Capitolo 21
Le numerose persone assiepate nei banchi tossicchiavano nervosamente e si guardavano l’un l’altra. In pochi parlavano, forse per non disturbare la tensione e la curiosità quasi palpabili nella stanza. Eppure, anche se i cittadini presenti in quel tribunale non proferivano parola, si intuiva quali fossero i pensieri racchiusi oltre le labbra.
Avevano paura. Di lui. Nonostante stesse sfilando davanti a loro in catene, con i capelli sciolti e la camicia sporca e a brandelli, tutti quanti gli lanciavano occhiate cariche di smarrimento.
Shiver sospirò, voleva dire loro che non aveva più alcun senso provare quei sentimenti. Non era altro che un uomo stanco e in ceppi, afflitto. Gli sembrava quasi di essere ritornato indietro nel tempo, di nuovo al cospetto del tribunale di Londra, nell’attimo preciso in cui la sua vita era finita in pezzi.
Pensava a Scarlett. Alla vita che non aveva potuto trascorrere con lei. Alzò gli occhi a osservare David, seduto al banco della commissione, circondato dagli uomini di spicco della colonia, affiancato da Rogers.
Si guardò intorno in cerca di Rachel. Era seduta in uno dei banchi a lato, un foulard a coprirle il capo che teneva basso, verso il pavimento.
Fece un sospiro e rimase in piedi di fronte agli uomini che lo avrebbero giudicato.
Il governatore della Giamaica prese la parola. «Voi tutti, in qualità di sudditi del nostro amato Re Giorgio I di Gran Bretagna e d’Irlanda, siete qui oggi chiamati per assistere al processo di questi uomini.»
Era cominciato. Quanto meno stavolta le accuse erano reali, non stupide menzogne.
Furono elencati i nomi dei quaranta uomini catturati con lui. Un appello lungo, tetro. A ogni nome qualcosa dentro di lui moriva. Erano stati la sua famiglia per anni.
«Infine siamo qui a giudicare il capitano della Stella di Giada, conosciuto come Johnny Shiver, ma nato Otis Lyam. È accusato di fellonia, pirateria, assassinio e barbarie verso i prigionieri.»
Jacobson lo scrutava, arrogante e vittorioso. Aprì e chiuse le dita, intirizzite dai ceppi. Faticava a rimanere fermo. Non si aspettava di essere così agitato. Per giorni era rimasto tranquillo. In pace con il destino che lo aspettava, ma ora un’assurda ribellione gli
sconquassava il petto.
Iniziò la processione dei testimoni. Gli arrembaggi, i duelli, ogni cosa fu esaltata. Non era di certo un santo, e aveva commesso torture e omicidi efferati, dimostrandosi impietoso con le vittime, crudele come ci si aspettava dal diavolo. Ma quelle persone raccontavano qualcosa di più, cancellavano ogni traccia di umanità, elevavano la violenza, la condivano con dettagli e storie mai avvenute.
E gli spettatori, silenti e spaventati fino a un attimo prima, divennero rumorosi, con le bocche cariche di insulti e urla. Esorcizzavano la loro paura, sfogavano l’impotenza. Lo rendevano mostro, uno di quelli da uccidere senza remore o indugi.
Per questo aveva giurato di voler morire in battaglia per non dover confrontarsi con ciò che era. Abbassò gli occhi sulla pelle sfigurata dei polsi, aprì il palmo e guardò i calli provocati dalle cime e richiuse le dita a trattenere l’ennesimo fremito di rabbia.
Doveva morire sì, ma non in silenzio. «Potete anche finirla con questi testimoni!» urlò.
L’intero tribunale si girò verso di lui, le voci si abbassarono di un tono.
«Non è concesso agli imputati prendere la parola» lo redarguì David.
«Allora perché mettere in piedi questa ennesima farsa, ammiraglio? Se non posso difendermi trascinatemi dritto al patibolo, oggi stesso.» Lo sfidò, alzando il capo.
«Difendervi? Non c’è nulla di difendibile.» S’intromise il governatore della Giamaica, in qualità di capo del tribunale.
«Lasciategli la parola.» Woodes Rogers intervenne con voce tranquilla, l’inflessione di autorità che riecheggiò in quel tono zittì ogni altra recriminazione.
«Sarò breve. Mi avete chiamato con il mio vero nome, Otis Lyam. Apparteneva a un uomo leale, fedele alla corona, di sani principi morali. Ma è stato tradito e con lui altre centinaia di uomini semplici.» Tese le braccia verso i suoi pirati. «Ognuno di loro è finito qui perché è stato affamato dalla marina britannica o da quella mercantile. Svilito e punito per questioni di poco conto.»
«Ah, diavolo, Otis, stai zitto, finiscila con dignità» ringhiò David.
«Di cosa hai paura? Ciò che uscirà dalla mia bocca non mi salverà dal cappio. Ero un corsaro e per me era lecito uccidere i nemici della mia regina, sono diventato pirata è per me è stato lecito uccidere i nemici della mia vita. Sono stato crudele, lo ammetto, ma volevo solo dire a questa gente che chi mi sta giudicando non è meglio di me.
Woodes Rogers voi sapete come funziona il mondo, avete le mani sporche di sangue
spagnolo, eppure siete un eroe, e, caro ammiraglio, lo sai da solo di cosa sono sporche le tue mani, e tu, più di tutti, dovresti essere qui con me a essere giudicato.»
«Stai zitto, per l’amor di Dio!» David saltò in piedi rosso in volto. «Non aggiungere una parola.»
«Tu mi hai creato, tu dovresti morire con me.»
«Adesso basta!» Jacobson era pronto a scattare in avanti. «Taci, un mostro come te deve solo tacere.» Gli occhi scuri si fecero piccoli, due fessure che conosceva.
Lo stavano per impiccare, nulla poteva scuoterlo ancora, ma lo sguardo del suo vecchio migliore amico, si colorò di un odio così denso che lo colpì dritto al cuore. «Tu non hai il diritto di parlare!» continuò a sbraitargli contro. «Lo sapete che cosa ha fatto questo bastardo?» Voltò la testa rossa di rabbia verso la commissione. «Ha violentato mia moglie!»
Vacillò e il respiro gli si fermò in gola. «Lurido, pezzo di merda!» urlò. Non c’era alcun bisogno di gettare alla folla quel che era accaduto con Rachel. «Lo sai che non è vero!» Sì, era stato pronto a darla in pasto alla ciurma, ma ora lo sapeva, era sicuro che non avrebbe mai dato quell’ordine. «Sei solo un bastardo!» Il dolore che gli dilaniava il petto non era odio.
Tentò di scattare in avanti per raggiungere il tavolo della commissione. Due soldati lo agguantarono con forza, e iniziarono a tempestarlo di pugni, per renderlo mansueto.
La bocca si riempì di sangue e decise di calmarsi. Tornò a fissare David tra il velo di sudore colato dagli occhi.
«Dite che ha violentato vostra moglie?» Il governatore della Giamaica era sbalordito come il resto della sala.
«Sì, lei ve lo confermerà.»
Rachel tentò di nascondere il viso sotto la stoffa, ma era uno scudo debole. Incrociò lo sguardo con David. Sua marito aveva un’espressione che non gli aveva mai visto in volto. Qualcosa di sanguinoso e selvaggio. Sapeva di avergli inflitto una ferita troppo grande, quando era andata a letto con Otis. Quello era il suo modo per punirli entrambi.
«Lady Jacobson, vi ha davvero usato violenza?»
La lista di crimini sciorinata in quel processo era così lunga che uno in più non avrebbe fatto alcuna differenza. Quella domanda era pura curiosità, morboso pettegolezzo che David aveva dato ai porci, pur di trarre soddisfazione.
Rachel teneva gli occhi fissi sul pavimento, le mani strette in grembo, il cuore furibondo. Era giusto.
Tutto quello che stava accadendo nel tribunale era giusto. Un uomo veniva condannato, le vittime ottenevano giustizia. Ma la vita era strana, spesso il confine tra male e bene si sfocava. Troppo per ritrovarlo.
Voleva trovare la forza di parlare, pensare a quanto si era sentita umiliata quando Otis l’aveva legata e trascinata fuori dalla cabina, ma non ci riusciva. In petto sentiva un peso insopportabile, David la fissava.
Che cos’altro poteva fare? Ammettere davanti a tutti che aveva amato un pirata? Ma non poteva nemmeno ripetere in eterno lo stesso errore.
Agguantò le gonne e corse lontano seminando le sue lacrime, via da quella stanza pregna di sudore.
«Mettete al verbale che ha violentato mia moglie.»
Otis sputò un grumo di saliva. «Non cancellerà la verità, ormai dovresti aver imparato.»
David si calmò e sedette. Il viso sbarbato, la divisa impeccabile. Gli sbatteva in faccia il riflesso di ciò che gli era stato strappato. Rimasero a fissarsi per tutto il resto del processo, ore interminabili, in cui continuarono quel muto discorso fatto di ormai vuote minacce e antichi rancori mai capiti.
Arrivò il verdetto quando ormai era buio, e un’aria gonfia di palude soffiò attraverso le finestre aperte. Marcia, putrida. Un’anticipazione di quel che sarebbe toccato al suo corpo.
«Avete terrorizzato i mari per troppi anni, bloccando i commerci e assaltando i velieri ancorati in ogni porto. Avete ucciso, torturato, violando tutte le leggi di nostro Signore e del Re.
Per questo voi tutti, siete condannati a essere appesi per il collo finché morte non sopraggiunga. La sentenza sarà eseguita tra tre giorni, a Gallows Point, e una volta morti, i vostri corpi verranno appesi in catene sul forte di Kingston, come monito per tutti coloro che avranno intenzione di seguire le vostre deplorevoli gesta.
Che Dio abbia pietà della vostra anima.»
Shiver ingoiò la saliva, e voltò lo sguardo dove prima era seduta Rachel. Chiuse gli occhi, avrebbe voluto guardarla. L’addio racchiuso in quell’assenza era più assordante del sangue che gli annebbiava la mente.
***
«Scarlett mi ha sfidato e io l’ho accontentata.» Roberts aveva parlato con voce seria e
cristallina. Scarlett celò lo sguardo di sorpresa. Era stato lui a proporle quell’assurda sfida, ma non poteva tirarsi indietro. C’erano troppe armi puntate su di lei.
«Se vincerà, la seguiremo a Kingston, e insieme la saccheggeremo conquistando lo Smeraldo di Venere.» La ciurma del pirata esplose in un grido di giubilo. «Se perde, ognuno di voi potrà fare di lei ciò che preferisce.»
Scarlett tentò di rimanere calma. Una partita a carte. La sua vita, la vendetta, la speranza. Ogni cosa era appesa a uno stupido gioco di sorte.
Sedette al tavolo di fronte a Roberts. La tenda li riparava dal sole cocente e la risacca del mare addolciva l’aria tesa. Gli uomini del capitano tenevano sotto tiro di moschetto la ciurma dell’Artiglio e lei doveva vincere se voleva salvarli.
Scrutò gli occhi grigio pallido di Roberts. Erano attenti, troppo seri, e non rivelavano affatto un animo incline al gioco. Al contrario, appartenevano a un uomo che sembrava valutare con molta attenzione le opportunità della vita.
Fissò le carte. Non aveva scelta.
Schiatta il cane
era un gioco che si basava solo sulla fortuna. Un mazzo di quaranta carte veniva diviso a metà tra i due contendenti. Poi non dovevano fare altro che prendere una carta dalla cima e girarla sul tavolo. A seconda del valore, l’avversario pagava rimpinguando il mazzo altrui. Vinceva chi per primo rimaneva senza carte.
L’azzardo dei dadi in una versione più estenuante, una partita poteva durare a lungo, in un continuo rinforzo o diminuzione della propria metà.
Intorno a loro si erano seduti i vari esponenti delle ciurme avverse. Sentiva Alvaro respirare con forza, e la canna dei moschetti alle loro spalle era più calda del sole che accecava la spiaggia.
La partita iniziò. Un interminabile scambio di carte alla pari. Ben equilibrato. Scarlett percepiva il sudore colarle lungo la schiena. Poteva perdere tutto e ritrovarsi morta sul tavolo ogni volta che girava una carta troppo bassa.
Iniziava a sentire la gola secca. Voleva urlare, ma il cuore le sbatteva contro il costato chiedendole di farcela. Doveva vincere.
Ci fu una folata di vento calda che smosse appena le carte e una sfortunata serie di scambi, tutti a suo sfavore. Scarlett aveva la mano pesante, stretta intorno alle poche carte che le erano rimaste. La rabbia le sconquassava il petto.
Voltò una carta. Un quattro. Roberts pagò e girò una carta bassa.
Ingoiò la saliva e bevve un sorso di rum. Girò un’altra carta. Un altro quattro.
Era ancora in gioco.
Poi lo vide, il gesto impercettibile di Roberts. Stava smuovendo qualcosa vicino al bordo del tavolo. Barava?
Un misto di rabbia e dolore le fermò il sangue. Era sul punto di urlare, almeno così le avrebbero sparato, e tutto sarebbe finito in fretta. Ma si accorse che la carta voltata dal capitano avversario era bassa.
Lo tenne d’occhio per diverso tempo. Fino a quando si rese conto che Roberts stava sì, barando, ma a suo sfavore. Le stava regalando la vittoria.
Una trappola? Quale assurda macabra tortura le stava riservando quel pazzo?
Senza neanche accorgersene, si ritrovò vincitrice con tutte e quaranta le carte in mano.
Roberts allargò le mani vuote. «Complimenti Scarlett. Hai vinto.» Le lanciò un lungo sorriso furbo. «Sono costretto a seguirvi nella vostra impresa!»
C’era freddo intorno a lei. La ciurma avversaria era ammutolita. Qualcuno iniziò ad applaudire e presto l’acclamarono.
Roberts le tese una mano, per farla alzare. La portò all’interno della taverna.
«Hai barato, ti ho visto» gli bisbigliò. Doveva capire le motivazioni di quell’uomo.
«Sì, e non sei contenta?»
«A che cosa è servita questa commedia?»
Le mise in mano un boccale di birra e abbassò ancor di più la voce. «Volevo seguirvi nella vostra impresa fin dal primo momento, ma avevo problemi con la ciurma, mi occorreva un motivo, oro e argento servono per buttare fumo negli occhi a quegli idioti là fuori. Io so come va il mondo. A Kingston ci sono i magazzini di zucchero e tabacco.» Strinse le spalle. «È con quelli che si fanno i veri affari.»
«Potevi dirlo alla ciurma, per quale motivo mettere in piedi tutto questo?» Era stizzita. Devastata da quella morbosa attesa che aveva rischiato di farla impazzire.
«Non avevano voglia di seguirti, men che meno di dar retta a una donna. Ti serviva un aiuto. La sorte te lo ha dato. Ti ho sfidato in una scommessa e ho perso, e ora saranno così ubriachi da non rendersi conto di quello che stanno per fare.»
Scarlett rilassò le scapole. «Ti ringrazio.»
Roberts le mise una mano sulla spalla. «Credo che tu sia mossa da altre motivazioni. Del
bottino non t’interessa, ho ragione?»
«Sì» ammise.
«È affar tuo cosa ti lega a Shiver così tanto da rischiare il collo.» La guardò negli occhi e diede più vigore alla presa. «Ma non fanno tante cerimonie quando c’è da appendere un pirata. Peggio ancora se è quello che temono più di tutti.» Fece un sospiro. «Potresti arrivare a Kingston quando tutto è finito.»
«Non importa.» Gli sorrise. Una sorta di smorfia che allargò lo sbrego sanguinante nella sua anima. «Io voglio vendetta. E giuro che l’avrò.»