Capitolo 14
Lewis spronò il cavallo nel tentativo di scaricare la tensione che sentiva addosso. La spada gli batteva sul fianco a ritmi regolari, mentre il cuore non riusciva a starsene buono sotto l’impulso della mente che rincorreva, assillante, il frutto del suo viaggio ad Ahlden.
All’orizzonte comparve il lungo profilo di Hampton Court , i mattoni rossi e le guglie bianche risaltavano contro il pallore dell’alba. Pennellate di un sole ancora debole si allungavano sull’edificio che il cardinale Wolsey aveva donato a Enrico VIII.
Hampton Court lo aspettava alle luci di un mattino che avrebbe presto assunto i tetri contorni di una resa dei conti.
Entrò nel cortile, affidò il cavallo alle cure del primo domestico che gli capitò a tiro e salì le scale. Doveva andare dal padre e affrontarlo, ma gli stivali lo portarono verso le stanze private a lui assegnate.
Entrò nella sua, si liberò del giustacuore e del tricorno, impolverati dalla lunga cavalcata, e rimase un istante immobile davanti alla finestra.
Fuori stava sorgendo uno splendido giorno d’estate, con il cielo terso e il verde degli alberi e dei prati che brillavano sotto il sole appena nato. Spalancò la finestra, la frizzante brezza tinta di profumi lo investì. I giardini di Hampton Court gli diedero un cordiale e caloroso benvenuto carico di colori.
«Siete tornato.»
Il viso di Leila era spuntato tra la porta e lo stipite, un sorriso incerto le illuminava gli occhi.
Lewis deglutì e ignorò la fitta troppo simile alla paura che attraversò lo stomaco. Sfilò la giacca e la camicia, deciso a ignorare il discorso sospeso tra loro due. «è stato un lungo viaggio.» Allungò una mano verso il catino che riempì d’acqua. «Spero ve la siate cavata bene, in queste settimane.»
«Ho letto molto.» Leila sembrava non provare alcun rancore per il modo in cui l’aveva lasciata due mesi prima, ma in fondo allo sguardo della moglie vedeva comunque luccicare la lama del sospetto. Prima o poi, avrebbe dovuto farci i conti. Forse doveva prendere il coraggio a due mani e confessarle com’erano andate le cose.
No, non ancora.
Continuò a sfregarsi il viso, poi prese un fazzoletto e si asciugò la fronte. Fissò Leila: la moglie era sospesa in un’espressione carica di aspettativa.
Decise di distrarla. «Potremmo fare una cavalcata insieme se vi va, questo pomeriggio.» Posò la pezza e trattenne a stento una risata.
Il suo tentativo di offrile la sua compagnia era stato espresso con un doppio senso che, fin da quando era tornato, gli solleticava i calzoni.
La moglie però non parve accorgersene. «Se non siete impegnato, mi farebbe piacere. Prima però, avrei bisogno di parlarvi.» Un sorriso agitato le attraversò le labbra. «Ma ora riposatevi, ne avete bisogno.» E con lentezza, gli diede la schiena per tornare sui suoi passi.
Al diavolo tutto.
La raggiunse e le posò le mani sulle spalle, inchiodandola davanti alla porta. Famelico, calò le labbra sul collo e lo baciò con forza, quasi un morso per dissetare la sete mai sopita fin dalla prima volta che aveva giaciuto con lei.
Leila s’irrigidì per un attimo, sfuggì dalla sua presa.
Lewis fremette. Negli occhi scuri era balenato qualcosa di molto più pericoloso del dubbio. La fermò e la costrinse di nuovo verso il suo torace, le mordicchiò un orecchio mentre le avvolgeva il ventre con una mano. «Avete paura di me?» le sussurrò in un sibilo.
«No. Ma non potete continuare a prendermi e lasciarmi come vi pare. Non potete tacermi ancora la verità.» Aveva socchiuso gli occhi, il corpo cedevole contro al suo.
Lewis lasciò scivolare le dita sulla stoffa e l’alzò fino ad arrotolarla sull’ombelico. «Francis mi odia. Tutto ciò che vi ha detto è una bugia.» Cercò le labbra di Leila per mettere a tacere la menzogna che le aveva appena raccontato. La fece poggiare contro il muro, prima di farle scivolare di dosso la mussola.
Un gesto lento, per godersi la pelle dorata che veniva esposta ai suoi occhi. Lo sterno, le curve dei seni, i capezzoli, il collo. Infine, della camicia da notte non rimase altro che uno straccio appallottolato sul pavimento.
«So che Francis è un uomo crudele, ma ho comunque bisogno di sapere.» Leila aveva parlato con decisione, le labbra schiuse in un richiamo per lui irresistibile.
«Un incidente.» Tornò ad abbracciarla, lasciò che le dita gli sfiorassero la schiena. «Un tragico, inaspettato incidente.» Mentì per la seconda volta. Non voleva permettere ai fantasmi del passato di allontanarlo ancora da lei.
Le avvolse con la mano il fianco, fino ad accarezzare il gluteo rotondo e sodo, scivolò più giù, sulla coscia, sopra il ginocchio, fino a sollevarle la gamba che aderì al suo fianco in un gesto fluido e naturale.
Leila si perse nelle iridi castane, accese dal desiderio. E non vi trovò nessun demone, nessuna scintilla di un segreto non rivelato. Solo passione sfrenata e incontrollabile. Una fiamma che ardeva solo per lei. Non aveva più paura: in un attimo, i dubbi e le incertezze che l’avevano attanagliata nelle ultime settimane erano svaniti.
La mente era prigioniera di quel momento. Ogni sua percezione concentrata sul tocco che le sfiorava l’incavo della vita, poi il fianco, poi di nuovo su, verso il seno.
Alzò anche l’altra gamba e si ritrovò compressa tra Lewis e il muro. La tappezzeria le accarezzava la schiena e la pelle di Lewis, di nuovo così vicina e calda, strusciava sulla sua in una carezza quasi lancinante. Una tortura che era allo stesso tempo estasi e tormento.
La prima volta era stata concentrata sulle proprie reazioni emotive, sulla paura di spezzarsi contro gli antichi incubi.
Ma quel giorno assaporò ogni attimo, ogni goccia di sudore che riluceva sul torace tornito. Le dita affusolate le tormentavano i seni, ne stuzzicavano la punta con abile maestria. E tornarono a saggiare la sua femminilità, fino a donarle una carezza profonda che le strappò un gemito, e poi un altro. Le mani di lui, rese forti da anni di scherma, esperte dall’aver saggiato decine di donne, la stavano tenendo sospesa in un’estasi che dosava delicatezza e avidità.
Il suo bacino iniziò a muoversi come le danzatrici arabe. Alti e bassi, come le onde del mare. Le labbra assetate come se fosse persa nel deserto. Continuò a muoversi, la tappezzeria che quasi le graffiava la schiena e quelle labbra che strusciavano sul viso, sul collo. Le sembrava di essere sul punto di esplodere, accaldata, sempre più compressa dal petto che aderiva contro al suo.
Emise un altro gemito, quasi una richiesta d’aiuto. Avvolse le braccia intorno al collo di Lewis, mentre lui le avvolgeva i fianchi e la schiena, in una stretta che non lasciava scampo. La fissò arrogante. E travolgente.
Entrò in lei con un affondo deciso, le strappò un urlo a mezze labbra che le fece inarcare la testa, sotto le spinte sempre più forti e possessive. Puntò la schiena contro il muro, mentre il bacino seguiva l’onda dei movimenti. Il ritmo aumentò con affondi quasi dolorosi, ogni fibra della sua pelle era tesa, i seni fiorenti che danzavano all’unisono con le spalle del marito.
Nella testa di Leila c’era la musica ritmica e allegra di Mulay. Il caldo sole d’Arabia a bruciarle anima e corpo.
La loro pelle era ricoperta dal sudore, dal profumo intenso della loro passione. Ansimò, ancora.
Il bacino creò un arco tra il muro e il corpo di Lewis. Si muoveva dentro di lei, irruento, prepotente, continuava a stringerla, obbligandola a rimanere concentrata sul ritmo, sul caldo spasmo che le incendiò il ventre. L’attirò con una spinta decisa, forzandola ad aderire ancora una volta contro di lui.
Non era mai stata così appagata in vita sua, pensò, prima di esplodere in un tripudio di sensi, di scintille, di ansiti che la lasciarono priva di forze.
Rimasero abbracciati, accaldati, sfiniti. Leila scivolò lungo il corpo del marito con un sorriso. Insieme, tornarono a respirare con regolarità.
Posò la testa là dove batteva il cuore impavido del duca di Groundale, e rimase in silenzio ad ascoltarne la melodia serena che, in quella mattina sfavillante, apparteneva solo a lei.