Capitolo 2
Scarlett scostò le tende e lasciò entrare la luce del mattino. Si era alzata con una strana sensazione, una sorta di impercettibile, lieve brivido che le soffiava sull’anima. Accarezzò le labbra con le dita mentre ripensava a quel bacio inaspettato, poi strinse forte il ciondolo che teneva sempre al collo. Un anello dʼoro con una rosa dei venti incisa. Il suo strano, misterioso portafortuna.
Anche se di fortuna negli ultimi tempi ne aveva avuta poca.
Era attratta da Hatwood? Sul serio? Si voltò di scatto, le mascelle serrate, indispettita da quei pensieri idioti. Ne aveva avuto abbastanza di uomini e cʼerano problemi più urgenti di cui preoccuparsi.
Girò gli occhi verso Arabelle, accoccolata nel letto, i capelli spettinati.
La raggiunse con un brutto presentimento nel cuore. «Milady, è mattino, siete attesa per la colazione.» Le annunciò gentile, gli occhi che sondavano il volto della giovane padrona e prendevano contatto con i segni violacei di uno schiaffo. Dʼistinto portò la mano sui suoi lividi e una rabbia cieca iniziò a graffiarle il cuore.
Arabelle socchiuse gli occhi e tra le ciglia comparve una lacrima, poi unʼaltra ancora. «Devi andare da Marise» le mormorò. «Io non lo voglio un figlio da quel maledetto mostro.»
Raggiunse il catino con lʼacqua, immerse lo straccio e strizzò la stoffa così forte che le nocche emersero sotto la pelle, aguzze lame pronte a squarciare il suo senso d’impotenza. Raggiunse Arabelle e le passò la pezza umida sui segni lasciati da Duncshire.
«Non vi preoccupate, sistemerò tutto io.» La rassicurò.
Nel farlo, le balzò agli occhi la solita, assurda soluzione. Era giunto il momento di prenderla sul serio.
***
«Tutto questo è inconcepibile!» La voce era carica di sdegno.
Arrivò priva il profumo delicato, poi il fruscio delle gonne, infine la stanza fu invasa dall’eleganza di sua moglie Rachel.
David Jacobson voltò la testa e la accolse con un sorriso stanco. «Si è sentita la tua mancanza, a cena.»
«Perdonami, ma avrei rischiato di privarti del tuo caro Harrison Duncshire» rispose secca, mentre si avvicinava al calice pieno di liquore che lui aveva lasciato intonso.
Glielo tolse di mano. «Il rum non è adatto a una donna.» Le baciò i capelli biondi. «Lo so che sei agitata, ma andrà tutto bene.»
Con uno sbuffo, Rachel lasciò la poltrona e raggiunse la finestra. «Stiamo mandando Arabelle da sola a Londra. Sola con quel maiale.» Socchiuse gli occhi.
«Non ricominciare. Eri d’accordo anche tu con questo matrimonio.»
La vide chiudere del tutto le palpebre, aspirare il profumo di salsedine. David immaginò dove fosse rivolto il pensiero della consorte. All’Inghilterra, agli anni più gentili della loro giovinezza. Quando erano ancora innocenti e il dovere era una parola sfocata in bocca agli adulti.
«Lo so che non si poteva fare altrimenti, ma hai visto il livido sul volto di tua figlia?»
«Sì, ma non posso mandare Harrison a Londra senza di lei. Occorre una donna al suo fianco, qualcuno che possa muoversi a corte. Sai meglio di me che ad Arabelle manca lʼInghilterra. Laggiù starà meglio. Diventerà una figura di spicco a corte e aiuterà Harrison a calmare il re: Giorgio non sarà affatto contento di sapere che ho trafugato oro spagnolo. Dobbiamo portarlo dalla nostra parte, convincerlo che questʼaffare è proficuo per tutti. Soprattutto per lui.»
Lei lo guardò con astio e David tenne testa a quegli occhi orgogliosi. Erano di un verde chiaro, pallido, appena accennato. Un colore particolare, che rendeva lo sguardo di Rachel irresistibile, profondo. Le luci delle candele ne esaltavano le sfumature, li facevano fiammeggiare come lo spirito unico, intenso, ingabbiato nel corpetto. Rachel pareva fronteggiare gli anni che passavano con una leggiadria fuori dal comune, il tempo disegnava rughe in grado di donarle saggezza, piuttosto che rovina.
La moglie fece un lungo sospiro, prima di rivolgersi di nuovo all’oceano. «Almeno dai loro una scorta.»
«Perdio, ancora! Non ho velieri, Rachel. Dovresti saperlo che la mia maledetta flotta è ridotta all’osso. Se affido una scorta alla Wind of Pride, rimango senza navi» sbottò, irritato.
«Seguila almeno fino alle Bahamas!»
Sbuffò, esasperato. Prese tra le mani le spalle della moglie. «Ne abbiamo parlato. Sai che ho degli affari urgenti da sbrigare. Fidati di me.» Le baciò la fronte. «Andrà tutto per il meglio.»
Rachel ricambiò il suo sguardo, ma era un’occhiata carica di oscuri sottintesi. «Non puoi
biasimarmi. Ho perso la capacità di sperare nella buona sorte.»
«No, non posso.» Le sorrise, mesto, mentre lasciava vagare gli occhi fino al profilo dei velieri che oscillavano in porto. «Ma non possiamo nemmeno vivere in eterno avvolti dalla sua ombra.»
***
Il vento le sputava addosso la sabbia, strappata alla spiaggia che costeggiava la via. Port Royal non era affatto il luogo adatto per una donna, questo Scarlett lo sapeva bene. Le case dei pescatori la scrutavano con sospetto, insieme ai volti degli abitanti che si aggiravano per le taverne. I resti del terremoto, che aveva inghiottito buona parte della città, erano ancora visibili in alcuni punti; cascate di pietre e mattoni, spunzoni di case che emergevano dall’oceano come mostri degli abissi.
Deglutì, e strinse con più forza il pugnale. Il forte si stagliava poco distante da lei. Le fiaccole accese sui bastioni illuminavano le bocche dei cannoni rivolte verso i futuri, possibili aggressori e i profili dei pirati impiccati oscillavano nella sera, con le loro membra avvizzite ricoperte di pece a ricordare quale fosse la giusta strada da seguire.
Le taverne, però, ancora fiorivano di uomini loschi e contrabbandieri. Kingston era rinata all’ombra della vecchia Port Royal, inabissata, a detta di tutti, per via dei suoi vizi e dei peccati. Eppure, in quella parte di mondo dove si erano mischiate insieme le tradizioni dell’Africa e i retaggi della vecchia Europa, tutto si basava su una sola consuetudine. Il commercio, illegale o disonesto che fosse. Le Indie Occidentali erano abitate da predatori, e poca importanza aveva il colore della bandiera sul pennone.
Continuò a camminare, si avvicinò al forte, la risacca lì era quasi assordante. Le onde si infrangevano in quell’anfratto nascosto e oscuro persino di giorno. Si sporse, continuò a scrutare la Chocolate Hole: le imprimeva uno strano senso di paura, ma anche di curiosità. Quella sera vinse la prima e decise che era meglio lasciarsela alle spalle in fretta, inforcando un altro vicolo carico di polvere e sterco. Dalle taverne provenivano le voci concitate degli avventori, le urla e i sospiri. I suoi piedi si mossero più veloci verso lʼanonima capanna a picco sul mare, dove lʼattendeva Marise.
Bussò e un attimo dopo la donna venne ad aprirle. Un misto perfetto di occidente ed esotico. Il nero di pelle e capelli faceva a botte con l’azzurro degli occhi. Uno sguardo velato di fumo, con le pupille sempre distanti, come se fossero rivolte altrove, verso un mondo che i comuni mortali non potevano scorgere.
«Il solito?»
Scarlett si bagnò le labbra ed entrò nel capanno. La familiare zaffata di erbe acide le tolse il respiro. Le luci delle fiaccole si riflettevano sui barattoli che racchiudevano tutto il sapere di Marise. Liquidi bizzarri, foglie essiccate, insetti morti, ossa. Sospirò, agitata, e scambiò una muta occhiata con il teschio che spuntava sul sudicio tavolo principale. Quello sguardo vuoto sembrava scavarla nel profondo, leggere il suo oscuro proposito di morte. Voleva andarsene, e alla svelta.
«Sì il solito. Ma voglio anche una pozione.»
«Per cosa?»
Tornò a fissare il teschio e strinse il sacchetto con le monete, i suoi interi risparmi. Il cuore fece un battito più forte e in fondo a quel rumore sordo individuò ciò che sarebbe successo una volta morto il conte. Un funerale, un viaggio annullato e una vita spenta, per sempre prigioniera di Kingston.
No, non poteva rischiare di non partire. A malincuore dovette desistere. Per l’ennesima volta le mancò il coraggio.
Scosse il capo. «No, non importa.» Sì, era la decisione giusta. «Il solito andrà bene.»
Prese l’intruglio e pagò il pattuito, poi uscì nella sera, pensò ad Arabelle, a tutto ciò che ancora avrebbe subito per mano di Duncshire e si sentì in colpa, ma non poteva fare altro. Doveva andarsene. Era stufa di sopportare le imposizioni degli uomini, prima il padre, poi il marito. Infine il conte.
Aspirò a pieni polmoni lʼaria salmastra. Qualche giorno ancora e poi avrebbe lasciato la misera stanza, dove ogni mattina era costretta a osservare la macchia di sangue. Il suo. Quello che aveva perso quando Rayan lʼaveva fatta abortire a suon di calci. Soffriva ancora al pensiero di come quellʼamore fosse naufragato verso le angherie più nere.
Un fruscio.
Le scapole che sbattevano contro la terra battuta. Il fiato che le si mozzava in gola. Una mano a tapparle la bocca. Spalancò gli occhi. Nella penombra individuò solo delle iridi accese di violenza. Mani svelte che le alzavano le gonne.
Un grido di rabbia stretto in petto. La paura ad assordarle la testa.
Una lama luccicò nel buio catturando il riflesso di qualche fiaccola. Nessuna parola era necessaria. Doveva accettare, subire e forse sarebbe uscita viva. Questo era ciò che le diceva il coltello, quel che si rifletteva nel sorriso ferino che individuò di fronte a lei.
Una mano si insinuò sul collo. La catenina si sganciò con facilità. Era come se qualcuno le avesse strappato le viscere, non poteva separarsi da quel monile, era un compagno misterioso e fedele da troppi anni, ormai. D’improvviso il peso che la schiacciava a terra sparì. Sentì il rumore di un pugno. L’incubo cessò.
«Lasciala!»
Una voce autoritaria. Un tono che non ammetteva repliche.
Tornò a respirare. Tossì e prese contatto con le figure di fronte a lei, riconobbe Hatwood avvinghiato all’uomo. Un attimo dopo l’aggressore cadde a terra e prima di dileguarsi nel buio alzò il volto imbrattato di sangue.
«Sant’Iddio che diavolo ci fai qui a quest’ora della notte?» Hatwood la raggiunse. Sembrava turbato. Furioso, anzi. Le offrì una mano per aiutarla.
Gliela strinse e si rimise in piedi con il sangue ancora in tumulto. Non seppe cosa rispondergli.
«Grazie» mormorò a mezze labbra, mentre indugiava un attimo di più sul profilo deciso di Hatwood che le offriva la catenina. L’anello d’oro scivolò sul suo palmo. Se lo portò al petto.
«Tieni molto a quella collana.» Si era calmato.
Lo nascose nella scollatura. «Non l’ho rubato.» Riacquistò un po’ di sicurezza, abbastanza da individuare un sospetto nella frase appena udita. «Apparteneva a mia nonna. È un portafortuna»
«Te ne ha portata, stasera. Se non fossi passato di qui…» Tornò ad alterarsi. «Cristo, che diavolo stavi facendo?» le chiese per la seconda volta.
«Sbrigavo un affare per la mia padrona.»
«Marise?»
«Vi siete ambientato in fretta. Conoscete già i luoghi più malfamati della città.»
Si strinse nelle spalle. «Certe incombenze maschili possono essere soddisfatte solo da queste parti.» Le scoccò un sorriso malizioso nella penombra.
Le guance le avvamparono, sotto qualcosa di cui preferì non occuparsi.
«Capisco» disse, senza sapere che altro aggiungere.
Continuarono a camminare in silenzio per tutta la strada che conduceva a Kingston. La risacca a fare da sfondo a uno strano imbarazzo che cresceva a ogni passo verso villa Jacobson.
Hatwood sapeva che avrebbe dovuto lasciarla andare senza aggiungere altro. Scarlett era un imprevisto che il destino avrebbe fatto meglio a non mettere sulla sua strada. Il desiderio che provava per lei iniziava a essere pericoloso.
Con il tocco argenteo della luna, quel viso era irresistibile, gli occhi brillavano, ancora sporchi di paura, ma fieri e determinati, carichi di un orgoglio comune a pochi.
Stava per aprire la bocca, pronta a congedarsi. Le afferrò il braccio, con forza. «Ci sono delle voci in giro, si parla di un viaggio verso Londra.»
Scarlett alzò un sopracciglio. «E a voi cosa interessa?»
«Se è vero, lascerai Kingston.»
La vide fremere d’impazienza e sospetto.
«Andarmene da questo posto è ciò che più desidero, ma a voi che v’importa?»
«Potrei non vederti più.»
Gli concesse solo un accenno di sorriso. «Mi dimenticherete in fretta.»
«Non è solo questo!» Si accorse di aver messo troppa enfasi nella voce. «Sono preoccupato» girò lo sguardo verso l’oceano. «La traversata è lunga, non hai paura?»
«No.» La risposta fu secca. «Sono disposta a incontrare Shiver e Redblade in persona pur di lasciarmi questa dannata città alle spalle.»
Le avvolse con più forza il polso. «Attenta a ciò che dici, non porta bene nominare il diavolo.»
«Non sono superstiziosa.»
«E la collana, allora?»
«Quello è un altro discorso.»
«Resta, ti prego.» Stava implorando. Se ne rese conto dal battito del cuore. Avrebbe fatto di tutto per tenerla al sicuro, persino… si morse la lingua.
«Non posso. Devo andarmene.» La vide esitare. «Addio.»
Hatwood la attirò con forza verso di lui. Scarlett serrò le mascelle, il cuore fremette, sotto un battito troppo simile al desiderio. I polpastrelli le saggiarono il collo, scesero oltre il mantello, le carezzarono il corpetto.
Le loro labbra erano vicine, e sentì il bisogno di saggiarle. Credeva di non essere più capace di provare simili emozioni, ma il suo corpo riprendeva vita sotto il tocco furioso e delicato della lingua di Hatwood.
Il bacio divenne carico di passione e le mani scesero a esplorare con più forza le sue forme, fino a stringerle i fianchi in un abbraccio di puro fuoco.
Si scostò, sconvolta. «Addio, Hatwood!» ripeté con la voce strozzata dal cuore in tumulto, poi si allontanò in fretta.
Sulle labbra il rimorso di dover lasciare quell’uomo appena conosciuto. Le aveva fatto assaporare la speranza, si era sentita di nuovo viva e desiderata.
Ma non poteva rimanere. Kingston le stava togliendo l’aria dal petto.
Mentre correva lontano da lui, si girò appena a guardarlo. La fissava immobile, illuminato dalla luna, con il fiocco della parrucca che svolazzava nella brezza.
Hatwood intercettò quell’addio silenzioso e sorrise, sconvolto dall’ardore con cui la desiderava e compiaciuto dall’inconsapevole conferma che gli aveva fornito. Ritornò da dove era venuto, andò dritto da Scrub che bighellonava nel vicolo insieme agli altri. Il naso ancora imbrattato di sangue. Lo chiamò per schiantargli l’ennesimo pugno in faccia.
«Per la miseria!» Scrub si portò una mano sul viso sanguinante. «Vuoi uccidermi, Chr...»
«Sì, ingoiati la lingua, cristo santo!»
«Perdio, me lo hai quasi rotto!»
«E se non stai zitto ti strappo le budella e te le infilo su per il culo finché non ti escono dalla bocca!» Cercò di calmarsi. «Manca poco al viaggio, e tu con la tua voglia di infilare il tuo arnese hai rischiato di rovinare tutto!» Lo fissò, autoritario, rivolgendosi anche agli altri compagni. «Dobbiamo restare calmi e non farci scoprire, o volete finire a penzoloni sul forte?»
Scossero tutti e tre il capo.
«Ora parliamo di cose serie. Avete fatto ciò che vi ho chiesto?»
«Sì, è tutto come pensavamo.»
«Bene» sorrise soddisfatto. «Ora filiamocela da questa dannata città, ci siamo già presi fin troppi rischi.»