Capitolo 13
Lewis mise mano alla maniglia. La porta di legno cigolò con un lamento e mise piede all’interno della taverna. Gli abiti dimessi lo rendevano uno dei tanti avventori di quei luoghi in cui le vite di solitari viaggiatori s’incrociavano per un istante. Dopo una lunga cavalcata, gli avventori potevano scrollarsi la polvere di dosso e i propri pensieri, per godersi un momento di riposo. Una buona birra, un po’ di compagnia.
Camminò fino al tavolo e ordinò un boccale. Solo poche ore, poi sarebbe dovuto partire per Ahlden. Un’incombenza che il padre gli aveva affidato e da cui non poteva fuggire. Affondò le labbra nella schiuma e fu di nuovo attraversato da un moto di stizza. Le nocche si scaldarono sotto il ricordo del pugno tirato a Francis e il cuore guizzò, colpevole.
Se ne era andato senza dire nulla. Era partito il giorno dopo il ricevimento, come un ladro. Incapace di guardare Leila negli occhi.
Per non vedere il riflesso dell’assassino che era.
Preferiva stroncare sul nascere ciò che provava per lei, piuttosto che morire sotto uno stillicidio fatto di dubbi, parole non dette. E paura.
Finì la birra. Gli occhi vagavano indifferenti sugli avventori. Contadini, qualche mercante. Parlavano un dialetto stretto, che faticò a capire nonostante la sua padronanza del prussiano.
Accarezzò il boccale. Il vento giocava con gli alberi oltre le finestre e sul tavolo danzavano ombre e luci, in un ritmico inseguirsi. Il profumo del pane appena sfornato, il sudore degli uomini, la polvere e il cinguettio degli uccelli. Chiuse gli occhi e cercò di farsi cullare dalla calma di quel posto, dalla semplicità della vita che scorreva intorno a lui. Senza intrighi. Senza Francis.
Senza Leila.
Spalancò le palpebre e prese contatto con la giovane ragazza seduta di fronte a lui. Bionda, snella. Pallida, segnata dagli stenti. Gli occhi di un verde color smeraldo. «Vuoi compagnia?» Gli domandò, esplicita.
La voleva? Le pupille gli caddero sulla generosa scollatura. Sui capezzoli che s’intravedevano sotto la stoffa di grezzo cotone. Le fece un segno di assenso. La giovane lo invitò al piano superiore, in una camera con un vecchio baule consumato dal tempo, un letto di paglia e coperte di cotone che sapevano di campagna e di umido.
Lewis afferrò il polso della ragazza e la costrinse contro il muro, la baciò con foga, le scostò il vestito. Affondò il capo tra quei seni generosi. La pelle della giovane sapeva di fieno. D’innocenza.
Lewis la osservò, il respiro accaldato d’eccitazione, i capezzoli turgidi, in attesa. La visuale sul quel corpo giovane e fremente, finì per farlo pensare a Leila. Il desiderio si fece così pressante che trattenne a stento un gemito, ma non era compito di quella ragazza soddisfarlo.
Scosse il capo. «Rivestiti.» Le diede qualche moneta.
Sedette sul letto, le mani tra i capelli. Quanto era stato stupido ad andarsene così. Senza una sola parola.
Diede un pugno alle vecchie assi del letto. E rimase in silenzio, con l’angoscia di ritrovarsi, al suo ritorno, di nuovo solo.
«Qualcosa vi turba, signora?»
Una delle dame di compagnia aveva alzato il capo dal libro e la guardava, preoccupata. Sofia Dorotea si era accorta troppo tardi del sospiro sfuggito ai pensieri. «Nulla, è tutto a posto» le rispose, con un sorriso di circostanza.
Una giornata iniziata con uno splendido sole si era trasformata in un cupo temporale. Continuava a piovere, i vetri tremavano sotto le sferzate dell’acqua. Una luce grigia e smorta filtrava all’interno della stanza, rendendo ogni cosa più triste.
Il suo riflesso la fissava: una donna segnata dalle rughe degli anni, dal volto rotondo, emaciato, pettinato con una crocchia di ricci striati di bianco. Il tempo scorreva inesorabile, portandosi via le ultime tracce di ciò che era stata. Si avvicinò al tavolo da toletta e prese il piccolo cofanetto, sciupato e sbiadito, come i ricordi che conteneva.
L’aprì, ormai aveva perso il conto di quante volte aveva messo in piedi quel rito, negli ultimi mesi. Sfogliò le lettere ingiallite, i bigliettini che raccontavano del suo amore segreto. Le parole del conte Philip Königsmarck erano ancora in grado di farle battere il cuore. Trattenne a stento l’ennesimo sospiro malinconico, mentre la mano scivolava verso il ventre.
Anno dopo anno, si era illusa di sentire meno dolore, di dimenticare i sentimenti che la legavano al conte svedese, ma era stata una battaglia inutile.
Rilesse ancora una volta le promesse di un amore a cui non era mai stato permesso di sbocciare. Le speranze di un uomo che l’aveva amata con passione e devozione.
Si domandò come fosse possibile che, dopo ventisei anni, il suo corpo ricordasse ogni cosa
dell’amante, i baci delicati, il tocco, il respiro.
Ritirò le lettere e mise da parte il biglietto che le era giunto poche settimane prima. Una frase fredda e lugubre che la metteva a conoscenza di una notizia tremenda, una tragedia imprevista che poteva compromettere ventisei anni di silenzio.
Continuò a osservare la pioggia che cadeva oltre il vetro, e si sentì più che mai sola, confinata ad Ahlden, i figli e gli amici più cari tutti lontani, a Londra.
Decine di gocce scivolavano lungo il suo riflesso, lo stillicidio di un esilio che le sembrava eterno. Eppure, nonostante tutto, era riuscita a trovare un po’ di pace. Circondata da dame, libri e musica, con un giardino tutto suo dove passeggiare, era quasi riuscita a dimenticare l’odio che provava per suo marito Giorgio, quasi a smorzare il dolore per la perdita di Philip.
Nell’ombra, dimenticata dal resto del mondo, era rimasta a osservare gli Hannover diventare regnanti d’Inghilterra, gioendo per suo figlio Augusto, destinato a seguire il padre sul trono di uno dei regni più potenti d’Europa.
Augusto, la cui eredità vacillava, in balia di un segreto che forse non era più tale. Tremò, agitata dai cupi pensieri, e fissò i giardini di Ahlden avvolti da una fine e vaporosa umidità. Un cavallo nero avanzava verso il cancello principale, in sella un uomo imbardato in un mantello e con il tricorno calato sugli occhi.
Visite. Era ormai luglio inoltrato. Voleva dire che suo marito Giorgio era a Herrenhausen per trascorrere l’estate. E quello doveva essere il messaggero che portava le lettere di suo figlio e di Marielene Hawk.
Poco dopo, fu proprio il figlio della sua migliore amica a essere annunciato. Ebbe un tuffo al cuore. Tentò di darsi un contegno e prese posto sulla poltrona.
Lewis Hawk affidò il mantello inzuppo d’acqua a un domestico e tolse il tricorno. Fu annunciato a Sofia Dorotea, regina mancata d’Inghilterra, ed entrò con un sorriso gentile.
«Mia signora.» Le prese la mano e la baciò con deferenza. «Come state?»
«Non mi lamento. Voi? Che cosa mi raccontate?»
Gli occhi castani di Sofia lo scrutarono con vivo interesse, una luce carica di tenerezza. Uno sguardo che lo mise vagamente a disagio. «Non so se vi è giunta voce, ma sono di nuovo un uomo sposato. Con una principessa araba, pensate un po’.»
«Sì, una mia conoscente giunta da Londra mi ha raccontato.» Tornò a prendergli la mano in un gesto confidenziale. Lewis aggrottò appena le sopracciglia.
«Siete felice?»
«Milady, fate domande piuttosto complicate, sapete?» Sospirò a mezze labbra, mentre sentiva la pressione delle dita di Sofia farsi più forte. Quegli occhi lo scrutavano con una tale curiosità, e un tale affetto, che iniziò a sentirsi sempre più a disagio. Con un gesto lento e cortese, e la scusa di porgere il plico di lettere, sfilò la mano da quella della donna. Sofia lo prese con gratitudine e posò gli occhi sulla ferita al centro della sua fronte.
«Che cosa vi è successo?» Le dita salirono a sfiorargli la piccola cicatrice.
«Una brutta caduta da cavallo.»
«Mi dispiace.» Sofia affidò il plico di lettere alla domestica.
«Non le leggete?» le domandò.
«Non vi è alcuna fretta.» Sorrise ancora.
Rimasero così per qualche istante, a fissarsi, con la pioggia che ticchettava sul vetro, il profumo del tè appena servito dalla domestica e il sapore malinconico che avvolgeva ogni pezzo di mobilio di quella camera arredata in vecchio stile.
Lewis osservò il profilo delicato di Sofia, la sua fierezza e la dolce eleganza nei modi. Con i ricci castani colorati di riflessi oro rossicci, gli occhi grandi di un castano luminoso, era una donna ancora affascinante e bella, nonostante l’inclemenza del tempo.
Arguta, amante delle arti, vivace e indomita. Gli inglesi l’avrebbero amata molto come regina.
Fu sul punto di congedarsi, quando Sofia, per l’ennesima volta, gli artigliò una mano. «Sono preoccupata. Ho bisogno che voi parliate con vostro padre e vostra madre di una questione. Ma dovete farne cenno solo a loro. Mio figlio non deve sapere una parola di quello che sto per dirvi.»
Lo sguardo d’apprensione di Sofia gli fece accartocciare le sopracciglia in un misto di perplessità e presentimento. «Che cosa vi preoccupa, milady?»
«Conoscevate Hans, vero?»
«Sì, il vostro fedele maggiordomo.»
«Da quasi trent’anni.»
«Non mi pare di averlo visto, entrando.»
«Purtroppo è morto.» E stavolta la stretta intorno alla sua mano si fece pressante, dettata dalla paura che trapelava senza errore dal volto di Sofia.
«Mi spiace, deve essere stato un grave lutto per voi. Com’è successo?»
«Omicidio.»
«E chi mai potrebbe averlo ucciso?»
«Non ne ho idea, ma so che è stato torturato.»
Lewis rimase in silenzio. Scrutò a fondo il volto davanti a lui. Una donna che aveva passato la sua gioventù tra amori proibiti e cospirazioni. «Era a conoscenza di qualche vostro segreto?»
La vide chiudere gli occhi. «Di uno molto importante.»
«Tornerò a Londra solo tra un mese. Se volete che vi aiuti in qualche modo, vi devo chiedere di mettermi a parte di ciò che può aver rivelato Hans.»
Le labbra di Sofia tremarono, e una lacrima fu catturata dalle lunghe ciglia che tornarono a coprire gli occhi castani. «Non ho il cuore di rivelarvelo, Lewis. Mi odiereste, se vi confessassi tutta la verità. In fondo la mia è solo una supposizione… non ho alcun diritto di rovinarvi la vita, di infrangere la promessa che feci a vostra madre ventisei anni fa.»
Lewis sentì il suo cuore battere con violenza contro il costato. Le parole appena ascoltate avevano provocato uno strano e viscido brivido d’inquietudine che, dalla schiena, si era intrufolato nel ventre e giù, fino all’anima.
«Dunque non potete rivelarmi questo segreto, ma siete terrorizzata che sia stato scoperto, dico bene?»
«Ne va del futuro di mio figlio
, Lewis.»
C’era stato uno strano sospiro, un’enfasi che aveva posto l’accento su ogni lettera della parola figlio. Solennità e mistero, seguite da uno degli sguardi più dolorosi e schietti che Lewis avesse mai ricevuto in vita sua.
Il cuore divenne un martello furibondo. Il sangue iniziò a fluire come un mare in burrasca le cui onde s’infransero contro la testa. Una fitta lancinante d’ansia lo costrinse a serrare le mascelle.
La stanza era divenuta d’improvviso soffocante, come l’assurda intuizione che aveva preso a serpeggiare nella mente.
«Fin quando starò ad Hannover, cercherò di capire che cosa è successo ad Hans, e chi è stato.» Le strinse la mano. «Potete fidarvi di me.»
Hampton Court
era un palazzo immenso, intricato, pieno di corti interne, viali e statue. Leila ne era rimasta affascinata e, per un po’, l’esplorazione di quel fastoso complesso, con le
scale, gli affreschi, i giardini che le offrivano ogni giorno uno spettacolo diverso, l’aveva distratta dalla mancanza di Lewis. E dal modo in cui se n’era andato.
Era una bella giornata di sole, e i raggi si allungavano sugli archi e le finestre del cortile interno, quello della fontana. Le quattro facciate del palazzo abbracciavano un prato ben curato al cui centro se ne stava una vasca rotonda, regale nella sua semplicità, con uno zampillo d’acqua che produceva un armonioso rumore. Il bianco delle finestre splendeva sotto la luce dorata, e risaltava contro il rosso dei mattoni.
Il portico che seguiva l’intero perimetro del cortile offriva un’ombra piacevole e i suoi passi rimbombavano sotto le volte.
Una risata le giunse alle orecchie. Individuò Aileen, dall’altro lato, che chiacchierava in compagnia di Ahmed. Qualcosa, nel modo in cui il suo console guardava la donna, la mise a disagio. Un lieve pizzicore alla base del collo. Uno strano moto di gelosia.
Richiuse il ventaglio e iniziò a camminare. I passi risuonavano con maggior decisione e l’ampia gonna celeste frusciava sul pavimento.
Li raggiunse nel momento in cui Ahmed si era chinato verso il volto di Aileen, in un gesto confidenziale che aumentò la gelosia. Provava per Ahmed solo una profonda amicizia, ma la sua dama di compagnia sembrava volersi appropriare di tutto ciò che le apparteneva.
«Principessa.» Ahmed la salutò con la solita deferenza, ma qualcosa negli occhi intensi dell’arabo era mutata. C’era una strana indecisione, una vaga nota d’imbarazzo.
«Ahmed, per favore, potresti lasciarmi da sola con Aileen?» gli domandò in arabo. Il console obbedì, baciò la mano della dama di compagnia e s’incamminò sotto il portico.
«Aileen, devo parlarvi.» Fu diretta, decisa. Senza preamboli.
L’altra sbatté i suoi grandi occhi azzurri, le prese la mano con un sorriso carico di entusiasmo. «Leila, aspettate. Voglio farvi vedere una cosa.»
Senza darle il tempo di reagire, Aileen iniziò a camminare. Ignorò tutte le sue proteste e si fermò solo davanti a una porta, da cui proveniva un intenso profumo di dolci. «La cucina di mastro Tosier.» Le spiegò, sospingendo appena l’uscio.
Un vapore intriso di zucchero, spezie e calore investì Leila. La curiosità ebbe, per un momento, il sopravvento e gli occhi scrutarono attenti gli scaffali in muratura carichi di barattoli, le donne affaccendate ai fornelli e l’uomo nella camera adiacente, intento a tostare dei baccelli che inondavano l’aria di un aroma intenso, inebriante.
«Mastro Tosier. Scusate l’intrusione, ma volevo far vedere il vostro lavoro alla duchessa di Groundale.» Spiegò Aileen. «Leila, lui è il cioccolatiere reale. Li vedi qui piccoli fagioli che sta
tostando? Ci prepara una bevanda deliziosa.»
Leila rimase per un po’ a guardare il lento lavoro dell’uomo e del garzone, in quel momento impegnato a pestare i baccelli.
«Non vedo l’ora di farvela assaggiare…»
Interruppe in maniera brusca quella visita. Trascinò fuori Aileen e la squadrò con fare poco amichevole. «Pensavate di distrarmi con la cucina?» Sbottò, irritata. «Ho bisogno di risposte e sono stufa di essere ignorata.»
Aileen cambiò espressione. Come un sole coperto da una nuvola improvvisa, il viso divenne spento, gli occhi torbidi. «Non sono io a dovervi dare le risposte che volete» mormorò, il busto che cercava sostegno contro la colonna, sotto il peso di quel discorso.
Leila iniziò a perdere la pazienza. «Sono stata al mio posto. Ho cercato di comportarmi nel miglior modo possibile. Di dare a Lewis il tempo necessario ad abituarsi a questo matrimonio. Ma da quando ho messo piede qui, non sento altro che mormorii al mio passaggio. E parlano di un omicidio. Mio marito, appena si tocca l’argomento, sfugge, senza nemmeno il coraggio di guardarmi in faccia, quasi come se fosse sul serio colpevole.» Prese la mano di Aileen con calore. Una richiesta d’aiuto che aveva taciuto per troppo tempo. «Vi prego. Voi lo conoscete…» Si morse appena il labbro, costretta ad ammettere la verità «…molto meglio di me. Conoscevate anche Mary.»
Aileen abbassò il capo. Un sospiro fece volteggiare la ciocca di capelli scesa sul viso. «Non posso.» C’era dispiacere negli occhi azzurri, ma anche una chiara e invalicabile determinazione.
Leila le lasciò la mano. «Quindi è tutta qui la vostra amicizia, Aileen? Mi lascerete macerare nel sospetto di essere sposata a un assassino?»
La donna si staccò dal muro e la fissò. «È questo che pensate davvero di Lewis?» Fu la rabbia, questa volta, ad attraversare le iridi cristalline.
«Non so che cosa devo pensare! Nessuno mi parla!» urlò, disperata. «Tutto quello che ho sono solo voci… Francis.»
«Quell’uomo odia Lewis in maniera ossessiva. Farebbe di tutto per screditarlo. E l’ha fatto, ricoprendolo di vergogna.»
Leila scosse il capo. «Che cosa state proteggendo tutti? Se non è stato lui, perché non parlate?»
«Lewis amava Mary. E Mary lo ha tradito con quell’infame di mio fratello Douglas. Tutto quello che so, che tutti sanno, è che Mary è cascata giù da quella finestra dopo una lite
furibonda con Lewis, che era ubriaco. Lui parla di un incidente. Sostiene che si sia sbilanciata troppo oltre il ballatoio. Forse Mary si è buttata di proposito e non vuole accettarlo. Era incinta quando è morta. Di un figlio suo.»
Cadde per un attimo il silenzio e Leila tremò, quasi come se, tra loro due, fosse appena passato il fantasma di quella donna defunta. L’unica che, forse, era stata in possesso della chiave per giungere al cuore di Lewis.
«Nessuno sa come siano andati i fatti. Solo Francis, per puro caso, ha visto Mary cadere. E tutti noi, da due anni, facciamo una sola cosa: ci fidiamo di Lewis.» La squadrò con aspra severità.
Leila sentì un giudizio netto in quello sguardo. Aileen l’accusava di non capire la tragedia in cui era rimasto invischiato il marito e la cosa la ferì. «Voglio solo cercare di conoscerlo, di capirlo…» bisbigliò, afflitta.
Aileen le sfiorò appena la spalla. «Volete davvero comprendere Lewis, amarlo?» le domandò. «Per farlo, dovrete convivere con i misteri che vedete danzare nel profondo dei suoi occhi.»
Leila percepì un malessere alla bocca dello stomaco. C’era una strana consapevolezza nella voce della donna. «Tu ci sei riuscita, non è così?»
«No.» E un’espressione più dolce si fece largo sul volto. «Nessuno ci è riuscito Leila, Lewis è come l’acqua, quando pensi di averlo afferrato ti è già sfuggito dalle mani.»
Continuava a piovere e il rumore delle gocce contro i vetri lo infastidiva, sembrava un tamburo che scandiva quegli istanti carichi di oscuri pensieri.
Lewis picchiettò le dita sullo scrittoio ingombro di libri e casse. Tutto ciò che era rimasto degli averi di Hans Schum. Le sue indagini erano state piuttosto rapide. Una mattina il maggiordomo era sparito e le sue stanze nel castello di Ahlden messe sottosopra nottetempo e la stessa sera, un garzone assunto da qualche mese si era dileguato nel nulla, senza ritirare la paga settimanale. Gli altri domestici dicevano che quel tizio aveva un forte accento, pareva italiano.
E poche settimane prima, un torrente aveva restituito il corpo martoriato di Hans.
Caricò la pipa, mentre socchiudeva gli occhi. Il fumo gli investì palato e narici, l’oppio che calmava i sensi confusi.
L’ossessiva rincorsa dei dettagli di un’infanzia. Bisbigli dei genitori ogni volta che si parlava di Ahlden e di Sofia. La strana espressione di suo padre quando si affrontavano i pettegolezzi giacobiti sulle origini di Giorgio Augusto. Sulla sua presunta illegittimità, sul tradimento della madre con Königsmarck.
Sbuffò una nuvola di fumo. Stavolta il tabacco e l’oppio avvilupparono date e stagioni. E l’improvvisa voglia di sapere gli fece protendere le braccia verso i tomi di libri ed effetti personali.
Iniziò ad aprire quaderni ricchi di annotazioni, antiche stampe di volumi in tedesco e inglese. Cianfrusaglie di ogni tipo, vecchi abiti.
La pipa che fumava come un camino d’inverno ai lati della bocca, la mente che scartava l’ipotesi di tornare a Ahlden e strattonare Sofia fino a quando non gli avesse rivelato la verità. Una sua nuova visita avrebbe potuto destare sospetti, e torbidi individui, a quanto pareva, si aggiravano intorno al castello.
Frustrato da troppe domande senza risposta iniziò a scaraventare i libri contro la parete, ma non trovò nulla di utile. Si mise in piedi e scrutò ogni angolo della stanza. Forse non c’era nulla da trovare. Tutto ciò che Hans sapeva se l’era portato via con sé, nella tomba. Camminò avanti e indietro, diede un colpo di tacco a tutte le assi di legno del pavimento. Fino a quando una, in fondo alla stanza, coperta per metà dal letto, non gli rispose con un suono più vuoto.
Si calò e armeggiò per scostarla. Infilò la mano nell’intercapedine e riemerse con un libro senza nessuna scritta sulla costa.
Lo aprì, una fitta grafia ricopriva di tedesco numerose pagine.
Era un diario. E non era quello di Hans.
Sulla prima pagina una dedica al defunto maggiordomo.
Conserva queste parole: la mia vita o fiorirà, oppure verrà dimenticata nell’oblio della cospirazione. Come amico, conserva i miei sentimenti, affinché qualcuno un giorno possa ricordarsi di me.
Poche frasi rivelarono lo sfogo di un innamorato Philip Königsmarck. Il suo amore per Sofia, la sua tresca con la contessa Von Platen, l’odio verso Giorgio. Nessuna rivelazione così strana: notizie ormai di pubblico dominio in quasi tutte le corti europee, ma verso la fine comparve una confessione che gli gelò il cuore.
Lewis si sedette sul pavimento. La pioggia che, incessante, gli martellava le orecchie. Il fumo dell’oppio iniziava ad annebbiargli la mente, ma anche ad acuirgli i sensi, a fargli percepire i muscoli tesi, il sangue che rifluiva sotto la pelle.
E pensieri che, neri, si alternavano davanti agli occhi. Sfogliò le pagine, la carta quasi evanescente tra le dita.
Rilesse all’infinto quelle parole, quasi come se temesse di vederle sparire all’improvviso,
fino a quando il significato di ciò che stava leggendo lo colpì con la stessa violenza di una pinza arroventata infilata nelle viscere.
La testa girava sempre più veloce. La pipa gli cadde sulle ginocchia.
La mente esplose sotto un’improvvisa pioggia di ricordi.
Il temporale, il fango, le spade. La faccia di Douglas. Parole che non riusciva ad afferrare, un discorso di cui non trovava più il senso.
L’eco di una frase che, più chiara, si stagliava contro la nebbia.
Il caro duca di Evonshire ha più di un segreto nel suo passato.
Qualcosa di molto pericoloso.