Capitolo 12
«Melusine non ha badato a spese.» Evonshire alzò il calice colmo di vino rosso e lo osservò alla luce del lampadario sopra la sua testa. Il liquido assunse le più accese colorazioni del rubino. «Quante bottiglie di Claret
verranno stappate per il compleanno del re?»
Augusto vuotò il suo calice con una smorfia di disappunto. «Troppe, duca.» Il principe scosse il capo. «Melusine non fa altro che spendere sterline per accattivarsi l’ammirazione o addirittura l’invidia degli inglesi. Mi chiedo da dove prenda tutto questo denaro.»
Lawrence tenne in bocca un sorso di vino e ne assaporò il profumato aroma delle campagne francesi. «Non lo avete ancora capito?»
«Forse sì, ma ho paura ad ammetterlo.» Augusto fece un sospiro sconsolato. «Se qualcuno dovesse scoprire che la famiglia reale accetta delle tangenti per…»
Il principe del Galles lasciò cadere la frase e Lawrence assottigliò appena lo sguardo. C’era qualcosa di diverso nelle movenze di Augusto, nel suo modo di parlare. Una nota di sospetto, ben nascosta, che tuttavia emergeva con chiarezza dal modo rigido in cui il principe teneva il busto.
«Tangenti?» bisbigliò Lawrence. «Ho capito, temete che Melusine abbia incassato denaro per garantire l’appoggio dei reali nel Parlamento, quando dovrà passare la legge per assegnare il monopolio alla Compagnia dei Mari del Sud?»
«Sì.» Il principe bevve un sorso di vino. «è
un gioco pericoloso, non è così?»
Lawrence assaporò a sua volta il vino. Con deliberata indifferenza, prima di rispondere, lasciò vagare gli occhi sul salone. Il principe era sagace, intelligente ma di certo non poteva batterlo. Augusto voleva fargli scoprire le carte, e aveva finito per rivelare le sue. I reali erano tutti coinvolti, non solo Melusine, questo lo sapeva da qualche tempo, ma qualcosa era giunto al loro orecchio e li aveva messi in allerta.
«Temete che qualcuno possa usare queste informazioni per ricattare vostro padre?» Pronunciò la domanda con sfrontatezza. Finì il bicchiere e da oltre il bordo vide l’impercettibile movimento di una ruga sopra l’occhio.
Aveva colto nel segno, sospettavano. Di lui.
«Finché le azioni della compagnia sono così alte, non avete nulla da temere.» Assunse un tono complice, deciso a lasciarlo macerare in quel sospetto. Così facendo, le menti dietro a
quel gioco avrebbero finito con l’esporsi. Esisteva un registro nero della Compagnia dei Mari del Sud, le spie gli avevano riportato la notizia da poco. E quel libro mastro era puro oro nelle mani di chi volesse riacquistare il potere perduto.
Sapeva dove puntare il suo sguardo. Ralph Jacobson, appena entrato nel salone, parve per un attimo contraccambiare quella muta sfida che aleggiava sopra le teste degli invitati, agghindati di tutto punto.
Ogni nobile inglese sfoggiava i propri gioielli migliori e gli abiti più preziosi a testimoniare la loro ricchezza, e il vanto di essere intimi di un re ancora diffidente verso il suo popolo.
Il salone di St. James era una cacofonia di voci, risate, sventolio di ventagli, tintinnare di calici.
Acqua di rose, cipria, vino… odori intensi che, come sempre, davano il capogiro al console di Mulay. Ahmed lasciò correre lo sguardo su Leila e l’ampia scollatura quadrata. I capelli erano raccolti sul capo, solo due boccoli fini e leggeri scendevano ai lati delle tempie. La pettinatura esaltava il viso dalla fronte spaziosa, gli occhi grandi, gli zigomi alti e le labbra corpose che desiderava assaggiare con troppo ardore.
Fissò gli orecchini di zaffiro che si muovevano ogni volta che Leila spostava il capo, e si chiese se fosse lecito provare tutta quell’attrazione per la donna che, fino a qualche anno prima, era irraggiungibile.
Un miraggio del deserto che poteva solo ammirare. Ripensò alla paura provata ogni volta che aveva pensato di avvicinarsi a lei. L’ombra della sciabola di Is’mail pronta a staccargli la testa. Ma il sultano era lontano ormai.
Era davvero una buona idea insistere per convincerla a tornare a Mulay, per aiutare Abbass? Non era invece meglio rimanere lì, dove forse avrebbe potuto…
«Console.»
Ahmed si rese conto di essere rimasto immobile, con una strana espressione sul viso, e si affrettò a riappropriarsi del suo cipiglio severo. «Lady Campbell» mormorò con lentezza, intenzionato a non scivolare sull’inglese. «Siete incantevole» le disse, imitando le frasi di cortesia che sentiva spesso pronunciare dagli altri uomini.
«Vi ringrazio.» Aileen accentuò il sorriso e Ahmed ne ammirò il profilo. Il volto era più morbido rispetto a quello di Leila, e gli occhi azzurri, limpidi e profondi, infondevano un senso di serenità che contrastava con un velo appena accennato di tristezza, come se all’interno di quelle iridi vi fosse di continuo una lotta tra antichi dolori e nuove speranze.
Le ciocche chiare catturavano la luce dei candelabri e d’improvviso s’irrigidì, sotto una
nuova consapevolezza. Trovava quella donna attraente.
Per rimettere ordine nel suo equilibrio voltò deciso il capo verso Leila, che conversava con altre dame.
«La duchessa inizia a essere a proprio agio a corte, non trovate?»
La domanda di Aileen lo costrinse di nuovo a prestarle attenzione. «Sì, senza dubbio» rispose, il tono un po’ scettico. «Ma forse sarebbe meglio se fosse accompagnata dal marito.»
«Il duca di Groundale è ancora convalescente.» La donna serrò le mascelle in un’espressione di disappunto che la rese ancora più deliziosa.
Ahmed trattenne un moto di stizza. Stava prendendo tempo. Quello era un buon momento per fare leva su Leila, riportarla indietro e sperare di riuscire a conquistarle il cuore. Tuttavia, si rese conto di essere più che mai indeciso. A Mulay era solo un servitore del sultano, un uomo devoto all’obbedienza, ma in Inghilterra era diverso. Un console arabo rispettato, tenuto in gran conto, che non doveva sottostare alle regole con le quali era cresciuto. Era libero di desiderare, corteggiare e ammirare chi voleva.
Per la prima volta, individuò qualcosa oltre l’orizzonte della propria devozione.
Leila portò le labbra sul bordo, alzò appena il braccio e finse di bere, non aveva alcuna intenzione di spiegare il motivo per cui non assumeva alcol. Si sentiva distesa, per la prima volta riusciva a sentirsi a suo agio, nonostante la mancanza di Lewis e la strana freddezza che era tornata a imprigionarlo dopo il risveglio.
«Duchessa, siete davvero splendida.»
Leila ebbe l’impressione di aver sentito una lingua viscida leccarle la schiena. Il tono, gli occhi. Francis Jacobson la stava fissando con uno sguardo che ricordava troppo da vicino Evry.
Si rese conto di essere spaventata. Da sola, era costretta ad affrontare un uomo che, a detta dei pettegolezzi di tutti, era forse uno dei più lascivi e pericolosi di corte.
«Conte Jacobson» rispose. Riuscì ad apparire sicura. «Come state? Vi sta…» Deglutì. Non doveva sbagliare parola. «Piacendo la festa?»
Jacobson diede un’occhiata ammirata intorno a sé. «Deliziosa, come il vino.» Un’espressione beffarda e crudele passò sul volto. «Che peccato. Vostro marito se l’è persa.» Vuotò in maniera poco educata il calice, alzando il braccio con un gesto sguaiato. «O magari, invece, Groundale è qua intorno. A lui piace starsene in disparte, osservare come un rapace. Vostro marito è un uomo bizzarro.» Di nuovo un sorriso spietato, impregnato d’odio.
«Pericoloso.»
Leila voleva portarsi la mano sul petto e imporre al cuore di starsene quieto. Gli occhi dell’uomo davanti a lei sembravano due buchi verso l’inferno. Liquidi, privi di ogni umanità. Folli.
«Credo che mio marito sia dove debba essere: a letto.» Riuscì a rispondere con un tono deciso. «Vogliate scus…» e stavolta non fu l’inglese a tradirla, ma la mano di Francis che, gelida, prese contatto con il suo braccio.
«Non così in fretta, duchessa. È arrivato il momento che voi conosciate la verità.»
Mary.
Quel nome prese a battere furibondo insieme al cuore e, nonostante il disgusto, rimase dov’era, senza accennare ad andarsene.
Francis aprì la bocca per parlare e in quel momento Leila percepì le teste degli invitati muoversi, come un’onda, nella stessa direzione. Qualcosa era appena successo. Qualcosa in grado di distrarre dalle solite chiacchiere.
Leila fece lo stesso e si scontrò con lo sguardo di Lewis, appena comparso in sala. L’eleganza del vestito contrastava con la fasciatura alla testa e i capelli scarmigliati che gli donavano una strana aria selvaggia.
«Avevo ragione io, non è così? Lui è qui.»
Leila ignorò Jacobson e iniziò a camminare verso il marito. In testa solo la preoccupazione. Il dottor Howard aveva raccomandato ancora diversi giorni di riposo. Le mancavano pochi passi per raggiungerlo, il palmo già teso in avanti per ricevere il saluto d’etichetta.
«Groundale, ben trovato! Stavo per raccontare a vostra moglie come vi ho visto buttare di sotto Mary. »
La voce di Francis si sparse nel salone e, come un incantesimo di puro fiele, bloccò il tempo. Tutti i presenti rimasero sospesi, attaccati alle parole che, una dopo l’altra, colpirono Groundale in pieno volto.
D’istinto, Lewis avvolse con forza il pomo del bastone. Raggiunse Francis nel silenzio che era calato. «Sapete, Jacobson. Ne raccontate tante di cose. Chi può dirlo, magari quella mattina siete venuto da mio padre inzuppato d’alcol. Gli ubriachi vedono spesso cose che non esistono.» Parlò con estrema calma e riuscì a trattenere l’istinto di abbattere il bastone da passeggio contro la testa di fronte a lui.
Forse non era stata una buona idea venire a quel ricevimento. Percepiva Leila poco
distante e capì di essere completamente impazzito. Era vittima del desiderio. Non riusciva a stare lontano dalla moglie e questo lo inquietava.
In fondo, erano stati proprio sentimenti simili a esporlo alla lingua biforcuta di Francis.
«Vi ho visto, duca. L’avete fatto voi. Avete gettato vostra moglie di sotto.» Jacobson si umettò le labbra, in un gesto di deliberato piacere. «E a giudicare dallo sguardo di quella attuale, vi siete tenuto questo segreto per voi. Avete delegato alla corte.» Gli sfiorò appena la spalla, un lieve buffetto con l’indice e il pollice. «Siete un vigliacco.»
Lewis spostò la bocca tutta da un lato. Il bastone cadde a terra con un tonfo, mentre artigliava il colletto con la mano sinistra per permettere alla destra di schiantarsi con violenza contro il volto di Jacobson.
Il colpo fece ondeggiare la testa di Francis che annaspò. La schiena prese contatto con uno dei tavoli da gioco. Vari calici cascarono a terra in un fracasso di cristalli rotti.
Una cascata di sangue usciva dal naso di Jacobson che ancora non aveva smesso di sogghignare. Lewis lo raggiunse e alzò di nuovo il braccio, pronto a colpirlo ancora, e ancora, quel bastardo sapeva… lui…
La morsa di Lawrence intorno al suo polso gli impedì di proseguire nel suo intento. Incrociò lo sguardo con il padre e vi lesse una sola cosa: biasimo. Gli aveva garantito di essere lucido, attento, pronto ad aiutarlo e invece aveva ceduto alla prima provocazione.
Morgan arrivò ad aiutare il fratello.
E il re si fiondò su di lui con un’espressione che non lasciava spazio a dubbi sui sentimenti che l’attraversavano. «Groundale, vedo che siete in forze. Che cosa ne dite di accompagnarmi ad Hannover? Magari un cambio d’aria gioverà al vostro carattere irruento.»
La corte riprese voce in un solo colpo. Lo spettacolo era concluso e tutti avevano qualcosa d’interessante di cui parlare. Lewis si concesse una sola smorfia di rabbia, evitò il padre che tentava di trattenerlo e si apprestò a uscire.
«Lewis!»
La voce di Leila lo richiamò per un istante. I loro occhi s’incrociarono, ma individuò in quelli della moglie sentimenti che conosceva troppo bene.
Il giudizio, la paura.
Tutto ciò da cui era scappato due anni prima. Chiuse gli occhi e fuggì dal salone. Francis, dopotutto, aveva ragione.
Era un vigliacco.
Nella penombra della notte, i giardini di St. James diventavano ancora più poetici. La luce delicata della luna avvolgeva gli alberi e faceva risplendere d’argento le acque del canale.
Forse era la sua semplicità a renderlo tanto intrigante, ma Nora aveva sempre amato quel parco. Cercò di rilassarsi e non pensare a suo fratello, alla rissa con Francis, al viaggio che il re gli aveva imposto, nonostante la convalescenza non fosse ancora finita. Era stata tentata di seguirlo, ma lo conosceva. Non avrebbe aperto la sua stanza a nessuno. Non quando si trattava di Mary.
Alzò gli occhi verso un cielo limpido di stelle. Un manto nero puntellato di spilli d’oro che, di lì a poco, avrebbe accolto lo spettacolo più atteso della serata.
I fuochi d’artificio.
La principessa Carolina discuteva fitto con la duchessa di Kendal, ma lei non riusciva a seguire il senso del discorso, avvolta, suo malgrado, dall’aria poetica di una sera illuminata dalle lanterne e dal dolce profumo dell’aspettativa.
Henry era poco distante e chiacchierava con Walpole, il politico più eminente del partito Whig. Forse avrebbe dovuto raggiungerlo. Si erano parlati poco, dopo il bacio. Henry alzò per un momento gli occhi su di lei, la cosa la colpì, e la mise a disagio, ancora una volta vittima di un senso di colpa dai contorni sfocati, eppure così vivido da farla indietreggiare, al riparo, dietro le schiene di alcune dame.
«Posso farvi compagnia, Lady Nora?»
La profonda voce dell’italiano la fece voltare quasi di scatto. Incontrò gli occhi scuri e la mascella squadrata. Un sorriso istintivo le percorse le labbra. «Con piacere, Lorenzo.»
Il suo respiro agitato si perse nella prima esplosione che avvenne sopra le loro teste. Un tripudio di scintille d’oro che caddero veloci verso il basso, illuminando il cielo.
Rimase incantata e applaudì, mentre il cuore accelerava i battiti, sicura che gli occhi di Lorenzo fossero puntati in direzione della sua scollatura. Uno sguardo impudico che, invece di farla vergognare, accese lo spirito d’avventura che le albergava nell’anima.
La cascata d’oro e d’argento proseguiva sopra le loro teste. Lorenzo, abile esperto di corteggiamenti, poggiò una mano sull’avambraccio di Nora e con una piccola pressione la costrinse ad allontanarsi di qualche passo.
Tra l’andirivieni degli invitati estasiati riuscì a trovare un varco tra gli alberi, e s’inoltrò per un viale appartato, dove rimasero soli. La luce lunare e i bagliori dei fuochi artificiali donavano al volto della ragazza un’aria eterea e soave.
L’aveva attirata lì per tener fede alla sua missione, ma qualcosa nelle ombre danzanti sul volto di porcellana, fece breccia nella sua corazza di freddo calcolatore. Per un attimo scordò l’impuro compito di perdizione che doveva compiere, e lasciò che ogni dettaglio di quella giovane donna s’imprimesse nella sua mente.
Avvicinò, delicato, il viso a quello di Nora e ne saggiò le labbra rosa e invitanti che tremavano d’emozione.
Lei accolse il bacio, poi si tirò indietro. «Se mio fratello lo scopre, siete un uomo morto.»
«Vostro fratello ha altri problemi, in questo momento.»
Nora avvampò. «Comportatevi da gentiluomo. Non sono una donna di facili costumi.»
Lorenzo la vide pronta a lasciarlo da solo, in quell’alcova improvvisata fatta di rami, foglie e scie scintillanti. Allungò un braccio e la trattenne. Non disse nulla, lasciò che a comunicare fossero il silenzio e l’ardore dello sguardo con il quale l’accarezzò.
Nora non abbassò le iridi castane e, nonostante l’imbarazzo, contraccambiò un desiderio che faticava a rimanere nascosto sotto le frasi di circostanza.
Un attimo dopo, il polso piccolo e delicato gli sfuggì dalle dita e, in quell’istante, Lorenzo ebbe la conferma di quanto fosse profondo il sentimento che provava per lei.
La missione deviava verso qualcosa di molto più imprudente.
La raggiunse e le imprigionò ancora una volta il polso tra le sue dita. «Nora!» sussurrò, mentre avvicinava le labbra all’orecchio delicato, nascosto dai riccioli.
L’orecchino d’argento tremò sotto al brivido che la percorse. Le dita di Lorenzo s’intrecciarono alle sue. Un contatto caldo, ricco di promesse.
Stavolta non ebbe la forza di fuggire. Un istinto che tradiva ogni logica, ogni regola di buon senso, la travolse. Non fece nulla per sottrarsi a Lorenzo che si prese le sue labbra. Lasciò che quella lingua la saggiasse con estrema perizia e non prestò attenzione al senso di pudore che martellava nella sua mente.
Emise un gemito e Lorenzo la spinse contro un albero.
Gli orli delle dame sfilavano oltre i fitti cespugli dietro i quali erano nascosti. Sulle loro teste, i fuochi artificiali che continuavano a fiorire nel cielo, i bagliori che s’infrangevano contro il viso di Lorenzo, contro la mano che si era spostata verso le gonne.
Le dita si fecero strada sotto i pesanti strati di stoffa, lo sentì prendere contatto con le calze che le lambivano il ginocchio, salire su, verso il punto che, in teoria, solo un marito aveva il permesso di toccare.
Immaginò Lewis infilzare Lorenzo per l’affronto, sua madre impallidire di dolore per la vergogna, il cuore di Henry spezzarsi in due.
Ma ogni pensiero venne inghiottito dal tocco di quelle dita che iniziarono a muoversi, sicure. Sentì l’altra mano dell’italiano scostare la scollatura, la lingua avvolgerle la punta del seno, per poi seguire il profilo del collo.
Le dita si fecero più pressanti.
Nora scostò il capo indietro, verso il cielo ancora abbagliato dai lapilli scintillanti. Il ventre che si muoveva al ritmo delle dita di Lorenzo. Un brivido caldo che s’irradiava lungo il corpo, le gambe che tremavano, tese e cedevoli allo stesso tempo.
Tornò a baciarla e Nora schiuse le labbra in un ansito di piacere, ancora schermato da una verginità il cui pensiero la riportò al mondo reale.
Scossa, con le gambe che stentavano a sorreggerla, si staccò da lui, portò una mano a coprire i seni e ansimò, mentre sentiva la vergogna imporporarle le guance.
Portò la scollatura nella posizione originaria, e faticò a staccare gli occhi da Lorenzo che la guardava, la bramava.
Si chiese per quanto ancora avrebbe potuto resistergli, ora che le aveva fatto assaggiare il suo tocco.
Senza dire nulla, agitata dal piacere che le accarezzava il ventre, con il sapore di un desiderio in bilico sulle labbra, lasciò quell’alcova, insieme all’ultimo fuoco artificiale che esplose nel cielo e ricadde, quasi malinconico, in lunghi raggi, prima di lasciare il cielo in preda al buio.