Capitolo 4
Lewis si era dileguato subito dopo averla accompagnata da Giorgio per i saluti. Una fredda formalità, un compito che il marito aveva svolto in fretta per poi abbandonarla.
Leila sospirò, preoccupata. Il re l’aveva degnata appena di uno sguardo. Tutti gli altri l’osservavano con una nota di accesa curiosità che troppe volte sfumava nello scherno.
Sapeva di essere l’oggetto della curiosità di tutti.
Come tutti, in fondo, attiravano la sua, di curiosità.
La corte inglese era un variopinto agglomerato di stranezze, questo Leila lo aveva imparato fin da quando vi era stata introdotta.
C’era un re senza una regina che si accompagnava a un’amante da cui aveva avuto tre figlie illegittime. L’erede al trono, Augusto, che per tre anni, dopo una furiosa litigata con il padre, era stato esiliato da St. James e aveva replicato una corte di tutto rispetto in un altro palazzo. Due servitori turchi che non lasciavano mai il sovrano e una quantità indefinita di nobili e ministri che non sapevano nemmeno parlare inglese, come il re, dopotutto.
Di quella corte si potevano dire tante cose, tranne che fosse ordinaria.
Lasciò vagare lo sguardo intorno a sé. I tavoli da gioco erano affollati di donne imbellettate che ridevano dietro ai ventagli. Di Lewis nessuna traccia.
Augusto fissava la maniglia, indeciso sul da farsi e travolto dai rumori della festa privata del padre che gli provocavano una strana fitta allo stomaco.
«Altezza, sentite la mancanza della vostra corte di Leicester?»
Augusto abbassò gli occhi verso il duca di Groundale. Lewis era mollemente adagiato sulla poltrona imbottita, i piedi incrociati, le braccia allargate sui braccioli. Indossava uno splendido abito di un blu accesso, ricamato con decori d’argento. Gli alamari catturavano la luce dei candelabri, al collo portava un fazzoletto di pizzo bianco e il viso era incorniciato da una lunga ramillies di riccioli con il codino ornato da fiocchi blu.
«Moltissimo, duca. Mi chiedo se sia stata davvero una buona idea fare pace con mio padre.»
«Non vi era molta scelta.»
Il principe del Galles rimase qualche istante in silenzio. Sapeva di aver sancito quell’armistizio solo per il bene della nazione. Di certo, senza gli assennati consigli del giovane amico che gli stava davanti, avrebbe finito con il farsi diseredare.
«Altezza. Eccovi qua.»
Il padre di Lewis, duca di Evonshire, entrò nella piccola anticamera. La faccia tesa, le rughe sulla fronte spesse e corrucciate.
«Vi vedo preoccupato. è intenzionato a partire per Hannover?»
«Purtroppo sì.»
«La faccenda si complica. Fuori dal nostro controllo il re diventa vulnerabile» aggiunse Lewis.
«Non posso aiutarvi. Ho provato a fargli capire quanto sia complicata questa situazione, ma è una causa persa.» Il principe fece un sospiro sconsolato, mentre osservava, dallo spiraglio della porta, Melusine von der Schulenburg, l’amante del padre da quasi trent’anni.
«Principe, dovreste sforzarvi di andare d’accordo con vostro padre. I giacobiti sono di nuovo all’opera.» Lawrence aveva parlato con un tono gravido di pericolo.
«Mi chiedete un enorme sforzo. Lo sapete che ancora non mi permette di vedere i miei figli!»
«Scusate la franchezza, ma voi siete stato in parte la causa di tutto questo.» Evonshire aveva parlato con estrema calma e gli occhi brillanti di rimprovero.
«Per quanto mi rinfaccerete la lite con il duca di Newcastle?»
«Fino a quando non capirete che l’irruenza non vi serve, se volete davvero dimostrarci di essere migliore di vostro padre.»
Augusto strinse le mascelle. La lite di tre anni prima aveva messo a dura prova la tenuta del suo casato e dell’intera Inghilterra. E tutto per uno stupido battesimo, ma si era trattato solo di un pretesto: l’astio tra lui e il padre affondava le radici in un passato fatto di rancori e incomprensioni.
«Come sempre, sono nelle vostre mani.» Li salutò entrambi. «Avete la mia fiducia.» E si congedò.
Lawrence Hawk osservò l’uscio della porta richiudersi, prima di abbassare lo sguardo verso il figlio. Lo scrutò fino a quando Lewis non si rese conto di essere oggetto di attento studio.
«Che cosa vi turba, padre?»
«Non occorre che vi risponda.»
Ci fu uno sbuffo scocciato. «Mio caro padre, sono stato rinchiuso a Berwick per qualche mese, è vero, ma so ancora giocare a questo gioco.»
«La partita è difficile. Sappiamo entrambi che ci sono in campo giocatori piuttosto imprevedibili.»
«Sì, lo ammetto. Sono bravi, ma sono sicuro che sapremo cavarcela.» Il figlio sporse il busto verso il mobile, avvolse il bicchiere con le dita e se lo portò alla bocca.
Lawrence ne seguì lo sguardo oltre l’uscio semi spalancato che dava sul salone. Francis Jacobson era fermo poco distante. «Siamo alleati di Ralph Ferdinand Jacobson. È ancora potente, meschino, bastardo e infimo come sempre, ma ha troppi interessi utili al regno, dobbiamo controllarli con lui. E di conseguenza dobbiamo andare d’accordo con i suoi figli.»
Lewis rovesciò la testa indietro, fissò il soffitto. «Non amo molto che mia sorella sia usata come chiave di volta per gli interessi nelle Indie Occidentali.»
«E della Compagnia dei Mari del Sud, non dimenticatevelo.»
«Grazie a Dio, Nora e Henry si amano. O almeno spero.» Riportò il capo in posizione eretta e lo fissò dritto negli occhi. «Quel musicista italiano, quel Colonna, non vi impensierisce?»
Lawrence alzò il sopracciglio. «Un abile compositore, dicono anche che sia molto bravo con la pittura. I duchi di Modena garantiscono per lui. Francesco d’Este è tenuto in gran conto dal re.»
«Sì, ma pare che sia originario di Roma, un particolare non indifferente, di questi tempi.»
«Ha studiato a Roma solo per un po’… L’ho tenuto d’occhio. Si tratta di un artista benvoluto dal principe del Galles e da sua moglie. Tutto qui.»
Il figlio fu in piedi con un balzo. Tornò ad avvicinarsi alla bottiglia. «A ogni modo, non mi piace come Colonna guarda mia sorella.»
Lewis infilò una mano nella tasca; le dita riemersero con una piccola scatolina da cui prese una pastiglia, se la infilò in bocca e la buttò giù con un sorso di liquore. «Comunque, tornando al discorso principale, ho preso da voi, padre, vi conosco. Vi rode avere Francis che striscia intorno a Nora. Non fate finta che non ve ne importi.»
«Certo che me ne importa, come m’importa della vostra salute. Che ne dite di tagliarla con il brandy e il laudano?»
A Lewis sfuggì una risata nervosa, mentre appoggiava le spalle contro il muro e osservava gli invitati oltre la porta. Tornò a fissare il padre. «Il dottor Howard mi ha detto che mi aiuta per i dolori.»
«Sono preoccupato per voi, Lewis. Siete quasi morto a Messina e mi siete mancato in questi ultimi tempi. So quanto deve essere stato difficile per voi rimanere confinato a Berwick per ristabilirvi e non voglio che istinti di vendetta arrivino a oscurarvi la mente. Ho bisogno di voi, Lewis, della vostra testa.» Lawrence fece un sospiro. «Nel laudano c’è l’oppio.»
«Sì, e quale sarebbe il problema? È la medicina per tutto» tagliò corto, gli occhi che tornavano verso gli invitati per sfuggire a quelli attenti del padre.
Sapeva dove fosse diretto quel discorso. Una meta che non gli piaceva e da cui voleva stare lontano, ma il duca di Evonshire non era intenzionato a mollare la presa.
«Il vostro corpo ha subito tante ferite, Lewis. Capisco che non deve essere stato semplice finire in mano ai giacobiti a soli vent’anni ed essere frustato a sangue. Da allora usate il laudano in maniera continua, come fanno tutti del resto, ma non vorrei che lo faceste per altri motivi. So che due anni fa avevate conosciuto un olandese in una casa da tè, e so che loro hanno iniziato a usare l’oppio come tabacco a fini, diciamo, ricreativi. Arrivano certe storie dall’Oriente su questa pratica che sono piuttosto preoccupanti, non vorrei che…»
«Basta! » tuonò Lewis.
Un tono fin troppo deciso che si affrettò a mascherare sotto un’espressione più serena. Inspirò ed esercitò il controllo che l’uomo di fronte a lui gli aveva insegnato fin da quando era un bambino.
«Non una parola di più, ve ne prego!» non voleva rivangare i cruenti ricordi di due anni prima e non riusciva a negare al padre che sì, quella tecnica l’aveva provata e si era reso conto che il laudano, se abusato, dava gli stessi effetti.
Euforia, disinibizione, e se usato in combinazione con l’alcol poteva cancellare qualsiasi angoscia.
Poteva liberare.
«Sto bene e sono di nuovo qui ora, la convalescenza è finita» sorrise, mentre i suoi occhi seguivano Leila, impegnata a chiacchierare con Aileen.
Moglie e amante erano l’esatto opposto. La prima era un’armonia di toni scuri, la carnagione che sembrava ricoperta da un fine tocco d’oro. La seconda, un misto di porcellana rosata e azzurro primaverile, con le lentiggini e i capelli che viravano dal biondo scuro verso il castano ramato.
«Aileen dovrebbe trovare un marito.»
Lewis guardò di sottecchi il padre ma non disse nulla.
«Figliolo, non mi era sembrato il caso di rimarcare sul punto ma, visto come stanno andando le cose, sono costretto a ricordarvi l’ovvio.»
«E sarebbe?»
«Un matrimonio, per essere legale, deve essere consumato.»
Irrigidì la mascella. «Adesso mettete becco anche nella mia stanza da letto? Che ne sapete di cosa abbiamo fatto, non sono uno sprovveduto…»
Il padre lo interruppe. «Ed io non sono nato ieri, Lewis. Voi non siete ancora andato a letto con vostra moglie. Tralasciando le chiacchiere dei domestici, ve lo leggo in faccia.»
«Volete una confessione?» Sbuffò. «Sapete che non volevo affatto questo matrimonio. Non volevo nessun matrimonio. Particolarmente questo! Una donna impaurita dalla vita e straniera.» Cercò di calmarsi. «Aileen era la soluzione…»
Lo afferrò per un braccio. «Il console arabo è appena rientrato da Mulay. Un uomo piuttosto curioso e irascibile. Se per caso venisse a sapere che il matrimonio non è consumato, potremmo avere degli altri guai con il Sultano.» Gli sorrise. «Fate il vostro dovere.» L’espressione divenne maliziosa, mentre entrambi posavano lo sguardo su Leila. «Per quanto straniera, non è di certo una moglie con cui è sgradevole condividere il letto.»
Leila era sempre più a disagio, forse persino offesa dal modo in cui il marito l’aveva abbandonata a se stessa. E poi le pareva di essere del tutto fuori posto in quel salone. In testa c’erano le vecchie abitudini, quelle riaffiorate insieme alla vita da duchessa in cui l’avevano trascinata. Per lei era inevitabile pensare alla corte di suo padre, con regole del tutto diverse, dove uomini e donne si muovevano all’interno di uno schema definito da veli e distanze. Attorno a lei, invece, era un tripudio di sguardi maliziosi, scollature provocanti, colli esposti ai sussurri degli uomini e solo un ventaglio con cui coprire un commento più vivace.
Aprì il suo e nascose le labbra, gli occhi soddisfatti, fissi su Lewis, seduto a uno dei tavoli da gioco. Per un attimo i loro sguardi s’incrociarono, una scintilla di un istante che bastò a farle fremere il cuore.
Iniziò a muovere il ventaglio con forza, l’aria le sferzava la faccia con irruenza, muovendo le ciocche lasciate libere dall’acconciatura.
Aileen le posò le dita sul braccio. «Con meno foga, o capiranno tutti che siete agitata» le bisbigliò.
«Ma io sono agitata, Aileen. Non ho idea di cosa debba fare. Raggiungerlo al tavolo?»
«Siete sua moglie.»
Leila intravide un’ombra passare sul volto della dama di compagnia. Il tempo di un istante, poi Aileen tornò alla sua espressione allegra. Eppure, quei bagliori scuri che di tanto in tanto velavano il sole pallido della donna, iniziavano a provocarle un incomprensibile guizzo alla bocca dello stomaco.
Come se il suo istinto tentasse di metterla in guardia da qualcosa. E aveva paura di capirne il motivo. Allungò una mano a sfiorare il braccio di Aileen. Quella donna, in fondo, era per lei la cosa più simile a un’amica. Non voleva perderla.
Cercando di rimanere tranquilla, iniziò a camminare verso il tavolo da gioco.
Aileen la seguì, in faccia un sorriso sereno. La relazione con Lewis la costringeva a scegliere tra un sentimento pericoloso e una timida amicizia.
Chiuse appena gli occhi, mentre seguiva Leila che si avvicinava alla sedia. Quella dove aveva trascorso le serate negli ultimi tempi.
La sua sedia.
Aileen ebbe un tremito e si rese conto di essere rimasta ferma in mezzo al salone, Leila non aveva ancora raggiunto il tavolo e così la fermò. Sulla bocca una scusa qualsiasi. Aveva bisogno di tempo per abituarsi a quel nuovo equilibrio. Prese per mano la duchessa di Groundale e insieme si avvicinarono a Nora, estasiata da uno dei tanti racconti di Lorenzo Colonna.
«Groundale, ancora non avete investito nella Compagnia dei Mari del Sud? Le azioni continuano a salire, è un ottimo investimento.» Francis lanciò i dadi sul tavolo e distolse per un attimo lo sguardo da Nora.
Lewis alzò appena gli occhi, arrogante come sempre. «V’interessate di finanza, Jacobson? Credevo che voi aveste ben altri pensieri per la testa.» Groundale raccattò le sue fiches, poi aumentò il sorriso arrogante. «Per esempio, arricchire le taverne di Wapping.»
Francis prese il bicchiere e scolò tutto il vino. Sulla fronte gli scendevano grosse gocce di sudore freddo. Nervosismo causato dalla faccia da damerino che si ritrovava davanti. «Non credevo che avessimo dei piaceri in comune.»
La battuta provocò un momento di silenzioso imbarazzo.
Hawk appoggiò la schiena contro la sedia, con aria indifferente. «La Compagnia potrebbe contare su basi molto più solide, se vostro fratello David in Giamaica si decidesse, una volta per tutte, a liberarsi dei pirati.»
«Quindi devo dedurre che non vi fidate della Compagnia?» Francis prese le fiches con troppa agitazione.
William Layer, accanto a lui, gli posò una mano sul braccio. L’avvocato più in vista di Londra, impiegato proprio nella Compagnia, fece ondeggiare il liquido rosso nel bicchiere. «Voi e vostro padre siete nel consiglio privato: quel che Jacobson vuole sapere è da quale parte state.»
«Da quella del buon senso. Stiamo solo aiutando il re a valutare i pro e i contro. Nulla di più. Siamo sicuri che sia un buon affare per l’Inghilterra?»
«Ne ha ricomprato l’imponente debito!» gracchiò Francis, in tono ovvio.
Lewis si adombrò per un istante. «Appunto. Se i guadagni che promettono si avvereranno, i capi della compagnia diverrebbero così potenti da poter ottenere la guida del governo e se…»
«La Compagnia fallisse, il regno finirebbe nel caos, facile preda di sciacalli papisti.» Concluse Layer.
«Siete consapevoli, allora, dei rischi che si è assunta la società per cui lavorate?» chiese Hawk, allegro, mentre lanciava a sua volta i dadi.
Layer alzò le spalle. «Credo solo che in troppi si stiano mettendo a fare l’uccello del malaugurio.»
«Vi riferite a Robert Walpole? Il parlamento fa solo ciò che ritiene migliore per l’Inghilterra» rispose Groundale.
«E voi?» Francis lo fissò dritto negli occhi.
«Io? »
«Agite per il bene del regno?»
«Mi sembra naturale.»
«Non si direbbe, visto ciò che avete combinato con la vostra spada.» Francis godette dell’ira che attraversò le iridi di Lewis. «Bandire un valido ufficiale scozzese solo per gelosia.»
«Potrei sempre decidere di fare lo stesso con chi non trattiene le parole.» Groundale allargò il sorriso arrogante e gli lanciò i dadi con un gesto in apparenza indifferente, in realtà carico di un istinto omicida che Francis poteva riconoscere senza errore.
Tra i giocatori era sceso un silenzio quasi tetro.
Lewis continuava a fissarlo con sguardo maligno. Francis aspettava con trepidazione l’accesso di rabbia che sarebbe scoppiato. La scenata in grado di mettere in cattiva luce il distaccato e indifferente figlio di Evonshire, facendo risaltare quanto ormai fosse inadatto a ricoprire il ruolo di spicco nel circolo privato del re e del principe.
Tuttavia, Lewis rimase zitto e accolse con un sorriso la sorella Nora che si era avvicinata al tavolo, seguita da Lorenzo Colonna e da Henry Jacobson.
Francis salutò il figlio a malapena e puntò invece gli occhi sulla generosa scollatura di Nora. Il viso ovale, i capelli biondo scuro e ondulati che scendevano in due ciocche lungo il collo, gli occhi castani grandi e profondi. Una bellezza così innocente che scaldava all’istante gli istinti più insani.
L’arrivo dei tre aveva smorzato il silenzio, tutti si erano di nuovo distratti e Lewis ne aveva approfittato per raggiungere Francis.
Si chinò su di lui con la dannata voglia di sgozzare quella gola malefica e inondare di sangue il tavolo da gioco. Voleva strappargli la lingua, fargliela mangiare. Quel bastardo aveva riversato sulla corte pettegolezzi maligni sul suo matrimonio con Mary, e aveva lanciato l’accusa infamante che ancora gli stava appiccicata sulla schiena.
«Provocatemi quanto volete, ma se voi fisserete ancora una volta mia sorella come avete fatto prima, vi giuro che vi ridurrò in così tanti piccoli pezzettini che non riusciranno mai a ricomporvi, sono stato chiaro?» La voce quasi impercettibile, in faccia un sorriso. Nessuno dei presenti poteva aver udito la minaccia appena pronunciata.
Jacobson era sbiancato, ma sostenne la sfida. «Se volete un duello sono sempre disponibile. Oppure temete che Giorgio s’arrabbi, se sfidate un Lord dell’ammiragliato?»
«Piccola serpe malefica, attento a ciò che fate. Come sapete, trattengo meno la spada della lingua.»
Francis prese i dadi e rise. «Duchessa!» esclamò ad alta voce, il tono carico di malizia, mentre puntava lo sguardo infido verso Leila, che si era appena seduta.
Lewis s’accorse d’aver trattenuto il respiro. E non capiva se era per la rabbia instillata da Francis, per la gioia di ritrovarsela davanti o per il guizzo di gelosia che aveva attraversato gli occhi di Aileen.