Prologo
Penisola Arabica, Sultanato di Mulay,
Ottobre 1719
La bandiera inglese garriva al vento, il rosso e il blu che risaltavano contro il cielo azzurro.
Il sole era una palla infuocata e dominava l’intera baia di Mulay, i raggi roventi bruciavano le schiene degli schiavi, chini sui blocchi di pietre, il ritmo di un lavoro duro e pesante, scandito dalle mazze che spaccavano i blocchi, dalle frustate sulla pelle di chi si attardava più del dovuto.
Un sibilo e un colpo.
Lo scudiscio s’infranse contro la schiena, un gemito uscì dalle labbra secche di uno schiavo che si era girato a guardarlo. Negli occhi una muta e disperata richiesta d’aiuto.
L’ammiraglio James Skyrm fece un sospiro. Le gocce di sudore scendevano da sotto il tricorno, la benda nera sull’occhio mancante sfregava contro la pelle accaldata. Tirò fuori un fazzoletto e asciugò il sudore, mentre lasciava le schiene rovinate dei marinai inglesi catturati per osservare le guardie arabe che li scortavano.
«Visconte, secondo voi riusciremo a salvarli?»
Henry Jacobson rispose con un grugnito, il viso giovane, affaticato dal caldo, serrato in una smorfia di preoccupazione.
Skyrm tornò a guardare la strada, avvolta da un sottile velo di sabbia. Faceva un caldo dannato, mancava quasi l’aria, sentiva i vestiti appiccicati addosso e la preoccupazione per l’ambasciata che erano venuti a fare aumentava la sensazione di malessere.
Non riusciva a togliere gli occhi dagli schiavi. Cicatrici di frustate, visi stanchi: disgraziati connazionali vittime di un unico, scellerato pirata.
Ahmed, il console di Mulay in Inghilterra, faceva loro strada attraverso la via principale, circondata da edifici con il tetto piatto, così bianchi da riflettere la luce del sole.
Intorno a loro si muovevano centinaia di persone, avvolte in vestiti variopinti. Donne velate che lanciavano sguardi curiosi agli stranieri e uomini dall’aria minacciosa sovrastati da grandi turbanti. Nell’aria un penetrante odore d’incenso e spezie.
James Skyrm ne aveva visti tanti di luoghi esotici, in vita sua. Battaglie e duelli erano il suo pane quotidiano, eppure, nulla lo inquietava più delle alte cupole rotonde e dorate che si stagliavano oltre i tetti, a poca distanza da loro.
Il palazzo del sultano.
Qualche istante dopo si ritrovarono al cospetto dell’edificio. Muri bianchi intarsiati con disegni geometrici e archi zigrinati: un lavoro d’artigianato di una maestria invidiabile.
James varcò la porta, diede un solo leggero sguardo alle guardie in turbante armate di alabarda e continuò a fissare quell’arco immenso, con centinaia di scanalature simili a piccoli denti aguzzi.
Una bocca pronta a divorarli.
Skyrm sospirò d’inquietudine quando Ahmed li annunciò.
Il battente venne spalancato e cigolò sui cardini, un rumore sinistro che gli fece fremere il cuore.
Voleva, a ogni costo, salvare i disgraziati marinai che erano stati tramutati in schiavi da un sultano avido e senza alcuna pietà.
La porta si aprì su una sala alta, da un lato un portico da cui entrava l’abbagliante luce del sole. Skyrm ne seguì i raggi lungo il pavimento intarsiato, fino a posare gli occhi sul sultano, Ali al Shariff Is’mail, bardato in una veste rossa e un turbante bianco al cui centro troneggiava un rubino.
Li fissava con aria truce e poco amichevole.
L’ammiraglio analizzò il volto austero dell’arabo. Una barba folta e nera nascondeva un viso dagli zigomi prominenti e morbidi, gli occhi, scuri e minacciosi, si erano fissati nei suoi e lasciavano davvero poca speranza per la trattativa che erano venuti a concludere.
«Prego, siete i benvenuti» parlò in un inglese stentato, la “r” arrotolata in quella cadenza profonda e particolare, la stessa che Skyrm aveva riconosciuto nella pronuncia della principessa.
Un servo comparve e servì il tè, utilizzando un servizio di fattura inglese. James si chiese se fosse stato trafugato su uno dei tanti velieri imprigionati dal sultano.
Ci fu un pesante momento di silenzio, il vapore si alzava dalle tazze in piccole volute dense, capaci di aumentare la sensazione di caldo soffocante.
Infine, le labbra del sultano si mossero di nuovo.
«Ho saputo che mia figlia, la principessa, sta bene» e portò la tazza alla bocca.
Gli occhi di Skyrm caddero, agitati, sull’elsa d’oro della sciabola posata su un cuscino accanto ad Alì, quasi fosse stata un’altra ospite di quell’incontro. Fu impossibile non chiedersi quante teste avesse mietuto.
«Sì, altezza. È in salute e al sicuro a Londra.»
Henry Jacobson aveva parlato con lentezza. L’agitazione che gli faceva pulsare le vene del collo.
Alì portò ancora una volta il tè alle labbra, per poi fissare con diffidenza le loro tazze ancora intonse.
Skyrm si fece forza e bevve un sorso, imitato dal visconte.
Di nuovo silenzio. La rabbia e la tensione aleggiavano come spiriti maligni. C’erano stati troppi sgarbi da entrambe le parti.
«Al sicuro?»
La voce di Alì al Shariff risuonò minacciosa all’interno della sala.
«Sì, vi garantisco che non le abbiamo fatto mancare nulla.» Jacobson sorrise.
Alì lasciò scorrere la mano fino ad afferrare la sciabola che portò in grembo, accarezzandola. «Era destinata a sposare un principe, lo sapete questo?»
«Sì.»
«Che il vostro pirata ha decapitato.»
«Con nostro grande rammarico. Evry era un criminale, lasciatemi dire che siamo dispiaciuti di non essere riusciti a impiccarlo come meritava. Una morte per malattia è stata fin troppo onorevole per un essere abietto come lui.»
La risposta fu un grugnito.
«Siamo qui per stipulare un accordo di pace, come voi stesso ci avete proposto. Con vostra figlia sana e salva, capite che il mio re vorrebbe veder cessare le ostilità da parte vostra contro le sue navi.»
«Ostilità ?» Alì lasciò il cuscino e li sovrastò. «Io lo chiamerei risarcimento
Era un uomo robusto e muscoloso, famoso per la ferocia in battaglia, per la totale assenza di pietà verso i prigionieri. Un sultano astuto e calcolatore che faceva continui accordi con gli europei per poi romperli a seconda della convenienza. Era avido, vendicativo e da quando sua figlia Leila era stata catturata da Evry, ogni veliero inglese che transitava nel Mar Arabo veniva sequestrato, depredato e l’equipaggio ridotto in schiavitù.
Una situazione che aveva costretto a cambiare le rotte commerciali con l’India oltre che a sospendere i commerci proficui di spezie e stoffe che l’Inghilterra intratteneva da tempo con Mulay. Una catastrofe economica per l’impero, che si vedeva sfilare di continuo navi dalle stive rigonfie e marinai in forze.
«Capisco la vostra posizione…»
«No
Skyrm trasalì per quell’interruzione violenta, Henry strinse ancor di più le mascelle.
«Non capite! Mia figlia è stata violentata e non potrò mai più sposarla a un uomo arabo degno del suo rango. È stata ricoperta di vergogna!»
«Lo sappiamo, per questo abbiamo accettato la vostra proposta» rispose il conte.
«Ahmed mi ha parlato di un duca, non di un principe» ringhiò il sultano. «E si tratta di un uomo con una pessima reputazione! Sappiamo quel che è successo alla sua prima moglie!»
«Si è trattato di un tragedia. Il duca di Groundale è un uomo d’onore, nipote di un re d’Inghilterra, seppure in via illegittima. La sua famiglia gode di molta importanza, è figlio del comandante in capo dell’esercito inglese, membro del consiglio privato del re. Lui stesso è un capitano dei dragoni. E sono molto ricchi.» Henry aveva parlato con entusiasmo e un sorriso di cortesia sulle labbra.
«E in cambio volete che lasci liberi gli schiavi inglesi e smetta di dar noia alle vostre navi?»
«Sì, altezza, come voi stesso ci avete proposto.»
«Leila è musulmana, avete pensato a questo particolare?»
«Sì e faremo il possibile per venirle incontro.»
Alì fece un lungo e profondo respiro, uno di quelli in grado di far vibrare ogni fibra del corpo, di stringere il cuore in una morsa di dolore e angoscia.
Il momento tanto temuto era arrivato e benché avesse già preso una decisione, si rese conto di aver bisogno di un ultimo, solitario momento con i propri pensieri, per poter dar il giusto addio a quella figlia sventurata.
Congedò gli inglesi e Ahmed; rimase da solo, con la sua sciabola in grembo, la cui lama si era mangiata il collo di tanti infedeli.
Fece qualche passo nella stanza, nel tentativo di inseguire il volto di Leila, perso tra la foschia della lontananza. Il suo fiore più bello, reciso dalle mani di uno sporco pirata.
Allah era stato ringraziato innumerevoli volte per averle risparmiato la vita, ma la libertà di Leila lo costringeva a una scelta sofferta e difficile. Farla ritornare a Mulay, voleva dire relegarla a una vita solitaria e carica di vergogna. Non poteva permetterlo.
Il suo era un regno famoso per intrattenere proficui rapporti con gli occidentali e per lo stile di vita dei suoi abitanti, molto più “aperto” rispetto agli altri territori arabi. Era un profondo credente e in passato aveva combattuto diverse guerre in nome di Allah, ma con il tempo si era accorto che era molto più redditizio commerciare con gli occidentali, invece di combatterli.
I suoi figli erano stati perciò educati a conoscere il mondo opposto al loro, istruiti per poter essere interlocutori sagaci in vista di eventuali ambasciate nelle corti europee.
Per questo, fin dalla notizia del suo rapimento, aveva proposto agli inglesi un matrimonio. Leila aveva le basi per potersi integrare nel mondo occidentale e i britannici erano troppo attaccati al commercio per badare al fatto che lei fosse araba e non vergine.
Sospirò. Doveva lasciarla andare. Per sempre.
Ordinò di richiamare gli inglesi.
«Accetto il vostro accordo» disse, mentre osservava il servo versare dell’altro tè. «Mia figlia deve essere integrata nella vita inglese, quindi si dovrà convertire.»
Gli ospiti sgranarono gli occhi, forse sorpresi. «Una decisione orribile per me, ma la migliore per Leila» puntualizzò.
Strappare la figlia alla loro religione era forse il sacrificio più grande. Un peccato agli occhi di Dio, ma non c’erano altre soluzioni.
A Londra non c’era modo per sua figlia di professare la religione islamica. Come poteva integrarsi, costretta a indossare un velo, a pratiche che gli occidentali avrebbero considerato strane? No, voleva per lei una vita serena.
Leila doveva rinunciare a ogni cosa: tradizioni e fede.
Era per il suo bene.
Riprese la tazza tra le dita e chiese ad Allah e a Leila di perdonarlo per quel sacrificio, poi posò la coppa nel piattino e rimase a osservare, malinconico, il suo riflesso ondeggiare sul marrone brunito del tè.