Capitolo 18
Michael Orgell guardava senza dire una parola. Insieme al suo equipaggio, osservava in silenzio. Il veliero smuoveva i resti che galleggiavano, alcuni ancora fumanti. I cadaveri pallidi fluttuavano lenti, fantasmi emersi dagli abissi.
Il Jolly Roger di Shiver si era incagliato su un pezzo di legno. Sfigurato a metà, era inquietante e lanciava ancora uno strano senso di superstizione su quella nave ormai distrutta per sempre.
Ci furono pochi commenti di giubilo, la morte penetrava i cuori, lo spettacolo era troppo freddo e desolante per poter sorridere.
Orgell cercò di intuire chi fosse stato l’artefice di una tale vittoria. Rogers o Jacobson? Forse entrambi, in ogni caso voleva ritornare presto da Arabelle. Sperava in cuor suo che l’ammiraglio non avesse scoperto il suo doppio gioco. Diventare fedele al governatore delle Bahamas, era stato un gesto azzardato che gli aveva fatto guadagnare il grado di capitano e poteva affrancarlo dalla sottomissione a un vile e pericoloso come David Jacobson.
Si augurava che l’intercessione di un uomo come Rogers, potesse aiutarlo nel portare a termine la missione che più gli stava a cuore. Sposare Arabelle e abbandonare per sempre le Indie Occidentali.
«Uomo in mare
Orgell prese un cannocchiale e lo puntò nella direzione indicata dalla vedetta. Un corpo si muoveva nascosto tra un relitto che somigliava a una scialuppa improvvisata.
Diede gli ordini per recuperarlo. Poteva trattarsi di un uomo della marina, dopotutto. Seguì i suoi uomini nella lancia, i remi si facevano strada tra fiaschi, corpi anneriti dalle fiamme, brandelli di camicie, botti squarciate. Era come navigare nel più profondo degli abissi oceanici, dove riposavano in eterno tutti i velieri che venivano affondati per colpa di una battaglia o del capriccio del mare.
Remavano cauti, con gli occhi puntati sulla superficie in cerca degli squali, ma non vi era traccia di quelle bestie fameliche, forse avevano banchettato a sufficienza con i cadaveri o persino loro avevano preferito stare lontano dal tetro scenario di devastazione che stavano attraversando.
Raggiunsero l’uomo. Aveva i vestiti anneriti, una gamba fasciata alla meglio e rossa di sangue. Mosse una mano nella loro direzione e aprì gli occhi verdi.
Era impossibile non riconoscere quello sguardo fiero, ingannevole, che tempo prima aveva scambiato per quello di un amico. Ma non ebbe voglia di pronunciare a voce alta il nome di quel naufrago. In cuor suo sapeva che avrebbe fatto meglio a lasciarlo in balia dell’oceano o a trascinarlo verso il cappio che si meritava.
Tuttavia, le sue labbra rimasero serrate, prigioniere di quegli occhi carichi di disperazione, quasi fosse affascinato dalla miseria che si era impossessata di un uomo famoso per la sua invincibilità.
Diede ordine di issarlo a bordo. Le iridi di fronte a lui erano venate si sofferenza e di febbre, ma c’era ancora un barlume di lucidità. Si erano riconosciuti, e un guizzo di gratitudine passò in quello sguardo per metà oscurato dalla morte.
***
Stava esitando.
David era fermo nella penombra dello stretto corridoio della nave, a qualche passo di distanza dalle sbarre oltre le quali era rinchiusa l’ossessione di tutta una vita.
Una morsa sul petto gli impediva di raggiungere la cella in fondo alla stiva, dove lo aveva fatto isolare da solo. Lontano dagli altri pirati.
Aveva aspettato prima di affrontarlo faccia a faccia, al di fuori della battaglia.
Nelle notti degli ultimi anni, si era svegliato agitato, riscosso dal sogno di averlo catturato. Si immaginava trionfante mentre lui subiva, impotente. Incapace di difendersi.
In parte era stato così.
Ma lui sapeva cosa lo aspettava, ora.
Poteva evitare quel confronto, trasportarlo a Kingston senza rivolgergli parola, affidarlo ai carcerieri, ma non voleva mostrarsi così vigliacco. Era risoluto a dimostrargli di essere sereno, di non aver alcun tormento nel cuore.
Indugiò ancora, mentre osservava la figura oltre le inferriate, illuminata dalla fioca lampada di una delle lanterne.
Shiver era seduto, con la schiena poggiata alla parete di legno, le lunghe gambe distese davanti a sé e incrociate, le mani legate dai ceppi, appoggiate in grembo. I capelli ricci sciolti sulle spalle, il viso disteso, gli occhi chiusi.
Se non fosse stato per il sangue incrostato che gli imbrattava la faccia, la camicia lacera e le fasciature che coprivano le innumerevoli ferite guadagnate in battaglia, nulla avrebbe potuto ricordare che quell’uomo dall’aria così tranquilla era un prigioniero a cui era stata affondata la nave.
«Puoi venire avanti, David. Non mordo». La voce sarcastica di Otis lo risvegliò dalle sue riflessioni. Prima di avanzare, alzò il capo.
L’arma che più di tutte temeva di affrontare, era rivelata.
Gli occhi azzurro limpido brillavano, riflettendo la luce della lampada, ed erano inevitabilmente puntati su di lui.
Jacobson coprì la distanza che mancava e cercò di contrastare, come meglio poteva, lo sguardo profondo e lacerante dell’altro. Puntò gli occhi in quell’azzurro, cercando di trasmettergli il suo trionfo, la sua felicità.
«Per uno che ha vinto, hai una faccia da funerale». Nelle iridi di Shiver si palesò un assurdo senso di derisione.
«Sei tu quello troppo tranquillo! Dannazione, hai perso tutto! Sei in trappola, è finita ! Ti sei arreso! Hai perso tua figlia e sei qui a far finta che non te ne importi nulla. Cristo, non ti capirò mai, Otis.»
«So bene che cosa ho perso. Ma non posso divorarti il cuore e risputarlo, per cui me ne starò qui senza regalarti la mia disperazione.» Si alzò e lo raggiunse. I polsi avvolti dai ceppi tintinnarono contro le inferriate che afferrò con le dita sporche di sangue.
«Hai perso
«Oh, sangue di Giuda, David. Non sai ripetere altro?» Gli occhi azzurri si fecero più gelidi.
«Morirai impiccato.» Questa volta riuscì a dare alla sua voce il tono di sprezzo degno di un uomo in trionfo.
Gli rispose la fragorosa risata che conosceva fin troppo bene. «Diavolo, sei scemo ? Quando mi sono inginocchiato a te ero consapevole di quel che mi sarebbe successo, non c’è alcun bisogno che tu me lo ripeta, sperando di spaventarmi. Ho vissuto a Newgate per troppo tempo, una corda al collo può farmi solo il solletico.»
Calò il silenzio.
Shiver si avvicinò ancora di più alle sbarre. «Di’ la verità, te ne abbiamo uccisi parecchi.»
Non rispose, un guizzo di odio puro gli fece fremere le braccia.
Se ne era accorto.
Pur nel bel mezzo di una battaglia persa, si era reso conto delle ingenti perdite che i suoi pirati avevano inflitto alla marina: Jacobson aveva perso quasi l’intero equipaggio di una nave e metà dell’altra.
«Questo non ha nessuna importanza, maledizione ! Levati quel ghigno malefico dalla faccia, cancella quel tuo sguardo strafottente! Non sei più il capitano Shiver, la leggenda è finita
La rabbia filtrò dalla sua gola. Fiele che trasudava dal sudore, dal ritmo folle del cuore in petto. Digrignò i denti, quasi fosse una belva pronta a sbranare.
Otis inclinò la testa, come per osservare meglio qualcosa che non riusciva a mettere a fuoco. «Sei sempre il solito» disse infine. «Prevedibile e noioso, pensavo che questi anni ti avessero migliorato».
Con lentezza afferrò la pistola e la puntò contro il petto oltre le sbarre. Poggiò la canna sul torace abbronzato e sanguinante. Gli occhi chiari continuavano a guardarlo come se fosse un pazzo. Strinse la presa, si chiese se non fosse stato meglio sparare. Ucciderlo con le sue stesse mani. Avrebbe dovuto farlo durante la battaglia.
«Calmati.» La voce risultò perentoria. Come nei pomeriggi in cui si allenavano insieme e lui sbagliava mossa. Un tono rassicurante, un’ancora salda a cui aggrapparsi.
«Per la prima volta sarai un vero eroe. Non rischiare tutto ammazzandomi. Un bel processo e un’impiccagione, è questo che vuoi.»
David tremò. Davanti a lui c’era l’amico, il fratello che tante volte lo aveva consigliato e aiutato. Abbassò l’arma, incredulo di fronte alle emozioni che stava provando.
«Bravo. Il tuo medico avrebbe fatto un lavoro inutile, altrimenti.»
Inspirò. Ecco perché non voleva affrontarlo. Nonostante tutto, Otis aveva ancora una forte presa sul suo cuore. Come poteva biasimare Rachel?
Rimasero in silenzio, a guardarsi.
«Hai una pipa, David? Mi piacerebbe fumare.»
La tirò fuori dalla tasca, ne prese un’altra per sé. Accesero il tabacco insieme.
«Perché?» La domanda arrivò oltre il fumo.
David buttò fuori la sua boccata. «Se ti dicessi che non lo so, mi crederesti?»
Un altro effetto della vicinanza con lui. In un attimo, da ammiraglio trionfante l’aveva tramutato in uomo gravato dai rimorsi. «Ho solo cercato di sopravvivere alle mannaie della corte.»
«Mannaie che non possono rimanere asciutte, ci vuole sempre una vittima fresca.» Otis appoggiò il cannello sulle labbra. «Ma insieme potevamo farcela.» Lo guardò negli occhi e cadde l’odio. La crudeltà.
Davanti a lui c’era solo il suo migliore amico. Quello che riusciva sempre a capirlo.
«Quando ieri ti ho detto che sono stato con Rachel, ho pure sottolineato che alla fine, ti eri innamorato di lei. Pensavo fosse una cosa successa negli ultimi tempi. In tutti questi anni mi sono chiesto perché mi avessi voltato le spalle.» Otis rimase con la pipa in mano. Il fumo del tabacco era una nebbia densa di ricordi che li riportava indietro nel tempo. «Ma ieri ho visto il tuo dolore, la gelosia. Ricordo di aver già visto quello sguardo. Era lo stesso che avevi quel giorno, quando ti dissi che era incinta.»
David deglutì, abbassò gli occhi.
«Tu te ne eri innamorato già allora. Ed era tua, promessa a te in maniera ufficiale, e non hai avuto il coraggio di dirmelo. Penso che tu non abbia avuto nemmeno il coraggio di dirlo a te stesso.»
David si appoggiò alla parete, fissò l’alone della lanterna allargarsi sul legno. «Sì, Otis. Ho preferito dare la colpa alla politica. Mi ha fatto sentire meno...» dovette fare un lungo respiro per ammetterlo. «Vigliacco.»
«Potevi dirmelo. Avrei capito.»
«E che cosa avresti fatto, di grazia?» Tornò ad arrabbiarsi. «Saresti scappato con lei dopo avermi dato una pacca di pietà sulla spalla?»
«Non lo so che diavolo avrei fatto!» Otis urlò, il fumo che usciva dalla bocca come un cratere aperto sull’inferno. «Ma avresti dovuto darmi la possibilità di fare una scelta.» Infilò il viso tra le sbarre. «Io lo sapevo che dentro di te eri corrotto. C’è sempre stato qualcosa di ombroso, di non detto, in te. Ho provato a tirartela fuori, a estirparla come si fa con le erbacce. Forse era colpa di tuo padre, dei doveri riservati al tuo cognome, ma ho sempre sperato che ne saresti uscito vincitore. Che la nostra amicizia ti avrebbe portato a compiere la scelta giusta.» Chiuse gli occhi. «Quando iniziai a indagare, lo capii quasi subito. Sentivo che avrei scoperto qualcosa che mi avrebbe schiacciato. Ma decisi di avere fiducia in te. Con tutto il mio cuore.»
«E io te l’ho spezzato.» David rimase a fissare il vuoto di fronte a lui, incapace di voltarsi. «Nel modo più crudele. Portare Rachel dalla mia parte mi sembrava una buona punizione.»
«Per cosa?» Le sbarre furono scosse da una spinta violenta, ma per l’ennesima volta non trovò la forza di guardarlo in faccia. «Che cosa ti avevo fatto di male? Cosa? Ti ho protetto come un fratello! Ti ho aiutato! Ho raccolto le tue lacrime di debolezza, quelle di fatica. E questo è stato il tuo ringraziamento?»
La voce di Otis era una lama sottile nelle orecchie. Il peso di quell’ombra da cui si era lasciato divorare lo fece sentire piccolo. Insignificante. «L’invidia.» Fece una boccata di fumo. «L’invidia per il modo in cui vi amavate, per il coraggio che vi ha portato a lottare contro tutti. Io non ce l’avevo. Non ce l’ho mai avuto. Mi stavate lasciando da solo. Scappando, mi avete lasciato da solo.»
«Cristo santo.» Otis tolse le mani dalle inferriate e si lasciò cadere sul pavimento.
Non aggiunse altro. Rimase in silenzio.
David continuò a guardare un punto fisso davanti a lui, fino a lasciarsi scivolare lungo la parete. «Quando giunse la notizia del naufragio, di quel veliero di forzati scivolato in mezzo all’oceano, mi sentii sollevato. Te lo giuro, ho avuto pietà di te e ho pianto persino la tua morte.» Allontanò la pipa dalla bocca. «E per assurdo, nonostante l’inferno in cui mi hai trascinato, mi sento come allora. Solo che adesso nessuno può avere pietà di te.» Si alzò dandogli le spalle. «Nemmeno tu.»
***
Puntini neri sull’orizzonte. Contro la distesa azzurra accecata dal sole. Piccole ombre scure che si avvicinavano verso di loro. Quando mise il cannocchiale sull’occhio, Patrick Dalaney iniziò a distinguere la prua di due scialuppe, in apparenza senza alcun occupante a bordo.
Mormorò a mezze labbra una preghiera per le anime che di certo le stavano occupando. Cadaveri di una tempesta o di un arrembaggio. Morti sotto al sole, arsi dalla sete.
Era mille volte meglio morire per un colpo di lama o di moschetto.
L’Artiglio di Tigre continuò a scivolare sull’oceano in quella giornata di assoluta quiete, dove sembrava impossibile pensare ai pericoli. Il vento era più fresco e il cielo così limpido da aprire il cuore a qualsiasi possibilità.
Non ci volle molto. Affiancarono quelle bare dopo poco. Diversi corpi riversi l’uno sull’altro giacevano all’interno. Un carico di morte che dipinse un velo di superstizione sui volti del suo equipaggio.
Poi una mano pallida si levò, agitandosi, e una testa corvina alzò la testa.
Patrick Dalaney non ebbe alcuna esitazione. Ordinò di calare le scialuppe in mare e portarli in salvo.
Quindici uomini in tutto, un ragazzino e una donna dal viso bruciato dal sole e sporco di polvere da sparo e sangue. Indosso una camicia da uomo stracciata e dei calzoni, teneva stretto in mano un cappello.
Quei naufraghi mostravano chiari segni di una battaglia sui loro corpi, graffi e qualche ferita ancora fresca e non grave. Sembravano in buone condizioni, nonostante il sole e la sete patita in mare. L’uomo dai capelli corvini bevve con molta prudenza l’acqua che gli veniva offerta. Piccoli sorsi per non rischiare di sollecitare lo stomaco stravolto dalla sofferenza.
Gli occhi scuri lo fissarono, e il crocifisso rimbalzò sul petto sotto i colpi di tosse. «Chiunque voi siate, vi ringrazio per averci salvato» disse, con voce roca e sofferente. La Spagna che emergeva su ogni parola.
«Che cosa vi è successo?» chiese, mentre gli porgeva una pezza imbevuta per permettergli di ripulirsi.
«L’altro ieri siamo stati attaccati da Shiver.» Un sibilo che immobilizzò l’intero equipaggio.
«Come siete riusciti a sopravvivere?»
«Ci ha affondato la nave, ma stava per arrivare una tempesta e non si è dato pena di inseguirci.»
Le iridi nere erano rimaste fisse nei suoi e qualcosa si era mosso sulla superficie. Dolore, sofferenza. Lo specchio delle atrocità subite.
«Dove eravate diretti?»
«A Londra, ma non credo riusciremo più a raggiungerla in queste condizioni.» L’uomo si passò la pezza sulla fronte dove emerse una ferita ancora pulsante.
«Uno spagnolo a Londra?»
«Può capitare.» Comparve un sorriso complice, screziato di malizia. Gli occhi si spostarono sulla donna. «Volevamo sposarci.»
Dalaney voltò la testa verso la ragazza. Non una parola uscì dalle labbra screpolate. Le pupille erano perse nel vuoto, i capelli folti e ricci le scendevano arruffati sulle spalle.
«Scarlett ha subito violenza. Vi prego di lasciarla tranquilla.» L’uomo si asciugò gli occhi lucidi.
«Non vi preoccupate. A bordo potrete ristabilirvi.» Tese la mano al naufrago. «Noi siamo diretti in Giamaica, signor?»
«Redenso Luserte.»
Patrick fu avvolto da una stretta vigorosa e piena di gratitudine.
***
Gli stavano stringendo i polsi sudati. Quasi volessero farlo diventare una cosa sola con il tavolo. Premevano con violenza. Il bavaglio gli segava le labbra. Le dita che stringevano l’anello chiuso nel palmo. La lama che scavava nella carne. La sentiva penetrare sempre più a fondo mentre le mani estranee continuavano a inchiodarlo al tavolo.
Nella testa, Christopher continuava a rivedere scorci di un incubo. Scarlett, l’incendio, la disperazione con cui si era fasciato la gamba, le ore passate in balia del mare, con il terrore degli squali.
Il dolore alla coscia bucava il velo di febbre. «Non amputatela!» gracchiò mordendo la stoffa. Era davvero la sua voce quella? «Non tagliatela!» gridò di nuovo. La saliva che gli colava sul mento. «Vi prego!» Implorò.
Calde lacrime di disperazione scesero sulle guance roventi. Fissava il volto serio del chirurgo. «Vi prego!»
Umiliazione e dolore si confusero insieme. In un’unica sfocata rappresentazione fatta di puro terrore. Lo sentiva ancora. L’urlo di Scarlett. Gli lacerava le orecchie più della lama del medico.
Christopher pensò di non aver mai sofferto tanto in vita sua. Nemmeno quando era morto Alan si era sentito divorare in quel modo. La paura di averla persa per sempre, di non sapere che cosa fosse successo a Johnny, si mischiava al terrore di un arto segato.
All’invocazione di una morte rapida, perché lui, più di tutti, conosceva come praticare quell’arte. Sapeva come i seghetti consumavano l’osso. Che rumore produceva la lama che strusciava, lenta e inesorabile per poi lasciare il posto al puzzo della cauterizzazione. Non voleva, per nessun motivo al mondo, diventare un volto pazzo di dolore e rosso di febbre che avrebbe passato giorni a sentire una gamba ormai persa, gettata a mare.
«Vi prego!»
Della vita non gli interessava nulla. Aveva perso tutto. Ma non voleva soffrire in quel modo. Voleva solo chiudere gli occhi e andarsene. Per sempre.
La lama finì di straziargli la ferita. Nessun seghetto comparve nelle mani del chirurgo. Solo un’espressione seria, quasi compiaciuta.
«Richiudiamola, vediamo cosa ne sarà nei prossimi giorni.»
Rilassò la schiena madida contro il tavolo, chiuse gli occhi. Stravolto, lasciandosi cullare verso un delirio infuocato.
S
«Mi sembra ovvio che non possiamo andare a Kingston.» Alvaro bisbigliò stizzito, dandosi una lunga occhiata alle spalle. «Ma per il momento dobbiamo starcene zitti e buoni.»
Il rumore ritmico del cucchiaio che graffiava il legno, lo fece voltare verso Scarlett che se ne stava in silenzio, con gli occhi altrove, le labbra serrate.
Durante la fuga sulle scialuppe Jeffry era riuscito a richiuderle come meglio poteva la ferita alla scapola e a parte molti graffi e schegge, non aveva subito altri danni fisici. Non c’era febbre.
Solo silenzio.
Mangiava, beveva. Ma nulla usciva da quelle labbra. Ogni tanto sospirava, ma la sua espressione rimaneva immutata, ferma, immobile, in una smorfia serrata che non trasmetteva nessun tipo di emozione.
Pareva che si fosse trasformata nella polena di una nave che scrutava l’orizzonte, immobile a prua.
Alvaro strinse i denti. Pensava a Christopher che annaspava nell’oceano. A Johnny, destinato a una cruda impiccagione.
Si ritrovò a invidiarla. Forse era meglio rimanere immobili, non muoversi. Scivolare in un oblio e non sentire nulla.
Dimenticarsi del mondo intorno.
Ma Scarlett il mondo intorno lo sentiva.
Non le era rimasto altro che il suono del suo cuore. Calmo, come forse non lo era mai stato. Cadenzato e tranquillo. C’erano i bisogni fisici. La fame e tutto il resto. Persino il sonno. Ma oltre non c’era altro se non una quiete assoluta.
Le voci arrivavano chiare e ogni dettaglio intorno a lei era percepito in maniera vivida. Il vento. Il mare contro le murate. Il cigolio del veliero. Le imprecazioni dell’equipaggio e i colpi di tosse.
E i bisbigli. Un sussurrare che le arrivava limpido. Una parola. Round Robin. Le passò davanti agli occhi l’immagine del pirata che stramazzava al suolo, confusa con un viaggio su una scialuppa verso Devil’s Bay. Quasi risentì la voce di Chris che le spiegava il soprannome di quell’uomo gigante e per metà bruciato.
Il cuore accelerò il battito e la mano si chiuse a pugno.