’attenzione: il suo compito è quello di fare in modo che i processi di elaborazione che si verificano in altri distretti cerebrali si svolgano in modo efficiente e facilitino quindi l’esecuzione del compito in atto. Perciò, l’aumento dell’attenzione dipende dal tipo di interazione con una determinata area corticale responsabile di una particolare funzione: se l’interazione è con la corteccia prefrontale il maggiore impegno riguarda la memoria di lavoro, se invece viene amplificata l’attività di uno dei moduli percettivi della corteccia posteriore, riguarda aspetti della percezione visiva o uditiva.

La corteccia cingolata esegue anche un monitoraggio del conflitto che caratterizza tipicamente tutte quelle situazioni che richiedono risposte nuove e comportamenti di un livello di difficoltà superiore alla media. Un caso specifico è quello del test di Stroop: al soggetto viene presentata una lista di parole composta da nomi di colori congruenti (cioè concordanti col colore della parola, ad esempio “rosso” è scritto in colore rosso) o incongruenti col colore dell’inchiostro (ad esempio “rosso” è scritto in colore blu). In questo test il soggetto deve fornire una risposta che è in competizione con un’altra, più prevedibile e abituale: se il sistema di monitoraggio rileva un conflitto ne consegue un aumento dei livelli di attenzione indotto dalla corteccia cingolata. In sostanza, il giro del cingolo, in associazione con la corteccia prefrontale, ha un ruolo nel controllo esecutivo di quei comportamenti che sono orientati allo scopo.

Il lobo frontale è quindi coinvolto in numerosi sistemi funzionali, da quelli che riguardano i contenuti in corso di elaborazione (come avviene per la memoria di lavoro prefrontale) alle rappresentazioni immagazzinate nelle regioni posteriori della corteccia, in grado di promuovere la selezione delle azioni più appropriate. Molti neuroscienziati ritengono perciò che l’interazione tra le reti neurali a livello della corteccia frontale lasci poco spazio al concetto di un agente esecutivo localizzato, una specie di omuncolo che tiri i fili della rete e abbia il ruolo di decisore finale, come è stato spesso ipotizzato nel tentativo di proporre una versione riveduta della res cogitans cartesiana. L’ipotesi che esista un agente esecutivo localizzato in una specifica struttura cerebrale appare ancor meno plausibile se si considera che all’esecuzione di scelte e decisioni compartecipano anche quelle componenti affettive ed emozionali che connotano e danno significato ai nodi della rete, cioè a un’organizzazione distribuita delle funzioni esecutive.